giovedì 25 febbraio 2021

Paese che vai, uragano che trovi

Finalmente a letto. Lentamente, abbandonata supina, la tizia avvertiva, come dopo ogni “dritto”, le due contrastanti sensazioni del solidificarsi progressivo di ogni singola fibra dei suoi muscoli, quasi diventassero piombo e la mente -la mente, invece, assumere le sembianze di un “calcinculo”.

L’impressione era quella di restare una cosa sola, solo per uno sforzo sovrumano della volontà: l’impressione era quella d’essere tenuta insieme con la spranga; era quella di stare rimanendo una persona unica, unicamente grazie alla catena che legava il seggiolino alla giostra che girava.

La tizia fissava il soffitto: cioè, lo avrebbe fissato se avesse avuto gli occhi aperti o se, avendo gli occhi aperti, nella stanza ci fosse stata luce a sufficienza. Erano le due di notte (del giorno dopo il “dritto”, ovviamente) e tutto ciò che la tizia percepiva, era il suo grillo parlante che le sussurrava nel cervello «ecco, se adesso ti distrai anche solo per un attimo, andrai in frantumi».

Difficile darsi pace, quando la mareggiata “monta” e ti lavora peggio che uno scippatore: pontili, biciclette inavvertitamente lasciate sulla ciclo-pedonale e financo motorini, alberi, cabine dei bagnini e tavolini dai bar; l’acqua sale, si porta via tutto e tu che sei lì, puoi solo star a guardare.

La tizia fissava il soffitto nella notte: cioè, lo avrebbe fissato se avesse avuto gli occhi aperti o se, avendo gli occhi aperti, nella stanza ci fosse stata luce a sufficienza. E’ chiaro che sentir girare un “calcinculo” in testa, non è che sia la condizione ideale per addormentarsi e del resto, il trasmutare dei dorati muscoli in piombo, dopo un “dritto”, non è che sia la condizione ideale per alzarsi.

Quand’era bimba, la tizia già precocemente passava le notti a fissar il cielo nero dalla finestra antistante il letto: all’epoca, s’interrogava inspiegabilmente sulle dimensioni dell’Universo; ora, si chiedeva che senso avesse scegliere d’essere qualcosa, piuttosto che qualcos’altro, se poi bastava una mareggiata a sottrarre ogni effetto della libertà d’essere ed ogni nuova occasione di Gioia.

Quand’era bimba, già precocemente passava le giornate a specchiarsi, la tizia e camminava su e giù lungo l’argine del fiume, con Licia e l’una e l’altra si rispecchiavano l’una nell’altra: l’una nelle parole, nelle esperienze e nelle sensazioni verbalmente trasmissibili dell’altra, poteva vedersi.

«“Io ti vedo”, dice in Avatar», pensava la tizia fissando il soffitto (o meglio, lo avrebbe fissato se avesse avuto gli occhi aperti o se, avendo gli occhi aperti, nella stanza ci fosse stata luce a sufficienza): sapeva benissimo cosa volesse dire e quanto gli occhi, poco c’entrassero.

Quand’erano bimbe, Licia e la tizia, ovviamente erano erano bandite dai giochi dei maschi e del resto, il disprezzo era reciproco: l’unica “palla” che contemplavano, Licia e la tizia, era quella che minacciava le loro chiacchierate, per l’imposta presenza di quegli esserini gretti col pisello.

Crescendo, Licia non aveva perso il piacere delle compagnie femminili, mentre la tizia aveva perso il piacere di sentirsi “vista”: quel peripatetico, originale modo che da piccole avevano trovato, lei e Licia, per “vedersi”, si era ridotto a un pisciatoio pubblico delle impressioni altrui sulla sua persona; come se il mondo fosse ora stato popolato soltanto di maschi, che pensano solo da maschi.

E allora, che maschi siano! Se non poteva essere vista, né vedere, la tizia avrebbe potuto perlomeno essere “sentita”… e “sentire”. Non ci badò poco a capire l’enorme fraintendimento in cui era caduta, la tizia: davvero e per molto, molto tempo, aveva creduto che fosse in effetti possibile riempire il cuore, usando come “porta” d’accesso quella che aveva fra le gambe.

