domenica 26 marzo 2017

Cristianesimo e simbolo. VII significanti

Nei primi articoli di questa serie, quelli in cui ho stabilito i parametri dell’intero lavoro, ho mostrato in che senso io ritenga non solo legittima, ma oltretutto necessaria a detta della stessa Chiesa, la lettura simbolica del NT. Nell’introduzione alla serie, ho citato il principio filosofico del rasoio di Ockam: esso non stabilisce semplicemente che l’ipotesi più semplice sia sempre da preferire, ma pone il ricercatore nella prospettiva nominalista (l’Essere è una cosa diversa in ciascun ente) di vagliare costantemente ogni singola risposta, senza affidarsi ad un quadro generale che contrapporrebbe un qualunque preconcetto all’analisi dei fatti; ho citato Bultmann, che, sulla scorta di Ockam, “separa” il Gesù storico dal Cristo della fede affermando, con criteri filologici, il carattere prettamente teologico delle Scritture; ho citato la semiologia di Rahner, che riconosce l’uso innovativo che il Cristianesimo fa di immagini ad esso precedenti; ho citato la Dei Filius del Concilio Vaticano (CV) I, che riconosce l’esigenza che fede e ragione, provenendo dallo stesso Creatore, non si contraddicano; ho citato la Dei Verbum del CV II, che riconosce l’esigenza di distinguere i generi letterari all’interno delle Scritture, in sintesi adottando implicitamente le idee di Bultmann e Rahner circa il NT, ma non (incresciosamente) compiendo (per ora, almeno) il medesimo passo anche riguardo gli elementi della propria dottrina che, proprio dal NT, pretenderebbero di ricevere gran parte della loro legittimazione. Negli articoli ricapitolati nel primo sommario, ho mostrato l’enorme serie di elementi mitici preesistenti che richiamano fortemente la dottrina paolina ed ho mostrato anche come proprio quest’ultima si evolva nel susseguirsi dei documenti neotestamentari. Negli articoli fra il primo ed il secondo sommario, ho proseguito il mio discorso anzitutto disarticolando i presupposti stessi dell’evento messianico cristiano, cioè l’esistenza di un peccato originale da redimere; successivamente a ciò, ho esaminato  tutti quegli elementi, storici, antropologici, filologici e logici, che suggeriscono l’estrema improbabilità d’una interpretazione letterale dei fatti che avrebbero dato origine al Cristianesimo: sia in termini soteriologici (cioè riguardanti un presunto bisogno di salvezza del genere umano), che storici (la presunta resurrezione di Gesù). In questo settimo articolo, approfittando di un’obiezione dell’antropologo Maurice Bouisson, “affinerò” i criteri con i quali distinguere un brano che legittimi un’interpretazione di sé di tipo semiologico, da uno che non lo giustifichi: in II, 1/3 già affermai che una lettura simbolica delle Scritture e della dottrina «appare lecita ogni qual volta ci si trovi innanzi a narrazioni dall’apparenza fantastica o facilmente conducibili a soggetti mitologici precedenti (e che siano questi ultimi, per inciso, riferibili in modo documentabile alle aree ed alle epoche in cui le narrazioni e le dottrine analizzate si ritenga siano state composte)». Vorrei ora precisare le nozioni da me già fornite, alla luce della osservazione riportata nell’illustrazione seguente:


Anzitutto, già nel secondo sommario, scrissi che «i concetti di archetipo, di mito e di simbolo sono risalenti all’epoca illuminista; nella percezione antica, il mito si confonde con la poesia (sono i poeti, ad inventare le leggende) e la poesia si confonde con un’ispirazione soprannaturale che ha come proprio modello l’esperienza sciamanica»: questo significa che l’intendimento contemporaneo del simbolo, successivo alla lezione di Voltaire nel suo Dizionario Filosofico e soprattutto di Freud, è probabilmente anacronistico rispetto alle intenzioni di coloro che, in epoca pre-cristiana, si trovarono ad elaborare le narrazioni fondanti dei propri popoli. Inesatta pare oggi la dottrina illuminista, per la quale mito e metafora, sostanzialmente, corrispondono; inesatta pare la l’evoluzione freudiana della dottrina illuminista, che assimila il simbolo al segno. Per Freud, che ha come modello il positivismo della tassonomia ottocentesca e l’applicazione d’esso nella sua interpretazione dei sogni, il simbolo non è che l’alterazione della realtà dovuta al “filtro” di un preconcetto funzionale a qualcosa, un po’ come se il suo autore mostrasse un cosa, per suggerirne stricto sensu un’altra («ti mostro il campanile per non scadere nella “volgarità” di mostrarti un pene eretto»). Jung reintroduce in Occidente, anzitutto nella sua polemica verso Freud in Simboli della trasformazione e poi in tutta la sua produzione successiva, il tema di simbolo come “oggetto d’intuizione”, ovvero come restituzione, nelle forme di una specifica cultura (sul piano storico collettivo) o coscienza (su quello storico esistenziale), di esperienze ancestrali (sul piano della specie) od inconsce (sul piano dell’individuo). Nel medesimo atto terapeutico d’interpretare i sogni, Jung propone ora la rinuncia al voler dirimere i significati “a colpi di” associazioni dirette, del tipo “specifica immagine = specifico senso”: il simbolo viene liberato dalla restrittiva valenza di segno per tornare quell’oggetto polisemico, ambivalente, ch’è oggi ben illustrato da Galimberti nel suo La terra senza il male. Cosa significa dunque, tutto il precedente discorso, riguardo all’argomento qui tematizzato? Prima di stabilire criteri più attendibili che legittimino la lettura simbolica di un brano “sacro” o di una dottrina, è necessario tenere a mente una cosa, ossia che i simboli lavorano per associazione e non per scomposizione, come invece le parole del discorso razionale: mentre queste ultime, infatti, suddividono le questioni in elementi semplici posti poi in una catena di cause ed effetti che vada dall’ipotesi alla tesi (processo ch’è ciò che sto operando anch’io, con questa serie d’articoli!), il simbolo assume in sé diversi piani della realtà e diversi aspetti di ciascun piano. Il simbolo è contemporaneamente rappresentativo (vale come segno), riassuntivo (capace di accomunare più significati) ed evocativo (capace di rifrangersi in più significati distinti); rappresenta e riassume, sul piano dei sensi, elementi esistenziali (piano dell’Essere), elementi operativi (piano del fare) ed elementi sapienziali (piano dell’avere); rappresenta e sviluppa da se stesso, sul piano della coscienza, significati concettuali, psico-emotivi e storici. Il mito non è che un simbolo posto in forma narrativa: aldilà del significato letterale che il racconto mitico ha di per sé (piano dell’avere), esso propone un modello di comportamento (piano del fare) ed una nozione di realtà (piano dell’Essere); all’interno delle vicende mitiche possono presentarsi numerosi simboli abitualmente rappresentati in forma grafica ed in questo caso la comprensione dei modelli etico e cosmico da esso trasmessi, non può che passare da una pre-conoscenza dei suddetti simboli.


Ora, come già detto, davanti ad episodi con elementi fantastici, a me pare altamente più probabile l’ipotesi di una consistenza mitica dei racconti, piuttosto che l’idea di trovarmi innanzi a resoconti storici d’eventi di portata straordinaria: se non bastasse tutta la riflessione fatta dal ‘500 in avanti sulla valutazione dei generi narrativi in campo filologico, a sostenere la mia preferenza, ricorderei il semplice dato di buon senso per il quale, onde reputare plausibilmente come vere delle affermazioni straordinarie, occorrano dimostrazioni altrettanto straordinarie (se mi si chiedesse di credere alla presenza di un passerotto su un tetto, potrei ragionevolmente farlo anche senza alcuna prova, data l’estrema usualità di quell’evento: lo stesso discorso non varrebbe nel caso mi si raccontasse della presenza, sullo stesso tetto, di un fortuna-drago). In presenza di elementi fantastici, diventa altamente più probabile non solo la consistenza mitica del racconto, ma anche, per ciò stesso, l’ipotesi che numerosi elementi del suddetto racconto indichino simbolicamente dei significati ulteriori a quello del senso letterale della narrazione: ciò nonostante, essendo che i simboli sono di per sé spesso rappresentati da oggetti (spade, scudi, brocche, mantelli, ecc.), eventi (lavarsi, passare una porta, salire, ecc.) ed esseri viventi (animali, piante, ecc.) tipici della realtà quotidiana, resta facile il trarsi in inganno, finendo col fare dire ad un testo tutto quanto si voglia ch’esso dica. Come si riconosce un simbolo e come si evita di confondere la biografia di Napoleone con un mito solare? Stiliamo una lista di requisiti che rendono progressivamente più probabile la circostanza di essere davanti ad un simbolo: 

