lunedì 29 agosto 2016

8 - Il male e la ri-velazione del vero

Altrove, si è già spiegato che se tutto quello ch’esiste “è”, allora non esiste alternativa all’Essere, il quale è perciò unico; se questo è vero, allora l’unico Essere proviene per forza da se stesso e va necessariamente verso se stesso, quindi non ha principio né fine, quindi oltre che essere unico, è anche eterno. Una cosa esiste quando è sperimentabile in qualche modo da qualcuno; è la coscienza a produrre la realtà: questo lo spiegò perfettamente Descartes mettendo in relazione la consapevolezza di sé con la certezza del reale (“penso e quindi sono”). Se si scopre di stare pensando, si è certi della validità del principio di non contraddizione, perché il fatto stesso di pensare determina l’emergere di una specificità non confondibile né assimilabile al resto: se si scopre di stare pensando, si scopre d'esistere certamente e se si scopre d'esistere certamente, allora si è certi delle proprie capacità di riconoscer il vero (anche se non necessariamente tutto il vero contemporaneamente, come si vedrà).

Se si pensa e il fatto stesso di saperlo determina la capacità di cogliere il vero, è la coscienza a determinare il dato di realtà e la realtà stessa dipende esclusivamente dalla coscienza (il fatto che tutti gli uomini pare abbiano percezioni certamente soggettive, ma tra loro analogiche della realtà, indica l'esistenza di una Coscienza Eminente capace di vedere -e quindi sorreggere- tutto e sempre e che in qualche modo riflette, sul piano esperibile, l'unità che l'Essere ha sul piano ontologico).

Ora la coscienza, per essere cosciente del reale e cioè per essere se stessa, deve potere riconoscere ciò ch'esiste: la coscienza può distinguere qualcosa, cioè essere cosciente, solo per comparazione (il bianco è bianco solo rispetto al nero, ecc) e la comparazione è possibile solo in un contesto dualista, dove il sopra e il sotto, il prima e il dopo (da qui, la possibilità di conoscere progressivamente, in un contesto percettivo duale), il qui ed il lì siano distinguibili. Dunque la situazione è questa: l’Essere è unico ed eterno, ma per esistere ha bisogno di una coscienza che lo riconosca, la quale coscienza, a sua volta, non può incontrarlo né conoscerlo se non per così dire scomposto in termini duali che permettano un raffronto ed un’individuazione degli essenti. L’Essere è unico ed eterno nella sostanza, ma duale e mutevole nella forma ch’emerge alla coscienza. L’Essere e la coscienza si reggono a vicenda: la coscienza permette all’Essere di manifestarsi e quindi d’esistere, mentre l’Essere offre alla coscienza qualcosa di cui essere cosciente, consentendole d’esistere. Siccome ogni cosa che esiste si offre alla coscienza perché questa esista e consentendo alla coscienza d’esistere, permette l’esistenza di tutto quanto il reale, ogni cosa ch’esiste è ontologicamente buona.

E’ buono ciò ch’è in funzione dell’Essere ed è in funzione dell’Essere, necessariamente, tutto ciò ch’esiste: il male, che è la negazione dell’Essere, sul piano ontologico non esiste, perché all’Essere, cioè all’unico all’eterno ed al buono, non esiste alternativa. Sul piano del manifestarsi dell’Essere alla coscienza, espresso in termini duali, ciò che permette alla coscienza la piena consapevolezza dell’Essere e dell'unità ed eternità e bontà dell’Essere, è la percezione di qualcosa che sia sperimentabile come negazione dell’Essere, dell’unità e dell’eternità: ovvero come male.

Se il male percepito necessariamente dalla coscienza non fosse vero male, l’esperienza d’esso sarebbe falsa, la coscienza sarebbe falsa (cioè incoscienza) e la realtà non esisterebbe. Siccome la realtà sperimentata, come s’è detto, esiste per forza, esiste per forza anche la realtà del male: ciò non di meno, il male (come la diversità di tutti gli essenti) esiste davvero solo sul piano dell’esperienza (forma), mentre sul piano ontologico (sostanza) anch’esso è buono, in quanto funzionale all’Essere per il tramite della sua utilità “ultima” per la coscienza. Sul piano dell’esperienza, non è male ciò che ontologicamente lo è, perché sul piano ontologico il male non esiste: sul piano dell’esperienza, è male ciò che la coscienza, dopo averlo incontrato, rifiuta come termine (duale) comparativo ed espressivo della lontananza/negazione dell’Essere; ciò che ogni coscienza rifiuta, avendolo percepito sul piano dell’esperienza come “termine di separazione” dall’Essere, è ciò ch’essa chiama male. Il male c'è, ma sul piano percettivo.