La tizia era famosa per la scorrettezza politica e la mascolinità dei suoi commenti oggettivanti sui maschi: ovviamente molto era “personaggio”, era “fiction” architettata a bella posta per i fottuti (e le fottute) “benpensanti”, ma tutto sommato, c’era di base quel fraintendimento del “sentire”, come inutile surrogato del “”vedere”. La tizia tirò avanti finché potè ed un bel giorno, non potè più.

La tizia era con Francesco, quando capitò il “fattaccio” e cioè la desertificazione. La desertificazione è un problema serio, se campi di pesce. La tizia pensava al soffitto che non vedeva, ad occhi chiusi nella notte e proprio mentre si teneva insieme con la spranga; proprio mentre la disperazione la faceva tener aggrappata alle catenelle -che a loro volta tenevano il seggiolino ancorato al “calcinculo” del suo cervello, ecco, proprio allora la tizia penso all’ironia insita in una mareggiata che spazza via ogni motivo di Gioia, dopo lo spauracchio di una desertificazione.

La vita è beffarda. La tizia stava solo cercando un fattorino per il suo negozio, quando contattò il tizio. L’incontro preliminare sarebbe dovuto essere stato fugace: il tizio voleva conoscere i perché e i “per-come” dell’offerta lavorativa, il tipo d’impegno richiesto e cose così, insomma.

Il tizio faceva il bagnino, d’Estate, ma la tizia non avrebbe saputo dire se si fosse trattato esattamente di un classico “vitellone” felliniano o più semplicemente, di un ragazzo che badasse certo a divertirsi potendo, senza troppi problemi, ma non per forza “fissato” con le turiste svedesi: nemmeno le interessava in realtà, visto che cercava solamente un fattorino per il suo negozio.

I caffè durano poco, specialmente quelli presi al bar; specialmente quelli presi senza fumarci dietro. Un caffè al bar, senza fumarci dietro, dura troppo poco per chiarire a un (bel) ragazzo una proposta lavorativa. Ecco, un caffè dura già un po’ di più, se l osi fa seguire da un minimo di passeggiata.

Quand’erano bimbe, la tizia e Licia camminavano non solo su e giù lungo l’argine del fiume, ma anche sulla collina, mentre l’una e l’altra si rispecchiavano l’una nell’altra con le parole, le esperienze e le sensazioni verbalmente, reciprocamente trasmissibili. Da quanto tempo la tizia non si specchiava più? La tizia non amava poi tanto, gli specchi: mentre Licia non aveva perso il piacere delle compagnie femminili, la tizia aveva perso il piacere di sentirsi “vista” ed il suo specchio, si era ridotto a un pisciatoio pubblico delle impressioni altrui sulla sua persona.

Vedeva la collina “sua” e “di Licia”, la tizia, passeggiando con il tizio. Era inverno, il tizio d’Estate faceva il bagnino ed un bagnino -lo sa chiunque viva sulla costa, d’Inverno è come “un pesce fuor d’acqua” (in tutti i sensi). Un bagnino si rispecchia negli ombrelloni, nelle sceneggiate “buttate su” per i turisti (e le turiste), nelle caciàre della vita di spiaggia, nei giochi all’aria aperta, nei gavettoni di Ferragosto e nelle serate di musica, danze e relazioni e divertimenti e bevute. D’Inverno, un bagnino non sa dove specchiarsi e forse, d’Inverno, nemmeno ad un bagnino piace poi tanto, lo specchio.

Quand’erano bimbe, la tizia e Licia camminavano rispecchiandosi l’una nell’altra grazie alle parole, alle esperienze ed alle sensazioni verbalmente trasmissibili. Da quanto tempo la tizia non si specchiava più? Se un caffè di lavoro diventa una passeggiata interessante, rischia di diventare uno specchio in cui guardarsi non è poi così male: se non altro, perché non somiglia ad un orinatoio.

La tizia aveva iniziato a subodorarlo da tempo, che forse, provar a riempire il cuore passando per la fica non è poi tutta questa strategia. Il punto è che il cuore è esigente e mangia solo ciò che gli piace: può tirar avanti per un po’ con gli avanzi, a sopravvivere, ma come in una perpetua quaresima.

Riempire il cuore significa dargli quello che a lui piace, aveva oramai sentenziato la tizia. Al cuore piace piacere alla gente che gli piace ed al cuore de la tizia, piacevano le persone che si rispecchiavano con lui con le parole, le esperienze e le sensazioni reciprocamente trasmissibili.