  1. Presenza di numerosi elementi fantastici (superpoteri dei protagonisti come il volare, l’essere invulnerabili, il detenere armi magiche, ecc.; presenza di animali inesistenti come chimere, unicorni, ecc.) che indicano la natura chiaramente mitica di un racconto; 
  2. Presenza di numerosi elementi preesistenti in altre narrazioni chiaramente mitiche ed appartenenti a contesti storicamente venuti a contatto con quello di formazione del racconto in analisi (come nel caso di un eroe che, in diverse culture mediorientali, viene smembrato, ricomposto e risuscitato); 
  3. Concordanza documentata fra un presunto elemento simbolico ed i dati letterari e/od archeologici riguardanti il medesimo periodo e la medesima area di composizione del racconto in esame (ad esempio, la presenza del serpente associata con valenza simbolica a diverse divinità del contesto); 
  4. Coerenza fra l’uso di un presunto elemento simbolico del racconto in questione e l’uso simbolico che quello stesso elemento abbia già dimostrato altrove, comunemente, di avere (ad esempio, il serpente associato all’astuzia, all’intelligenza, al rinnovamento, all’inganno, alla fecondità); 
  5. Coerenza fra il significato simbolico riconosciuto ad un elemento e le caratteristiche fisiche oggettive dell’elemento significante stesso (ad esempio, il serpente associato alla fertilità in quanto avente apparenza di fallo che penetra la terra, piuttosto che associato al rinnovamento a causa della sua fisiologica caratteristica di mutare pelle);
  6. Coerenza fra le qualità simboliche attribuite a un elemento della narrazione e la narrazione stessa (ad esempio, come il serpente, storicamente associato all’astuzia, che nel racconto si rende responsabile di un inganno);
  7. Impossibilità di comprendere l’utilità di un elemento all’interno di una narrazione, nel caso si escludesse un suo uso simbolico all’interno della stessa (ad esempio, l’impossibilità di giustificare la capacità del serpente biblico di parlare, se non per il fatto ch’esso simboleggi una persuasione).

Nel caso di Napoleone citato nello stralcio di Bouisson più sopra riportato, aldilà del fatto che esistono prove documentali (carteggi, dipinti, testimonianze, toponimi, influenze linguistiche, lignaggi nobiliari, ecc.) dell’effettiva esistenza del comandante francese secondo quella specifica biografia, possiamo notare: 1) come il racconto non presenti alcun elemento fantastico (nessun super potere, nessun animale inventato o parlante, ecc.); 2) come gli elementi della simbologia solare citati siano pochissimi rispetto alla vastità della biografia del generale e del tutto coerenti con la parabola esistenziale di numerosissimi uomini di potere della Storia; 3) come l’epoca positivista dell’epopea napoleonica non fosse affatto avvezza alla narrazione simbolica delle mitologie solari; 4) come la figura di Napoleone non includesse alcuna delle caratteristiche mitiche di un eroe solare, come la nascita miracolosa, l’esercizio della magia, una morte eroica, ecc.; 5) come la figura di Napoleone risulti assolutamente comprensibile alla luce delle sole dinamiche umane, senza necessità di tirar in ballo alcun esercizio di semiologia per comprenderne determinati aspetti (se fosse nato ad ovest e morto ad est, il senso della sua parabola esistenziale sarebbe rimasto inalterato). Per concludere, la valenza archetipica di un racconto, per essere plausibile, deve tenere conto sia della plausibilità della presenza di simboli in esso, che della nozione che del simbolo si aveva all’epoca della sua stesura, che del senso simbolico che determinati elementi avevano in quei luoghi ed in quell’epoca, che della coerenza fra il consueto valore simbolico degli elementi presi in esame, con il contesto del racconto; per contro, si ha che la presenza di tutti questi elementi o di gran parte d’essi, non solo legittima la lettura simbolica di un brano, ma anche la qualifica come la più probabile e fruttuosa.


