giovedì 24 marzo 2022

Non si finisce mai d'imparare

 Ho scritto spesso, su questa pagina, contro la possessività fra gli esseri umani ed in favore del cosiddetto “poliamore”; pensavo d’essermi fatto, nel tempo, un’opinione abbastanza chiara, su cosa fosse l’Amore: ora che mi trovo a sperimentare sensazioni che avevo evidentemente dimenticato da tempo, mi trovo pure a dover ammettere che sia necessario, da parte mia, prendermi tutto il tempo di questa (probabilmente lunga) scrittura, per osservare con calma – e riconsiderare, nel caso – le mie posizioni.

Le cose che mi accadono, si muovono vorticosamente nei miei pensieri fino a che non mi decido a dare loro forma, scrivendone: scrivere è da sempre, per me, il modo più efficace ed economico per fare le “grandi pulizie”, della mente e del cuore e mettere ordine, negli “scaffali” del mio vissuto.

Ero giunto alla conclusione che l’Amore fosse un’invenzione letteraria e che le uniche realtà che davvero esistessero, fossero quelle che i greci chiamano “eros” (rudemente, la “brama”), “filos” (“simpatia”, intesa come il sentirsi simili) ed “agape” (“compartecipazione”, potremmo dire per farla breve… come sentirsi legati ad un fine comune e provare, pertanto, empatia reciproca), distribuite in varî modi nelle più disparate forme di relazione.

Ero giunto alla conclusione che “amore” non fosse che una parola usata come “paravento” romantico delle proprie tachicardie, dettate a loro volta da una possessività di specie, tipica di tutti i mammiferi: ero giunto a ritenere che dire “ti amo” significasse dire “ti voglio come mia proprietà, perché mi servi per appagare i miei bisogni”, millantando il tutto, ipocritamente, come un dono di sé fatto all’altra persona.

Ritengo ancora – sia ben chiaro – che la gratuità assoluta, perlomeno in questo universo, non esista e che ciascuno di noi abbia davvero dei bisogni insopprimibili che soltanto le relazioni possono colmare, così come ad esempio l’esigenza di un’identità, la quale è sempre il prodotto di ciò che si è e di ciò che si riceve dall’esterno; ritengo ancora – sia ben chiaro – che lo stare in un rapporto che non si ritenga in qualche forma vantaggioso per sé innanzitutto, indichi la presenza di una fragilità psicologica (di co-dipendenza, direi, il più delle volte); ritengo ancora – sia ben chiaro – che lo stare in un rapporto senza essersi prima fatti “le ossa” stando in piedi da sé, sia nocivo per tutti coloro che a quel rapporto partecipano.

Quello che mi sento di dovere riconsiderare, concerne l’ampliamento della mia esperienza con le emozioni, che ho scoperto essere una sorta di sesto senso capace d’informare la persona non sulla luce come la vista, né sulle onde sonore come l’udito, ma sulla “prossimità”: se il gusto mi permette di avvertire la composizione chimica di ciò che mangio… se l’olfatto mi permette di cogliere le particelle sospese nell’aria e se il tatto mi indica la qualità e la temperatura delle superfici, ecco, le emozioni mi permettono di riconoscere ciò che tende all’unità, da ciò che tende alla separazione.

Le emozioni, per quel che ne capisco oggi, sono il modo che abbiamo per distinguere la qualità energetica di qualcosa, come ciò che noi esoteristi definiamo “solve” e “coagula”: se quasi sempre vedo le emozioni esprimersi come una specie di “schiavista” che s’impone sulla volontà, è perché forse, mentre nessuno penserebbe mai d’identificarsi con il proprio udito, in molti tendono ad identificarsi con le proprie emozioni, anziché accoglierle come la forma di conoscenza, al proprio servizio tanto quanto il raziocinio, che – a mio parere – sono.

Ora, se le emozioni sono in effetti il senso che informa sulla distanza “energetica” fra le cose e sulla loro tendenza a generare unità o separazione, allora l’Amore come emozione in effetti esiste e più precisamente, esiste come percezione di un'eccelsa avvertenza di unità con l’oggetto d’amore: quando la brama dettata dal bisogno, la simpatia dettata dalla somiglianza, l’empatia e la percezione che l’altra persona sia una parte significativa del proprio percorso, raggiungono alti livelli, allora ciò che si prova è l’Amore… quello stesso che «muove il Sol e l’altre stelle» - come direbbe Dante – esprimendo il senso di unità fra le cose.