Le labbra del tizio erano state come una pioggia su un deserto: l’acqua non scivolava via, cadendo su una terra per troppo tempo riarsa, perché uno specchio d’acqua, piccolissimo eppure presente, s’era a poco a poco formato con saltuarie, brevi, ma refrigeranti pioggerelle preliminari: passo dopo passo, incontro dopo incontro, passeggiata dopo passeggiata, trasmissione dopo trasmissione.

Era ancora Inverno per entrambi, quando la tizia ebbe l’idea di un pranzo sulla spiaggia per il tizio: era freddo, la gente non usciva di casa da mesi e la televisione non faceva che preannunciare catastrofi climatiche. La tizia aveva ripreso a guardarsi allo specchio, prima di uscire di casa.

La tavola era stata preparata “a Primavera”, con tanto d’addobbo di fiori: si sa che la Primavera preannuncia l’Estate e che l’estate, per i bagnini, è il trionfo della vitalità e l’abbandono del senso di smarrimento che li prende in Inverno. Tutto era perfetto, tutto era studiato, tutto era curato.

In principio, il tizio sentì un brivido lungo la schiena... “due gocce” sulle braccia… il bisogno di mettere una maglia. La tizia era talmente presa dal piacere della compagnia, che davanti ai primi segnali del disagio altrui, temette solo di poterne essere la causa: «cazzo… mica si annoierà!».

Presto, anzi prestissimo, le due gocce erano divenute un nubifragio ed il nubifragio era diventato una mareggiata e la mareggiata era diventata uno scippatore, che s’era fottuto tutto lo stabilimento balneare, lasciando il tizio lì, con l’acqua che saliva e saliva ancora, potendo solo starla a guardare.

In Francese, “mare” si dice “mer” e “madre” si dice “mère”: è proprio vero, aveva pensato la tizia in mezzo alla tempesta, che il mare dà la vita e dà la morte. La tizia avrebbe voluto uccidere il mare, in un primo momento. Davanti allo scempio delle sue cabine spazzate via, il tizio si era chiuso in casa promettendo di rifarsi vivo a Primavera od al massimo, in Estate. La tizia non sapeva cosa credere.

La tizia ne aveva fatta di strada, dalle prime camminate insieme a Licia, rispecchiandosi l’una nell’altra fino a che ogni specchio non s’era trasformato in un orinatoio: l’arte di tagliarsi i capelli da sola, solo saggiandone la lunghezza al tatto, era l’esempio più banale della sua strepitosa ed acquisita “a calci in culo”, abilità di sopravvivere ad ogni catastrofe.

Due giorni. Due giorni erano serviti, alla tempesta, per portare la tizia a chiedersi che senso avesse scegliere d’essere qualcosa, piuttosto che qualcos’altro, se poi bastava una mareggiata a sottrarre ogni effetto della libertà d’essere, ogni nuova occasione di Gioia ed ogni fiducia nelle sue abilità di sopravvivere. «La vita è beffarda -pensava ora la tizia- anzi no, è un merda».

Era notte, la tizia era supina sul letto e l’impressione che aveva, era quella d’essere tenuta insieme con la spranga: la cosa che più avrebbe desiderato, in quel momento, sarebbe stato abbracciare un amico -o un’amica e piangere, piangere a dirotto sulla -vera o presunta- inutilità dei suoi sforzi di crescita, davanti alle forze soverchianti della natura e del caos, che insidiano la civiltà umana.

«Alle due di notte, chi cazzo voglio chiamare?». Di potere piangere così, solo perché ne sentiva il bisogno, la tizia non s’illudeva nemmeno: c’erano voluti anni a riprendere l’abitudine e di certo, la desertificazione non aveva aiutato. La tizia era lì: inaspettatamente, le sue abilità di sopravvivenza s’erano trovate messe all’angolo alle due di notte e si sentiva tenuta insieme con la spranga.

E’ chiaro che sentir girare un “calcinculo” in testa, non è che sia la condizione ideale per addormentarsi e del resto, il trasmutare dei dorati muscoli in piombo, dopo un “dritto”, non è che sia la condizione ideale per alzarsi: qualcosa toccava pur fare però, che ne andava della vita.

La tizia era supina ed immaginava il soffitto al buio e stava per cadere a pezzi con il grillo parlante che infieriva e non c’era uno straccio d’amico, alle due di notte, a cui chieder un abbraccio di misericordia, che per un momento sostituisse la spranga nel rischioso compito di mantenerla insieme: erano anni, che non provava una sensazione di tale impotenza.