Per quanto concerne la polemica di Bouisson contro la teoria di una origine comune a tutte le religioni, voglio ora sviluppare un breve discorso a parte. Anzitutto, il suddetto autore francese è in polemica contro una specifica corrente di pensiero che è quella teosofica, poi ripresa in forma distinta dal suo connazionale René Guénon: essa, assumendo che le varie forme religiose non siano altro che forme folkloristiche tese a trasmettere un’unica verità, attribuisce alla storia dei culti una dinamica simile a quella che la Bibbia narra circa la Torre di Babele; gli uomini, dispersi dal loro luogo d’origine, avrebbero declinato il culto originario in una miriade di forme, dalle quali sarebbe oggi possibile risalire alla fonte solo grazie alla pratica esoterica. Diversamente dalla teosofia, Jung parla di archetipi, cioè di “forme-pensiero” tipiche della specie umana e che quest’ultima poi “incarnerebbe”, di volta in volta, in immagini archetipiche adeguate alle singole circostanze; gli archetipi rappresenterebbero per Jung quelle tensioni psichiche che trovano origine negli istinti (di caccia, di conservazione, di espansione, di riproduzione, di cura parentale, di clan, di nascita, di morte, ecc.), mentre le immagini archetipiche non sarebbero che le forme culturalmente determinate di quelle stesse tensioni: mentre i primi costituirebbero l’inconscio collettivo, ovvero il patrimonio ignoto eppure psichicamente determinante di ogni umano in quanto tale, le seconde costituirebbero l’elaborazione di quelle stesse tensioni in un determinato contesto e quindi in una determinata organizzazione sociale. Sposo personalmente la teoria junghiana: già Vitruvio, nel suo De Architectura, fa risalire il genio religioso romano allo specifico territorio geofisico da cui esso è emerso. Essendo stata appurata l’esistenza, nel passato della umanità, di una cosiddetta Eva mitocondriale e di un cosiddetto Adamo del gene Y, è storia il fatto che tutti gli umani del pianeta derivino da un punto specifico dello stesso, dal quale si sono poi dispersi nel corso dei millenni: in questo senso, nella misura in cui fosse documentabile che una qualche forma di culto vigesse già fra questi antenati, pare sensata l’ipotesi di una religione unitaria originale; ma così come da pochi progenitori si è prodotta una varietà genetica non riducibile all’uomo di partenza, così anche le attuali esperienze religiose non paiono, né exotericamente e né esotericamente, riducibili in alcun modo ad una e una sola concezione e del sacro e della vita e della realtà. Come già ho mostrato nel secondo sommario di questa serie, la presenza di simboli ricorrenti e con utilizzi analoghi in diverse forme religiose, non significa affatto che quelle stesse forme religiose siano riducibili l’una alle altre; il fatto che il Cristianesimo abbia edificato la propria mitologia attraverso l’uso di elementi simbolici preesistenti, non significa affatto che il Cristianesimo sia in perfetta continuità con i culti da cui avrebbe tratto i propri elementi narrativi. Con semplicità, io ritengo plausibile che, quando gli archetipi (istinti) della specie umana si scontrano con un contesto ambientale che spinge ad un certo stile di vita (cultura), le forme di relazione (culto) fra quel determinato popolo e quella determinata forma della realtà producono immagini archetipiche (simboli) specifiche: dal momento che molte esperienze (cicli stagionali, ciclo soli-lunare, ciclo vitale umano, incontro con specifici animali e piante con caratteristiche peculiari, ecc.) accomunano ogni umano a qualunque latitudine ed epoca, ecco che moltissimi simboli si ripropongono non soltanto per contatto e contaminazione diretta fra le diverse culture, ma anche e soprattutto per una comunanza esperienziale sulla quale agisce un comune apparato istintuale. In sintesi, non soltanto io trovo inutile teorizzare una precisa religione ancestrale alla base di tutti i culti attuali, ma riscontro anche una sostanziale impossibilità di sovrapporre questi ultimi gli uni sugli altri; anche il fenomeno che i latini chiamavano interpretatio e che consiste nel passaggio di una determinata divinità dal suo pantheon d’origine a quello d’un’altra civiltà, non va affatto compreso, come ci hanno male abituato certi libri di scuola, come la semplice parificazione di due culti (come dire: lo Zeus dei greci diventa il Tinia degli etruschi, il Giove dei latini, l’Odino dei germani, ecc.): ciascuna divinità di ogni pantheon, per quanto apparentemente simile e confrontabile con un’altra di una cultura estranea, non potrà mai sovrapporsi ad essa, per il semplice fatto che un dio è una dinamica coerente con uno specifico sistema di valori, il quale è coerente con uno specifico stile di vita, il quale è a sua volta consono ad uno specifico clima ed uno specifico territorio. Da una parte, sul piano del senso religioso delle due culture, in alcun modo possiamo identificare sic et simpliciter il mazdeo Ahura Mazdā con l’ebreo YHWH; dall’altra, sul piano simbolico, non è possibile comprendere YHWH senza interessarsi delle contaminazioni che la religione mosaica ricevette da quella mazdea ai tempi della cattività babilonese.