«Ti amo perché ti sento colma di significato nella mia vita»… «ti amo perché ti sento tutt’uno col mio destino», potremmo dire: l’esperienza mi porta a pensare che questa sensazione, perlomeno per chi non sia avvezzo ad identificarsi troppo con le proprie emozioni fino – davvero – a cascare bocconi davanti a chiunque gli susciti un po’ d’istinti sessuali, sia piuttosto rara da provare.


Continuo a ritenere certamente possibile il realizzarsi di un “poliamore”, perché ritengo davvero che possano darsi casi in cui più persone, meravigliosamente, si sentano talmente “destinate”, le une alle altre, da non riuscire oramai più a concepire fra loro una “scala gerarchica” di vicinanza che metta comunque qualcuno fra loro al primo posto, rispetto a qualcun altro; continuo certamente a ritenere ancora che le persone non possano possedersi a vicenda e che nessun “amore” (o presunto tale) possa autorizzare una persona ad avanzare diritti sulla vita di un altro.

Ciò che non ritengo più, è che il realizzarsi di un poliamore possa essere un evento frequente: ciò che riscopro, di questi tempi, è che la sensazione di unità che più su ho definito “amore” è già di per sé talmente rara e talmente tesa – appunto – ad avvicinare sempre più fra loro quelli che reciprocamente la provano, da essere di fatto totalizzante nonostante la disponibilità reciproca a riconoscersi come soggetti che restino distinti e personalmente liberi.

Proverò a spiegarmi meglio asserendo che, a mio parere, almeno una parte dei tanti, presunti poliamori, sono in realtà fenomeni di comunità affettive che non raggiungono l’intensità totalizzante dell’Amore (inteso appunto come profondo significato dell’altro nel proprio destino), quando non addirittura, banalmente, fenomeni di coppie “aperte” o di “triangoli” sessuali, “farciti” di (magari intensa) amicizia reciproca... il che non le rende situazioni meno legittime, intendiamoci: mi pare semplicemente, oggi, molto più arduo ch'esse riguardino una percezione esistenziale tanto intensa, quanto quella generata da qualcuno le cui caratteristiche lo rendono tanto raro.

Non pretendo certo che la mia singola esperienza abbia una validità universale e pertanto, queste mie riflessioni hanno soltanto – come anticipavo – lo scopo di mettere ordine fra quello che provo e quello in cui “credo”.

L’Amore che provo oggi è davvero una sensazione unitaria talmente potente, da farmi vedere l’altra come un “pezzo” del mio stesso destino, come se tutte le esperienze mie e sue, ci avessero “forgiato” in modo da farci trovare maturi abbastanza per riconoscerci, al momento del nostro incontro; l’Amore che provo oggi è una brama, una simpatia, un’empatia ed un senso di compartecipazione, tali da farmi ritenere quasi impossibile che un evento così irruento, che trovo quasi miracoloso, possa davvero verificarsi tanto facilmente addirittura fra più persone insieme, contemporaneamente.

Se oggi scopro le mie emozioni come uno strumento più che degno per la comprensione di ciò che sperimento, tanto quanto la mia intelligenza cui sempre mi sono prioritariamente appoggiato, allora i soli criteri mentali con cui costruivo il mio “paesaggio ideologico” precedente, devo per forza correggerli alla luce di questa nuova fonte sensoriale, fino a modificare radicalmente le mie teorie.

Le persone non possono essere ostaggio delle emozioni altrui e razionalmente, la vita è lunga e piena di “fluttuazioni”, cosicché trovo ancora ragionevole pensare che nuovi, estemporanei bisogni, possano in effetti portare anche due persone che si amano davvero, ora ad avvicinarsi in forma esclusiva ed ora a prendere – magari momentanee – parziali distanze, costituite da altri rapporti; la persona che amo, resta libera nella sostanza “a dispetto” di quello che sento e nonostante ciò, quel senso di unità che provo con lei è tale che le mie emozioni mi avvertono subito - e dolorosamente - del pericolo di un distacco o di un “rallentamento” nella nostra relazione.