Bum. Rotolare dal letto, è più facile che alzarsi. L’inverno è freddo. Il pavimento è freddo. Il cuore è freddo. Il freddo toglierà l’entusiasmo, ma aiuta ad alzarsi per cercar una coperta: una coperta, una sigaretta e il tasto d’accensione del PC. Anche il PC era freddo, ma qui «o si fa lo svago o si muore», diceva la tizia al suo grillo parlante.

Lo schermo s’era finalmente acceso e il “calcinculo” s’era finalmente spento, ma tutto questo non bastava affatto, ma manco per il cazzo, a digerire lo scoglio che la marea le aveva piantato sullo stomaco; la tizia non aveva potuto fare altro che dirsi a mali estremi, estremi rimedi e tirar fuori il dvd più commovente che avesse mai avuto in casa, onde innescare quell’ “effetto Heidi” che, auspicabilmente, avrebbe innescato la sua catarsi notturna, foriera di sonno e rinnovata lucidità.

Funzionava.

venerdì 12 febbraio 2021

Predatori & prede

La caccia, innanzitutto, non è uno sport e nemmeno una modalità per sopravvivere: nella sua essenza più intima, la caccia è un modo di porsi verso le cose. Quello che distingue la caccia è l’obiettivo: fottere qualcosa che non vuole farsi fottere.

Anche il Capitalismo è una caccia e certamente, anche il corteggiamento è una forma di caccia: un tentativo di fottere qualcosa che, si presume, non voglia farsi fottere. Nel corteggiamento in particolar modo, si parte dal presupposto che l’altra persona sia sfuggente, che sia da conquistare… il che ovviamente impone tutto uno scenario di strategie atte a circuirla, con l’implicito e discutibile intento di vincere le sue resistenze ovvero, di piegare la sua volontà di fuggire alla propria di catturarla.

Fottere qualcosa che non vuole farsi fottere è anzitutto un progetto: un progetto certamente illiberale e presuntuoso, ma ancora prima, appunto, un progetto. E’ chiaro che il predatore, avendo un progetto sulla preda, tenda ad infastidirsi qualora questa gli scivoli via fra le zampe. Ogni progetto propriamente detto è un generatore automatico di aspettative, che a loro volta producono recriminazioni e reazioni ad ogni piè sospinto, come non ci fosse un domani.

C’è chi se la prende con la società edonista come se il primato della ricerca del piacere, fosse il male assoluto, la fonte della distruzione di ogni etica: chi condivide questa posizione, solitamente contrappone al piacere la proverbiale “progettualità” e cioè pone l’idealizzazione di un obiettivo, in antagonismo al desiderio di stare bene. Chi contrappone la progettualità al piacere è un cacciatore e chi antepone il piacere ad un progetto, non per forza è qualcuno che antepone il proprio piacere a quello altrui.

“Chi sta da solo o è bestia o è dio”, recita Aristotele. A me la compagnia, piace. La compagnia mi piace quando la mia compagnia piace. Quando la mia compagnia piace, sto bene perché mi sento valorizzato, mi sento riconosciuto e la mia auto-stima s’impenna. Ovviamente, mi capita di piacere a persone che non mi piacciono e quando succede, la compagnia di quelle persone non mi piace perché la mia auto-stima non sa godere di un parere a cui attribuisce poco conto. Mi piace piacere alle persone che mi piacciono.


Non posso corteggiare una persona che mi piace: posso corteggiare un corpo che mi piace e cioè cacciarlo, ma non posso cacciare una persona che mi piace, perché desidero piacerle per sentirmi bene con lei e posso sentirmi bene con lei solo se lei si sente bene con me. Che una persona che mi piace si senta bene con me, è ciò che mi fa stare bene: se l’ho ingannata con un’astuzia di caccia, ciò che lei apprezza di me non sono io, ma una maschera; una maschera da cacciatore.

Una volta un contadino mi suggerì di mostrare quel che sono e soprattutto i miei difetti, sin dal primo incontro: quel contadino non era un cacciatore. “Chi si fa pecora, il lupo s’aa magna”, dicono a Roma: sono state persone che mi piacevano, in effetti, ad avermi trasformato in cacciatore. Tutte le volte che una persona che mi piaceva, fuggiva davanti alle mie rispettose -ma entusiastiche- espressioni di benessere, diventavo un po’ più cacciatore. Se il progetto che hai è avere compagnia e la gente fugge davanti a ciò che sei, allora se le gente si comporta da preda, ti comporterai da cacciatore e poi vinca il migliore.

