venerdì 16 agosto 2013

Sulla strada



« Le volpi hanno delle tane e gli uccelli dei nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo. […] Perché alla risurrezione né si prende né si dà moglie, ma i risorti sono come angeli dei cieli. »

(MATTEO VIII, 20; XXII, 30)

Un uomo riesce a vivere come tale, è tale, primariamente se si riconosce tale. Un uomo non può riconoscersi tale, senza peccare di presunzione, se non illuminato dall’amore di qualcuno. Solo l’amore ricevuto “strappa” davvero se stessi al nulla e dona significato alla propria presenza, insieme al valore. Il valore di un uomo esiste quando questi è trattato da qualcuno come tale.
Tutti siamo alla ricerca del nostro valore e tutti siamo alla ricerca di un amore: un amore che ci restituisca a noi stessi, al nostro senso, che ci strappi dall’insignificanza, dal nulla. L’istinto di chi ha fame è quello di garantirsi il cibo, garantirsi la sussistenza, garantirsi il senso, l’amore: la gelosia è il legittimo bisogno di senso, lasciato in mano alla paura di vederselo strappato. La gelosia è il legittimo bisogno di senso, lasciato in mano al dubbio sulla sua effettiva esistenza. La paura e il dubbio sono i genitori della dipendenza dagli altri: la dipendenza è la parodia dell’amore, perché sostituisce, alla gioia di uno scambio vitale, gratuito e reciproco, l’unilaterale ansia di annullarsi nell’altro.
Nella civiltà del dono, il senso che l’amore altrui sa dare è gratuito e non garantito da contratti: le persone sono libere di donarsi agli altri e di accogliere l’altrui dono. Alla paura non è concesso il privilegio di imbrigliare gli altri a sé con ricatti ed impegni insensibili alla natura personale del dono; alla speranza (che è una forma dell’intelligenza) è affidato il compito di attendere l’altro, già riconosciuto e per il quale già, gratuitamente, ci si spende. Nella civiltà del dono, l’amore è dono di sé all’altro: donarsi all’altro è lasciare e cercare che l’altro, di cui si è scoperta la novità e la bellezza, provochi continuamente l’immagine tendenzialmente statica che si ha di sé; donarsi all’altro è accogliere l’idea di non essere padroni di alcun “IO” da difendere. Nella civiltà del dono, ciò che si è lo si attende come offerto da un altro. Nella civiltà del dono, del nuovo, non si confonde la naturale e legittima e sacrosanta ricerca di contatto e comunione anche fisica, tra due che reciprocamente si offrono l’uno all’altro, con la pretesa convulsa e dipendente di prove sempre più rassicuranti (all’apparenza) sull’altrui vicinanza. Nella civiltà del dono si può scorgere, anche dietro una porta lasciata chiusa al proprio desiderio, la voglia di apertura, di tutela, di porsi altrui ad un senso, una libertà, una reciprocità più grandi, più fondati, più duraturi, più autentici, più umani. Nella civiltà del dono si può ancora avere paura, di certo si ha ancora bisogno, ma il bisogno, la paura, l’amore cercato, vengono accolte come cose ancora umane: non come pretesti ad ascesi nella volontà di potenza, ma come offerte anch’esse, di sé, a se stessi ed alla gratuità dell’altro che con noi si metterà in gioco.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti, Mondadori, Trento 2013;
WALLACE D. F., Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2000.

3 commenti:

  1. Quando ci si apre all'altro, gli si riconosce lo statuto di persona e questo sottrae l'altro dall'ambito degli oggetti, che possono gravitare attorno a noi. Aprirsi all'altro implica così, necessariamente, un percorso di fuoriuscita dal "mito dell'IO" e un'apertura di senso, sulle altrui scelte in cui si è coinvolti, che non confonde più la reciprocità "in costruzione" con la "reattività" dell'altro a sé.

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  2. Quante sentenze. E quella sulla gelosia, andrebbe un po' rivista, a mio parere. E poi tralasci, credo, che nella civiltà del dono non sempre donarsi significa essere presenti, anzi, più spesso accade che l'offerta dell'altro sia uno spazio vuoto e un silenzio con cui dover fare i conti, se lo si guarda con disinteressata lucidità.
    E l'altro poi, non è un pranzo di gala, da riempire di senso. A volte, o forse sempre, il senso manca, e noi, che facciamo allora? Davvero siamo in grado di far tacere l'io? E con lui tutti i nostri fantasmi?

    Eva

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    1. Grazie dell'intervento: mi pi piacciono le sentenze, esprimono bene il livello di coinvolgimento con cui vivo le esperienze di cui parlo :)

      Veniamo alle questioni.

      Sulla gelosia scrivo di quel che provo in tal senso: la vivo con sempre minore difficoltà mano a mano che i segnali rassicuranti da parte dell'altra aumentano, in genere. Oppure quando l'altra, in coppia, la vivo ormai fuori da una dinamica di reciprocità e sempre più come un onere.

      Non sempre donarsi significa essere presenti, anzi: donarsi, come ho scritto, è anzitutto il lasciarSI provocare dall'altro e non un offrire all'altro delle prestazioni gratuite. In questo senso l'amore è cosa ben diversa dal volontariato, anzi è il contrario: mentre in quest'ultimo vince la dinamica dell'io che si rafforza per un fine da se stessi scelto, nell'amore ci si dispone a lasciare che sia l'altro a mettere in discussione la nostra immagine e la nostra realtà. In questa dinamica, mi pare, il silenzio trova in chi si dona il ruolo di una disponibilità a far tacere la propria immagine, per lasciare che sia l'altro a ridonarci a noi stessi; in chi riceve, trova il ruolo di un'offerta di reciprocità, nei termini di non ridurre l'amore altruiai propri schemi, ma coglierlo nella sua spontaneità.

      Qunado parlo di senso, non parlo della codificazione o di un'attribuzione di un "contenuto/contetto" de/all'altro. Nella reciprocità del riconoscimento, nel dono, più semplicemente (si fa per dire), emerge la bellezza della relazione, di sè e della vita: bellezza che è valore, che è già senso in sè anche nella difficoltà di comprendersi, già emancipazione delle persone dalle pretese del nulla.

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