Si è già accennato altrove a come lo stesso episodio biblico dell’innalzamento del serpente di rame nel deserto (Nm XXI, 8), da parte di Mosè durante l’esodo d’Israele dall’Egitto, mostri, in forma mitica, le nozioni di cui sopra: il popolo, giunto a mormorare contro Dio a causa delle condizioni disagevoli della fuga, si ritrova preda di mille serpentelli velenosi che, alzandosi dalla terra, mietono in mezzo ad esso vittime innumerevoli; Mosè riceve l’istruzione da YHWH di erigere l’effige di un unico serpente di rame, guardando al quale i malati saranno guariti. L’associazione tra mormorazione e serpenti velenosi non è casuale. Il serpente è il simbolo della coscienza; la mormorazione del popolo, punita col morso dei serpenti, indica la condizione di chi crede vero anche sul piano ontologico il male che percepisce rispetto alle proprie aspettative: il popolo desidera benessere e giudica male l’assenza di benessere, giungendo ad imputare Dio di crudeltà. Il popolo non si limita a giudicare come autenticamente negativa l’esperienza del bisogno: nel fatto d’imputare Dio, esso eleva di fatto un male percepito alla consistenza di male ontologico, trovandosi perduto dietro la miriade di apparenze. Il serpente di rame (metallo di Venere), issato da solo (dall’eroe solare Mosè) verso il cielo e non emergente dalla terra nella molteplicità, è il principio d’unità ontologica dell’Essere, tornando a guardar il quale è possibile sfuggire alla morte, ossia al disperdersi dell’esperienza nelle reazioni e recriminazioni auto-referenziali dell’Io innanzi al frammentario manifesto.


Nel contesto classico è il mito della dea Atena a simboleggiare l’informazione metafisica di cui sopra. Per Platone, nel suo dialogo Cratilo, l'etimologia del nome di Atena è riconducibile ad "A-theo-noa" (A-θεο-νόα), che significa "la mente di Dio", cioè lo sguardo dalla prospettiva dell’eternità e dell’ontologia. Gorgone è un mostro dalla capigliatura costituita di serpenti: chiunque la guardi direttamente, resta pietrificato; Perseo, utilizzando come guida il riflesso dello scudo donatogli da Atena, riesce a decapitare Gorgone; ricevuta da Perseo la testa di Gorgone, Atena ne fa la propria egida, fissandola sul fronte del proprio scudo da battaglia. Si potrà notare facilmente come lo schema sia il medesimo del brano di Numeri nella Bibbia. Coloro i quali guardano direttamente alla moltitudine dei serpenti/capelli di Gorgone, restano pietrificati e morti: fissare la propria coscienza sulla realtà assoluta delle multiformi apparenze di ciò ch’è manifesto, smarrisce, paralizza, rende impossibile proseguire un vivere autentico.

Perseo è come Mosè l’eroe solare, ovvero l’iniziato che illustra al popolo il segreto della “vera realtà”; come l’unico serpente celeste di rame rispecchia in effige i mille serpenti terrestri, così il riflesso sullo scudo celeste di Atena permette a Perseo di superare l’inganno mortale della ctonia Gorgone, fino a vincerla. Lo scudo di Atena è il velo di maia, la “coltre del tempio” che separa il piano dell’esperienza (la testa recisa della Gorgone ancora efficace, "difensiva": non a caso Medusa, Μέδουσα - da μέδω, médō, "proteggere", significa "guardiana") da quello dell’ontologia (la Dea). Atena nasce dalla testa di Zeus re degli dei, il quale ha ingoiato l'oceanina Meti ("prudenza") sua madre (che con le sue duemilanovecentonovantanove sorelle è dynamis vitale dei fiumi che solcano il suolo, figli dell'Oceano e della terra emersa Teti) e per mezzo dell'intervento di Efesto, che rompe il capo a suo padre: Atena è la dea che nasce armata e rivendica se stessa puntando subito il proprio giavellotto alla gola del dio padre; è la patrona dell'agguato, dell'acume, della strategia militare e della difesa della polis, colei che tesse le trame per giungere alla vittoria, figlia del tuono e del principio celeste, ma anche della vitalità della terra; viene alla luce grazie ad un fabbro, ovvero a colui che plasma i metalli (che nella tradizione indicano le pulsioni umane) e trasforma la materia grezza; i suoi simboli sono la civetta e l’olivo, ovvero l’animale celeste che scorge la realtà in mezzo alle tenebre e la pianta terrestre che fornisce l’olio, sostanza preposta alla produzione della luce, al nutrimento ed alla cura delle ferite (cfr. Sal LXXXIV, 12). Nella sequenza che da Zeus (padre, tesi) porta ad Apollo & Artemide (figli gemelli, antitesi) e quindi alla loro sorellastra Atena (spirito, sintesi), per concludere sulla Dea, è possibile riconoscere un motivo iniziatico di cui ora si dirà meglio.