La confusione alla base della caccia è l’illusione che il benessere sia una questione di dotazioni. Ovviamente ci sono cose indispensabili per stare nel benessere, ci sono dei “sine qua non” come ad esempio i soldi per mangiare e la compagnia. Il punto è che sto bene quando sono in compagnia e non quando ho compagnia, perché se la compagnia è una cosa che ho, non è una cosa esterna a me che mi apprezza, ma una cosa mia, una cosa di me tramite cui mi auto-compiaccio. L’auto-compiacimento non è soddisfazione, ma la sua parodia. Quando piaccio a una persona che mi piace, non sono più io ad auto-convincermi che tutto sia ok: c’è invece una persona che non sono io e che mi piace e che sta lì a dirmi solo perché lo vuole fare: quando sto con te, sto meglio.

Non sono nato cacciatore: lo sono diventato per fame. Per fame, una persona sbatte le corna ovunque; assaggia anche un tavolino di compensato, se serve, perchè ci sta, la fame è brutta e le provi tutte. La caccia è un modo di porsi indispensabile, certe volte, se la fame è brutta, se mangiare non ce n’è, se il supermercato l’hanno svaligiato. Non si può sopravvivere senza mai cacciare, ma l’unica cosa che non si può cacciare è una persona che ti piace: è come volersi levare la fame azzannando una piana di truciolato; non ha alcun senso, è il contrario dello sfamarsi cui si anela.


Quando ho voluto riprendere in mano la mia vita dopo la morte di dio, l’unica cosa che mi è sembrata sensata è stata il ritornare sulla forma della mia infanzia e ricordare cosa mi piacesse, cosa mi venisse naturale fare e cosa facessi. Mi sono ricordato delle esperienze che mi hanno trasformato in un cacciatore ed ho stabilito che se una persona mi piace, voglio dirglielo: come facevo da bambino. La maggior parte delle persone che incontro, si comportano da prede davanti all’esporsi senza filtri di un’altra persona: “chissà cosa pretenderà questo da me adesso”, si legge loro negli occhi.

Purtroppo è un circolo vizioso; a causa dei cacciatori, le persone si comportano da prede e comportandosi da prede, trasformano in cacciatore ogni persona affamata che incontrano. Personalmente, ora so che masticare una sedia non toglie la fame. Quello che toglie la fame è il cibo soffice, genuino, pieno degli aromi e dei sapori delle cose nate dalla terra: la persona che mi piace non può essere un panino, però, anche se finché si ha fame, alla fine il morso ce lo dai a quella cazzo di panchina di legno, pure sapendo benissimo che non serve a niente.

La persona che mi piace non può essere un panino, ma un’amica. Un panino lo si mangia, mentre con un’amica, il panino lo si gode. Un’amica non la incontri perché ti deve qualcosa, ma perché quando la incontri ti accorgi di stare meglio. Un’amica non ti chiama per il progetto di fare una famiglia insieme, perché altrimenti sarebbe una cacciatrice. Un’amica ti chiama perché nella sua vita, la tua compagnia, produce in lei almeno lo stesso benessere che lei produce nella tua, quando la vedi.

Una moglie, una “morosa”, in genere esce con me perché è la mia moglie, la mia morosa: auto-compiacimento, tavolo di compensato. Un’amica certamente esce con me solo quando va anche a lei, quando essere con me è la cosa che vuole fare, è il posto in cui desidera essere: una sorgente d’acqua viva. Una moglie, una morosa, non vuoi farla incazzare, perché sennò va a puttane il progetto: progetto, caccia, brama, aspettativa, recriminazione, violenza. A un’amica metti in mano il tuo cuore, perché ciò che ti lega a lei non è un’aspettativa rispetto ad un progetto, ma il godimento della felicità insieme, per la parte in cui sia possibile. Qualche persona, nel mio recente passato, si è sentita svilita nel vedermi definirla “amica”. Ho molte conoscenze e rarissime amicizie. Se ti piace il tempo vissuto con me e ti chiamo amica, sii felice. Se t’incuriosisce il tempo vissuto con me ed io ti racconto il mio mondo e la bellezza ed il piacere ed il benessere grandi che vivo stando con te, amica mia, non ti spaventare.