Quando penso alla donna che amo, rifiuto di usare etichette come “morosa”, “compagna” e simili, perché questi nomi, a mio avviso, definiscono ruoli che sottintendono un controllo reciproco fra le parti, come una sorta di “contratto” che sottrae il cuore della relazione al piacere di essersi trovati, per consegnarlo nelle mani di aspettative sempre foriere di recriminazioni.

Quando un rapporto assume una forma fissa, “contrattuale”, coloro che ad esso partecipano, tendenzialmente non accoglieranno più l’altra persona come un dono, ma come qualcuno che debba assolvere a delle clausole: nasce così il controllo che è sempre un sopruso, perché non esiste - per colei che amo - un vera libertà, se non è libera in ogni momento di essere anche in un altro posto rispetto a dove io sono o con un'altra persona rispetto a me, senza il rischio di non trovarmi più al suo ritorno.

Data la curiosità di tutto ciò che può succedere a una persona, non posso escludere che anch’io, nella mia vita, non possa, un giorno e in un dato momento, trovare consolazione in un rapporto diverso da quello con la persona che amo ed in quel caso, vorrei che in nome della libertà sostanziale fra le persone, l’evento non offuscasse quella profonda avvertenza di senso che vivo come l’Amore fra noi: ciò nonostante, in questo istante sento forte la spinta a dedicarmi “in senso romantico” esclusivamente alla persona che amo, non in virtù di un suo possesso nei miei riguardi, ma in forza del significato esistenziale profondo e – oserei dire - “sacro” che attribuisco al nostro incontro.

A mia volta, ritengo di dovere alla persona che amo la forza etica di riconoscerle libertà anche qualora - e per qualsiasi motivo che non le neghi l’Amore di fondo per me – decida di vivere esperienze “romantiche” diverse da quella fra noi, pure io augurandomi in tutta onestà e col cuore in mano, che un evento emotivamente così "provante" ("provante" per il suo potere di mettere in discussione quella percezione di miracolosa unicità dell'incontro che, secondo me, è la sostanza stessa dell'Amore) non mi “cada” mai addosso, da parte sua.

Un’amica mi ha detto: «sarai d’accordo sul fatto che fare bene una cosa è più semplice che farne bene due o più» e questa è una banalità che però a volte sfugge e davvero, se l’altra persona è ai miei occhi quell’evento di tale convergenza di vite, da parermi quasi incredibile, tutte le mie forze sarò portato senz’altro a destinarle all’incremento di quella meravigliosa esperienza, trepidando nell’osservare (rispettando doverosamente la sua libertà, per l'appunto) se anche l’altra persona si sentirà di fare altrettanto nei miei riguardi.

Le persone nascono e restano libere; si incontrano che hanno già precedenti relazioni, precedenti esperienze e – forse – sussistenti situazioni di contiguità affettiva e sessuale: accogliersi in toto nel nome di quel destino comune che si avverte con l’Amore è senz’altro l’unico modo concreto di dare sostanza a quel senso di unità, ma parafrasando proprio la donna che amo, restare in possesso della propria libertà non significa doverla per forza usare unilateralmente ed avere mondi preesistenti all’incontro, non significa per forza che questi debbano mantenere, anche dopo essersi trovati con qualcuno di eccezionale (in senso letterale), la loro precedente forma; dipende, probabilmente, da quanto “grosso” si avverte che sia, ciò che c’è “in ballo”.

venerdì 14 gennaio 2022

Fra l'incudine e il martello

La sfida che come pagani siamo chiamati a mio parere a raccogliere, in questo frangente, è davvero notevole. Da una parte, c’è chi si ribella (giustamente) all’ordine dittatoriale che si è costituito, ma appellandosi cristianamente ai diritti “naturali” (e perciò presuntamente inviolabili) dell’Uomo; dall’altro c’è chi afferma, implicitamente, che i diritti siano (effettivamente) soltanto un costrutto sociale e che pertanto siano nella disponibilità insindacabile della decisione politica.

Ebbene, io appartengo alla seconda schiera eppure contesto comunque il regime totalitario vigente: perché? Cominciamo da principio, dicendo che io NON credo nell’esistenza di diritti naturali: nessuno mi deve niente ed io non devo niente a nessuno, ma tutti siamo, per certi aspetti, in concorrenza fra noi ogni qual volta i nostri personali interessi finiscano in conflitto con i personali interessi altrui.