martedì 14 marzo 2017

Cristianesimo e simbolo. VI secondo sommario

Siamo giunti ad un’ulteriore ricapitolazione del lavoro fino a qui intrapreso con questa serie d’articoli:

IV, primo sommario (presupposti di un’interpretazione mitica del Cristianesimo);
V, kerygma (1/3 – esigenza di un’interpretazione mitica del Peccato Originale);
V, kerygma (2a/3 – interpretazione simbolica del serpente nel giardino dell’Eden);
V, kerygma (2b/3 – rilettura esoterica dell’episodio della cacciata dal paradiso);
V, kerygma (3/3 – inevitabilità per i cristiani d’una lettura mitica della redenzione);

Ho provato a mostrare quanto il Cristianesimo sia debitore, a livello simbolico, di tutta la tradizione mitica dell’Asia Minore: eppure, sono sostanzialmente d’accordo col semiologo cattolico (don) Hugo Rahner, quand’egli afferma che il Cristianesimo s’appropria dei simboli precedenti per farne qualcosa di sostanzialmente altro; sono d’accordo anche con l’opinione della Chiesa Cattolica quando essa, nel documento conciliare Nostra Ӕtate, «riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti» (§ 4). Hugo Rahner, nel suo testo fondamentale Miti greci nell’Interpretazione cristiana (EDB, Bologna 2011, p. 10), afferma che «il cristiano ellenico, nel rappresentarsi e nell’interpretare il suo nuovo mistero con lucida libertà di spirito, [pone] mano ai tesori del passato, per deporli sul suo altare» ed a mio avviso è proprio così: il Cristianesimo assume simboli che non gli appartengono ed arbitrariamente li strumentalizza affinché veicolino un messaggio nuovo, di matrice senza alcun dubbio orientale e senza alcun dubbio ebraica, cioè il monoteismo “rivelato” e la specifica forma di sottomissione all’autorità ch’esso comporta. La mitologia dispregiativamente chiamata pagana è preposta, in ogni cultura, a descrivere la relazione tra i singoli soggetti ed il tutto della realtà: in questo, la mitologia cristiana si mostra del tutto in continuità d’intenti con il passato. In Grecia, il mito dell’epoca omerica narra dell’emergere dell’ego (principio eroico) che tende a divinizzarsi (Achille, Ulisse) a fronte del “muro invalicabile” della Necessità, il quale circonda i mortali, ma anche gli Déi; in epoca classica, cioè in età democratica, il mito dell’eroe lascia il passo al principio di cittadinanza rappresentato dallo sviluppo della filosofia, per il quale, all’emergere dell’ego, si sostituisce il valore della ricerca dell’universale, ovvero di quei termini condivisibili, con la dialettica, nell’agorà politica; in epoca ellenistica, cioè nell’età imperiale prima macedone e poi romana, il valore di riferimento diventa la divinizzazione per elitarismo, grazie ad una mitologia misterica che sostituisce la vecchia imitazione dell’esempio offerto dagli eroi, con un nuovo valore simbolico dato ora agli stessi. Nel mondo romano, il rapporto magico della “prima ora” fra uomini e Déi si trasforma, in età repubblicana, in una mitologia ch’esprime una relazione giuridica fra Déi e mortali, fondata sul do ut des: il popolo di Roma consulta gli aruspici non più, come nella Grecia pre-classica, per cogliere il “disegno” della Necessità e riconoscer “il proprio posto”, ma per capire come “ingraziarsi il cielo” volendo, a prescindere da esso, portar avanti i propri progetti (la differenza fra Roma e Atene è tutt’oggi riscontrabile nelle differenze di “credo” fra cattolici, per i quali lo Spirito procede anche dal Figlio –e quindi anche dal piano terreno- ed ortodossi, per i quali lo Spirito procede solo dal Padre –e quindi solo dal piano celeste-); in epoca imperiale, il culto pubblico romano si ellenizza, promuovendo da un lato la divinizzazione delle cariche pubbliche (all'orientale) e dall’altra, valorizzando l’elezione iniziatica della plebe.


