sabato 17 agosto 2013

L'io, la potenza, il Senso



«  Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto la propria vita per amor mio, la salverà. »

(LUCA IX, 24)

La vita ha senso. Hanno senso gli altri , hanno senso gli animali e le piante che vivono con me. La mia vite ha senso: mi ci dedico e ne esco rinnovato. I gesti gratuiti sono inutili, ma sensati: c’è differenza, tra un gesto gratuito ed un gesto insensato. Il gesto gratuito non è fatto per dovere, per rispondere ad un ordine, ad un comandamento, per seguire un preconcetto: il gesto gratuito fa seguito all’avvertenza del senso ed accresce l’avvertenza di senso.
Il senso della realtà può essere avvertito, ma non attribuito, né codificato in un concetto. Se si attribuisce un senso alle cose, lo si attribuisce partendo dal proprio passato, dai propri preconcetti: ci si chiude al nuovo che avanza dalla realtà, si restringe la realtà a ciò che già si è visto. Se si codifica il senso delle cose, lo si riduce ad un concetto partendo dal proprio passato e si riduce la realtà a sé. Ridurre la realtà a sé significa porsi al centro del mondo: porsi al centro del mondo significa ridurre la realtà ad un insieme di oggetti, perdendone il senso più ampio.
Il senso della realtà, di qualcuno, di una relazione, di una vigna, è immanente a quella realtà, quel qualcuno, quella relazione, quella vigna: non è qualcosa che dal cervello va verso queste cose, ma un’avvertenza nuova di queste cose stesse, che stimola nuovi atteggiamenti ed è promossa da nuovi atteggiamenti. I nuovi atteggiamenti, che promuovono l’avvertenza del senso, sono quelli che partono dall’ascolto e non dalla volontà di potenza. La realtà, le persone, le relazioni, le vigne, sono perdute in quanto tali una volta che siano approcciate con volontà di potenza, con volontà di ridurle a sé ed al proprio “già noto”. Il “già noto” è l’io: ogni volta che l’io viene difeso, come immagine già nota di sé nella realtà, verso le persone e tra le vigne, queste cose si perdono e si perde sé stessi. Gli altri non sono “un pranzo di gala da riempire di senso” (Lenabuona), ossia da ridurre all’io: ma sono sensati e nel lasciarsi compromettere con essi, questo lo si coglie. Nel lasciare alla realtà, alle persone, alle vigne il diritto di venirci incontro nella novità del loro essere, se ne coglie il senso, ma questa “concessione” non è autentica finché vissuta come concessione, finché vissuta come atto dell’io: gli altri sono attorno a noi e “recriminano” il riconoscimento della loro diversità, per il solo fatto d’esserci come altro da noi. Lasciare spazio all’altro, al nuovo che viene da fuori, significa vivere gratuitamente, significa amare ciò che viene da fuori. Amare concede il risparmio di quelle forze che l’uomo consuma volendo imporre se stesso alle cose: ma amare per salvarsi in tali forze è di nuovo volontà di potenza, è di nuovo io, è di nuovo dissipazione di sé e della realtà e degli altri.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti, Mondadori, Trento 2013;
LEVINAS E., MARCEL G., RICOEUR P., Il pensiero dell’altro (a cura di F. Riva), ed. Lavoro, Roma 2008;
WALLACE D. F., Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2000.

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