mercoledì 23 settembre 2020

Diritto & rovescio

Per me, i “diritti” sono una piaga: cioè, non reputo una piaga il giusto spazio ricercato da ciascuno, ma l’idea stessa che quello spazio abbia una natura egocentrica e non relazionale.

Le grandi religioni monoteiste hanno insegnato che l’uomo ha certi diritti perché il dio lo vuole: se fosse davvero così, tali diritti sarebbero auto-evidenti e mi pare vero il contrario.

I “diritti naturali”, come intesi dalle grandi religioni monoteiste, sono per me il più clamoroso esempio di nichilismo: nessuno vale niente, se non per il fatto di stare simpatico al dio.

I “diritti naturali”, come intesi dalle grandi religioni monoteiste, per me non sono nemmeno veri e propri diritti: sono il padrone che concede al cane cinque minuti fuori per pisciare.

La persona istruita dei presunti “diritti naturali”, troppo facilmente dimentica che senza un altro che acconsenta a riconoscerglieli, quei “diritti” sono solo carta straccia.

Il detentore dei “diritti naturali” fraintende il ruolo della società e anche il proprio: tutto gira intorno a lui perché “il dio lo vuole” e chi non la pensa come il dio, va accoppato.

Il detentore di “diritti naturali” é come il bimbo più bello della sua mamma, a cui tutto sia dovuto per il semplice fatto di esistere: non deve niente a nessuno e gli è dovuto tutto.

Comincerò col dire che, a quanto capisco, una cosa connaturata non avrebbe bisogno di prove, mentre a giustificare la credenza nei “diritti naturali” ci sono intere biblioteche.

Se io dico che l’uomo sano ha due braccia, non vedo come mi si possa replicare: l’uomo sano ha due braccia in Cina e in Alaska, ne aveva due nel paleolitico e ne ha due pure oggi.

I diritti cambiano con la percezione sociale delle cose, per cui mi pare non siano dati di fatto, ma conquiste relazionali: i diritti non sono una mia qualità, ma una concessione sociale.

I cosiddetti “diritti naturali”, secondo me non esistono: proprio perché i diritti sono frutto della relazione, presumere che siano connaturati non fa che metterli in mano a chi comanda.

Se io dico che i diritti sono “naturali” e cioè un dato oggettivo, anche se non li vedo, allora a determinare quali siano sarà sempre e solo chi comanda, come appunto nel caso dei preti.



Per me, la questione è molto semplice. Perché preferiamo vivere in gruppo, anziché da soli? Se vivo da solo, io devo fare da me tutto ciò che mi serve: dalla casa, alle saponette, ai vestiti.

Se devo fare tutto da solo …e quando finisco mai? La mia vita finisce appiattita sulle esigenze materiali e la mia identità non fiorisce, il mio desiderio è schiacciato ed io “muoio dentro”.

Se abitiamo in gruppo, io faccio le saponette per tutti; tu fai i tavolini, quell’altro fa da mangiare e quell’altro fa i vestiti: con la ripartizione dei compiti, “nasce” il tempo libero.

Vivere insieme ha dei “pro” e dei “contro”: ci sono le facilitazioni pratiche da un lato e le difficoltà ad andare d’accordo, dall’altro; quindi, tocca darsi delle regole di convivenza.

Se le regole di convivenza chiedono al singolo di sacrificarsi troppo per il gruppo, vivere insieme non ha più senso perché il singolo sceglie il gruppo per facilitarsi e non per crepare.

Se le regole di convivenza danno troppa importanza al singolo, vivere insieme non ha più senso perché ognuno penserà solo per sé e non collaborerà a facilitare altri che facilitino lui.

Le regole di convivenza producono un gruppo che funziona quando da un lato spingono il singolo a collaborare con gli altri e dall’altro, gli fanno godere i vantaggi della collaborazione.

Un gruppo che funziona è quello in cui diritti e doveri si controbilanciano ed eccoci perciò alla questione centrale, quella dei diritti: se sono una concessione sociale, in cosa consistono?

Abbiamo visto che un singolo non si sbatterebbe mai per il gruppo, se non trovasse vantaggioso tenere in piedi quel gruppo: come potrebbe trovare vantaggioso un gruppo che lo attacca?



I miei diritti non sono altro che i paletti che GLI ALTRI si sono dati per evitare che io me ne vada dal gruppo: il mio lavoro serve al gruppo, quindi le mie istanze vanno accolte dal gruppo.

Cosa c’è di empatico o di soprannaturale, in un diritto? Direi niente: un diritto è quella cosa che se gli altri non mi concedono, quel che io faccio per loro devono poi farselo da soli.

Come potrei investire le mie forze nel gruppo, se sapessi che il gruppo mi lascerebbe morire qualora io avessi un problema? Ragazzi, se volete il mio aiuto, io voglio delle garanzie!

Perché mai dovrei  aiutarti a gestir il tuo lavoro mentre sei genitore, sapendo che tu mi lasceresti morire se perdessi la capacità di lavorare per malattia o per vecchiaia? Ma fottiti!

Perché mai io dovrei ancora sopportare tuo figlio che mi scorrazza fra i piedi al ristorante, quando tu non sopporti me che bacio in pubblico una persona del mio stesso genere?

Per me non c’è alcun bisogno di scomodare un dio o l’amore universale o una presunta "dignità", per parlare di diritti: basta il buon senso ed un punto di partenza concreto e laico.




Qualcuno potrebbe obiettare che una persona abbastanza forte potrebbe costringere tutti quanti a servirla, anziché a collaborare pariteticamente: avrebbe certamente ragione.

Solo un clima collaborativo paritetico e cioè una Democrazia Sociale e Liberale, può generare laicamente dei “diritti” e cioè dei reciproci e condivisi riconoscimenti di “spazio vitale”.

A una dittatura non serve alcuna collaborazione, ma solo la forza necessaria a costringere: sarà bene per lui, che il dittatore si assicuri sempre di avere "il coltello dalla parte del manico".