Come si pone il Cristianesimo davanti all’uso del proprio mito, in relazione a quanto detto sul mondo greco e romano? La novità fondamentale del Cristianesimo è la pretesa di storicità della propria narrazione, ma su questo occorre una specifica. I concetti di archetipo, di mito e di simbolo sono risalenti all’epoca illuminista; nella percezione antica, il mito si confonde con la poesia (sono i poeti, ad inventare le leggende) e la poesia si confonde con un’ispirazione soprannaturale che ha come proprio modello l’esperienza sciamanica: in questo senso, qualunque tradizione religiosa si ritiene in un certo qual modo ispirata (spesso addirittura in senso concreto, come nelle civiltà egizia, sumera, centro-africana, indù, maya, polinesiana ed australiana, le cui tradizioni custodiscono i nomi dei personaggi storici dai quali il popolo avrebbe appreso in passato le leggi, l’agricoltura e le arti); la differenza sta nel fatto che l’evento della rivelazione si colloca per i pagani nell’esperienza soggettiva del narratore, ovvero in un tempo mitico ed idealizzato, in un contesto cioè che non costringe mai un popolo a sottomettersi ad essa come davanti ad un’evidenza prettamente storica. Per i pagani, la sottomissione soggettiva alla religione pubblica sussiste giusto nella misura in cui determinati popoli non abbiano ancora visto emergere, dalla loro psiche collettiva, quelle “costellazioni” egoiche, tali da permetter al singolo d’individuarsi rispetto alla coscienza del gruppo: «Come l'individuo non è assolutamente un essere unico e separato dagli altri, ma è anche un essere sociale, così la psiche umana non è un fenomeno chiuso in sé e meramente individuale, ma è anche un fenomeno collettivo. […] Il primitivo si identifica ancora, in maggiore o minor misura, con la psiche collettiva e per tal ragione è equamente partecipe delle virtù e dei vizi di tutti senza alcuna attribuzione personale e senza contraddizione interiore. La contraddizione insorge soltanto quando si inizia lo sviluppo della mente personale e quando la ragione scopre l'inconciliabilità dei contrari. Conseguenza di questa scoperta è il conflitto della rimozione. Noi vogliamo essere buoni e quindi vogliamo sopprimere il male e con questo finisce il paradiso della psiche collettiva» (C.G. JUNG, «La struttura dell'inconscio» in: La psicologia dell'inconscio, Newton Compton editori, 1997, pp. 110; 112). Paolo afferma l’attualità della risurrezione di Gesù rispetto all’epoca corrente; il Cristo paolino non è la forma poetica che prende un’esperienza mistica e non è il ricordo dell’iniziatore ancestrale di una specifica civiltà, come Abramo: è un tizio che gli sbarra fisicamente la strada e lo prende a sberle, costringendolo (parola chiave del suo annuncio!) a non vedere (At IX, 1-9) altri che Lui.


