lunedì 5 agosto 2013

Tu che mi fai



« Se rimarrete radicati nella mia parola, sarete davvero miei discepoli. Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. »

(GIOVANNI, VIII, 31-32)

La volontà di potenza è innanzitutto la pretesa di determinare da sé il proprio destino: è la pretesa di diventare ciò che si vuole, è il self-made man della cultura statunitense. La volontà di potenza è il peccato originale della tradizione cristiana, la pretesa di determinare da sé il giusto e lo sbagliato, anzi: è la pretesa di creare un giusto e uno sbagliato, in relazione a ciò che si sceglie di diventare. La volontà di potenza dimentica di considerare la realtà per quello che è, cominciando invece ad interpretarla secondo schemi, ossia arbitrariamente.
La volontà di potenza nasce da un frainteso modo di gestire la naturale ricerca di salvaguardia tipica di ogni essere vivente: impedisce all’uomo di spendersi nel reale odierno per ciò ch’egli è, spingendolo a proiettarsi in un modello futuro arbitrariamente scelto e da raggiungere per la propria realizzazione. La volontà di potenza, dimenticando la realtà per ciò ch’essa è, dimentica il presente per indirizzarsi in un ipotetico futuro, alla luce di una certa interpretazione del passato. La volontà di potenza è frutto, magari inconscio, di un monoteismo autocratico della mente: una mente che produce “pensieri” non più riconosciuti come processi dell’uomo integrale; una mente che produce “pensieri” con i quali l’uomo si identifica ed ai quali l’uomo si sottomette. Perciò, la volontà di potenza è innanzitutto idolatria di qualcosa non soltanto più piccola della realtà, ma addirittura di colui che l’ha prodotta: l’idolatria, poi, chiede sempre sacrifici umani.

Il simbolo del Crocifisso non ricorda un evento storico, fondativo di un culto: esprime invece la realtà della condizione umana redenta. Appeso alla croce sta l’IO: la volontà di potenza come pretesa umana di determinare da sé la propria natura ed il proprio destino. Cristo è l’uomo nuovo, l’uomo che non sacrifica se stesso alla volontà di potenza, ma la propria volontà di potenza a una realtà ch’è più grande di lui e che lo precede: frutto di questo sacrificio non è allora l’esaurimento di chi attinge solo dalle proprie limitate forze, ma la resurrezione come dono di qualcun altro.
Nella parabola evangelica dei talenti (Mt 25, 14-30), nessun servo fruga nelle tasche del padrone per scegliere da sé quali e quanti talenti attingere. Nella parabola dei talenti, ciò che un servo è viene determinato, nel numero dei talenti, dal padrone. Nella parabola dei talenti, il servo buono è colui che impiega quanto ricevuto e non colui che arroga a sé il ricevuto, credendo di poterne fare l’uso che il proprio arbitrio gli suggerisce. La parabola dei talenti parla della salvezza del Crocifisso, colui che riceve se stesso da un altro e che trova la propria dimensione nello spendersi nel reale per ciò che gli è dato di essere. Il servo buono, nella parabola dei talenti, non è infatti colui che non si spende, né colui che spende del proprio per inseguire una propria gioia distinta da quella del padrone. Il padrone è la realtà: il servo accetta di essere donato a se stesso dalla realtà ed accetta di riceversi in dono nello spendere, ciò che gli è dato, con il reale.

L’atteggiamento etico dell’uomo è l’atteggiamento di colui che si spende con il reale nell’onestà di quello che è, di quello che il reale gli ha dato d’essere. L’uomo etico non è colui che non intende far soffrire gli altri, ma colui che spende onestamente la propria natura, quale ch’essa sia, restando aperto al nuovo che si fa incontro. L’uomo etico non riduce a sé il mondo tramite la forza delle proprie braccia o della propria ragione: egli si compromette con le cose nella fiducia per il nuovo che può giungere. Il Crocifisso è, esprime, il nuovo che arriva, il nuovo invito a rimanere aperti alla novità di un mondo più grande di se stessi. La redenzione è la fiducia, fondata sul nuovo che avanza dalla realtà, che qualcosa può giungere e donarci un essere ed un mondo rinnovati. La redenzione è l’essere strappati all’inferno del mondo ripetitivo perché risolto in se stessi, entro il quale nulla di nuovo può irrompere ed entro il quale ogni gioco lo si sceglie come dato per fatto, una volta per tutte. La redenzione è la gioia di appartenere al reale qual esso è e di essere dati a se stessi da una realtà che sempre riserva il nuovo, per sé e per le cose e le persone care. La redenzione è l’uomo etico dell’ IO inchiodato alla croce, nell’attesa della venuta del mondo nuovo, dell’uomo nuovo, di un nuovo sé ricevuto, donato da altri ed accolto da mani libere, mani vuote perché crocifisse.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
GIUSSANI L., Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997;
WITTGENSTEIN L., Zettel. Lo spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino 2007.

1 commento:

  1. Al termine dell'articolo, al verbo "compromette", è allegato un link: esso indirizza ad una sistematizzazione del mio percorso, in termini filosofico-esistenziali, la cui stesura ultima risale al maggio di quest'anno. Le mie posizioni, rispetto a questo trattatello, stanno in parte evolvendo: esso, peraltro, mantiene alcune delle elaborazioni fondamentali che, procedendo dalle riflessioni contenute nella mia precedente tesi di laurea (http://www.youblisher.com/p/532794-Il-recupero-del-corpo-nell-incontro-con-il-reale/), mi hanno portato sin dove ora sono. Buona lettura, se vorrete.

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