I monoteisti possono permettersi di credere ai diritti naturali dell’Uomo perché, a loro dire, l’Uomo stesso sarebbe una creatura del dio e godrebbe di tutti i diritti concessigli da quello stesso dio (il che lo trovo di un nichilismo implicito estremo, giacché tutto ciò significa che l’Uomo ha dei diritti non perché li abbia in sé, ma perché ad un dio piace che li abbia); il cristiano ha Gesù come modello umano e può dire che sia pienamente umano solo chi coincida con lui, mentre un pagano, che non ha alcun modello di “umano perfetto”, si trova escluso da ragionamenti simili.

Questo significa che un pagano debba per forza riconoscere che, non esistendo diritti umani inalienabili, vada considerata legittima la situazione attuale? Ma per nessun motivo! Io penso che l’Uomo non abbia alcun diritto e che in effetti, ciò che chiamiamo “diritti” non sia altro che un accordo fra pari su dove fermarsi nella marcia verso l’altro, al fine di mantenere una concordia sociale utile a tutti, ma questo non significa che non esista alcun criterio logico (anziché dogmatico) per stabilire cosa sia lecito e cosa non sia lecito fare.

A cosa serve stare insieme? Aldilà dei vari gradi di empatia che ciascuno esprime e che, giocoforza, non possono essere soggetti a normativa, stare insieme è utile a tutti perché insieme si riescono a raggiungere obiettivi inarrivabili da ciascuno, preso nella sua singolarità. Per poter collaborare, è necessario un clima di tutela sociale reciproca: io posso investire le mie forze nell’opera comune, perché so che, qualora mi trovassi in difficoltà, altri giungerebbero in mio aiuto con le loro risorse; ne deduco, a rigor di logica, innanzitutto che le scelte politiche vadano prese collettivamente e non da una sola persona, poi ne deduco anche che, sempre a rigor di logica, le scelte politiche prese debbano sempre ricercare il giusto compromesso fra garanzie per il singolo e garanzie per il collettivo.

Se le scelte vengono prese da una sola persona, ci sarà certo chi si sentirà liberato dal peso del decidere, ma ci sarà anche chi si sentirà vittima degli altri e la compattezza sociale andrà a farsi fottere; se le scelte tutelano troppo il singolo individuo, la coesione sociale necessaria a raggiungere obiettivi comuni andrà a farsi fottere; se le scelte costringono il singolo ad immolarsi in funzione degli obiettivi sociali, quello stesso singolo perderà le motivazioni che gli servono ad investire le sue forze nel corpo sociale stesso.

Aldilà dell'evidente "stupro costituzionale" in atto, a mio avviso non c’è bisogno di tirar in ballo nessun diritto naturale, per capire che ciò che si sta compiendo oggi in Italia è una follia politica: uno solo governa, arrogando su di sé i poteri esecutivo, legislativo, giudiziario e comunicativo; il singolo è riconosciuto nella sua esistenza solo in quanto ingranaggio e cioè solo se si assoggetta completamente a ciò che il dittatore ha stabilito; la maggioranza è autorizzata dallo Stato (e cioè, ad oggi, da un singolo uomo) ad esercitare il bullismo sulla minoranza; il singolo è disincentivato a collaborare con gli altri, perché dagli altri non riceve alcuna tutela nella salvaguardia della sua unicità.

È indispensabile tornar a una visione dogmatica dei diritti umani, per uscire dal delirio di onnipotenza del drago? Io direi di no: sarà sufficiente tornar a mettere in chiaro quali siano gli obiettivi dello stare insieme ed agire con logica per capire quali strade siano coerenti con tali obietti e quali, semplicemente, no. Certo, la Democrazia ed una visione laica dello Stato impongono uno sforzo collettivo e personale ben superiore, a quello richiesto per delegare tutte le scelte ad un solo uomo o per affidare la propria tutela a dei diritti astratti imposti per volere divino: questo mi fa temere che, allo stato attuale, più che la paura stia vincendo la pigrizia.


Immagine da: C. CHAPLIN, Il grande dittatore, 1945.