In ambito cristiano, il mito prende una forma sui generis nel personaggio di Lucifero, il quale nell’Eden (Gn III, 1-19), in forma (guarda caso) di serpente, fornisce ai progenitori, contemporaneamente, la luce della coscienza nell’occasione di sperimentare per comparazione, ma anche la caduta, nell’occasione di lasciarsi sedurre dal dualismo di concepirsi “rispetto a Dio”. Il diavolo è, letteralmente, colui che “getta frammezzo”, colui che separa:  nel mito cristiano, il diavolo incarna il dualismo stesso della realtà manifesta, problematica nel suo mostrarsi frammentaria prima ancora che nell’offerta di scegliere in modo errato; YHWH stesso viene adottato, in questo mito, quale figura impersonante l’unità. Il testo di Genesi inaugura la narrazione in cui i cristiani, sotto l’appellativo di Storia della Salvezza, raccontano del processo iniziatico, altrove già descritto, per cui, dall’indistinzione (il Paradiso terrestre) di una sola coscienza (unità di sentimento col Padre), l’uomo: prima defluisce in uno stato duale in cui cercare se stesso per comparazione, ora attraverso concetti estrinseci di bene e di male (la legge) e successivamente attraverso una presa di posizione cosciente ed interiore (il Figlio dalla duplice natura); infine, torna all’unità (lo Spirito Santo) ontologica, ma non più percepita come indistinzione e bensì come Comunione.

Alla luce di quanto descritto, si può ora comprendere il significato più sottile del felix culpa di cui parla la Chiesa Cattolica. Sul piano exoterico, l’exultet del preconio pasquale esprime la gioia per il fatto che la caduta, pure rimanendo in sé un male, abbia permesso agli uomini d’incontrar il Redentore; sul piano esoterico, si può capire ora come tale locuzione indichi invece l’inevitabilità e l’intrinseca bontà, per l’Essere, di una sua sperimentabilità in termini duali da parte della coscienza. L’uomo, nell’incontrare l’unico e vero ed eterno e buono Essere in termini duali, equivoci, contingenti e discutibili, “costruisce” in un certo senso il male (pur vero come esperienza) attorno a sé nel mentre stesso in cui edifica se stesso con le proprie scelte, con le proprie accoglienze ed i propri rifiuti. Il dualismo e quindi il male riconosciuto, che da un lato nascondono all’uomo la realtà unitaria e buona del reale, dall’altro sono anche l’unico mezzo con cui l’Essere possa esistere concretamente e mostrarsi: il dualismo è l’occasione della caduta nel caleidoscopio delle forme, ma tale caduta si rivela essere una “colpa felice” nel fornire alla luce il buio in cui brillare (cfr. Gv I, 1-18).


« I nomi che sono dati alle cose terrestri racchiudono un grande inganno, perché distolgono i cuori da concetti che sono autentici verso concetti che non sono autentici. Chi sente la parola "Dio" non intende ciò che è autentico, ma intende ciò che non è autentico. Così pure per "Padre" e "Figlio" e "Spirito Santo" e "Vita" e "Luce" e "Resurrezione" e "Chiesa" e tutti gli altri nomi non s'intende ciò che è autentico, ma s'intende ciò che non è autentico. A meno che non si sia venuti a conoscenza di ciò che è autentico, questi nomi sono nel mondo per ingannare. Se essi fossero nell'eone, non sarebbero nominati ogni giorno nel mondo e non sarebbero mescolati tra le cose terrestri. Essi hanno la loro fine nell'eone. Un solo nome non è pronunciato nel mondo: il nome che il Padre ha dato al Figlio. Esso è al di sopra di tutto. È il nome di "Padre", perché il Figlio non diventerebbe Padre se non avesse rivestito se stesso del nome di "Padre". Questo nome. coloro che lo posseggono lo intendono in verità, ma non lo pronunciano. Invece coloro che non lo posseggono non lo intendono. Ma la Verità ha espresso dei nomi nel mondo a questo motivo: che non è possibile apprendere senza nomi. La Verità è unica e molteplice a nostro vantaggio, per insegnarci, per amore, quell'Unica attraverso molte» (Filippo 11-12).