A prescindere dalla storicità o meno del ritorno dai morti di Cristo in un corpo glorioso, la dottrina cristiana si pone in se stessa come necessariamente coercitiva, anzitutto in quanto pretendente d’essere un’evidenza, un fatto: a questo riguardo, trovo importantissimo sottolineare che la distinzione già affrontata tra il Gesù storico ed il Cristo della fede cattolica, se da un lato risulta indispensabile per farsi un’idea sull’attendibilità della credenza paolina, dall’altro è assolutamente ininfluente al fine di valutare l’impatto della dottrina cristiana sul corpo sociale. Dal momento che la Chiesa, nel suo operare di millenni, ha tenuto conto soltanto del Cristo del NT e non del Gesù presunto rabbino galileo itinerante con velleità millenariste e rivoluzionarie, ucciso dai romani per sedizione, va da sé che per comprendere il rapporto fra Cristianesimo e simbolo ci si debba fondare esclusivamente sulle fonti riconosciute legittime dal culto cristiano stesso, ovvero i soli documenti neotestamentari: se il Cristo dei vangeli ha detto ed ha fatto questo e quello, è su quelle sole basi che il messaggio cristiano va interpretato e non su ciò che il “vero” Gesù potrebbe invece essere stato. La storicizzazione dell’evento messianico è l’eredità più autenticamente ebraica della dottrina paolina: essa è inconcepibile fuori dal quadro concettuale dell’alleanza mosaica, altro episodio dalle tinte mitiche, ma collocato in un luogo ed un tempo non verificabili e ciò nonostante considerati “precisi” dalla tradizione. Come ho mostrato circa Gn III, anche riferendovi i passi contigui del NT riguardanti le tentazioni di Cristo e la lotta fra spirito e carne della letteratura giovannea, il dio d’Israele è un padrone ed il NT dipinge il Cristo come figlio del padrone e padrone a sua volta (cfr. Mc XIII, 26; Mt XIII, 41-42; Lc XVII, 7-10): in questo senso, anche il contenuto esplicito del mito cristiano educa di per sé alla sudditanza, anzitutto della Chiesa al dio padrone, la quale si riversa poi in una pretesa sudditanza dei figli ai genitori, degli alunni agli educatori, del popolo ai governanti “per volontà divina” (è il liberalismo, oggi, ad avere abbattuto quest’alleanza fra papato e monarchie), dei laici ai chierici, dei chierici ai vescovi, dei vescovi al Papa e della società civile alla dottrina cattolica (basti pensare alle continue ingerenze politiche della CEI nel panorama civile italiano). Riassumendo, l’educazione alla sottomissione s’insinua nella società, attraverso il mito cristiano, per due vie: quella legalista, imperniata sul dualismobene vs male” (eredità ebraica e mazdea, per cui solo chi aderisce al volere di Dio si salva. Il fatto che nel Cristianesimo l'adesione al bene contro il male diventi una responsabilità personale fatta su criteri pseudo-empatici –cfr. Mc III, 32-35; Gv XV, 14.17-, non altera la sostanziale continuità del principio dualista e legalista coi due culti precedenti) e sulla pretesa di possesso di un’unica verità, in forza dell’unica rivelazione dell’unico dio padrone; quella della pretesa storicità dell’evento Cristo, che costringerebbe ad inchinarsi davanti ai fatti. In tutto il lavoro fino a qui prodotto, ho mostrato la discutibilità della storicità della redenzione e quindi la plausibilissima infondatezza della pretesa di detenzione di una verità, assoluta e rivelata, da parte della Chiesa: nei prossimi articoli continuerò ad analizzare i miti cristiani, al fine di riconoscervi sia gli elementi di continuità col paganesimo (emersione “eroica” della volontà del singolo e percorso di rinnovata accoglienza dell’universale in lui), che gli elementi di continuità con l’ebraismo (servilismo, storicizzazione del mito e relativa sottomissione al dio padrone).