domenica 23 dicembre 2018

Paideia - 03, In che modo “pagàno”?

Si è detto che la spiritualità “pagana” si distingue da quella neo-abramitica (post 70 e.v.) per la diversa considerazione del rapporto fra esperienze ed idee. Mentre ogni cultura “pagana” lascia che ogni nuova esperienza trasformi il suo pantheon, le culture neo-abramitiche operano esattamente al contrario e cioè riducendo l’esperienza entro i ristretti preconcetti imposti dalle presunte rivelazioni divine: una pre-comprensione che, come desumibile dai loro “assunti”, sia gli attuali “pagani” di tipo “ricostruzionista” (approccio filologico), che i sedicenti “neo-pagani” (approccio eclettico), dimostrano di non cogliere. Se da un lato i “ricostruzionisti” perseguono una visione “cristallizzata” delle proprie pratiche, dimenticando che ogni pantheon si è costantemente evoluto e che pretendere di ricostruirne uno in forma “fissa” è un atto sostanzialmente dogmatico, altrettanto dogmatici risultano i “neo-pagani”, nella misura in cui ritengono che la “parentesi cristiana” abbia costituito in Europa uno “spartiacque” storico, anziché un’esperienza tra le altre, oltre la quale procedere.


Ora mi pare necessario proseguire indicando quali ulteriori caratteristiche, oggi come ieri, contraddistinguano la “paganità”. I “pagani” di ogni latitudine ed epoca partono dall’esperienza per identificare iconograficamente alcune qualità ed alcuni contesti tipici del vivere umano: la gelosia, il desiderio, l’ordine sociale, il mare, il conflitto, la ricerca di senso, la mediazione fra necessità diverse, la fame, la ricchezza, la nascita, la morte, ecc., diventano nel mondo “pagano” archetipi con i quali tutti e ciascuno hanno a che fare. L’uomo pagano fa esperienza di due circostanze: 1) le qualità ed i contesti del vivere umano precedono il singolo individuo, lo condizionano inesorabilmente, sopravvivono alla sua estinzione fisica e sono quindi “Déi immortali”; 2) gli Déi, ovvero le energie “qualitative” ed “ambientali” con cui tutti e ciascuno hanno a che fare, evolvono; mutano forma; si accorpano (da due divinità ad una sola con duplice caratteristica); si separano (una divinità pluri-archetipica si scinde in due divinità che si spartiscono le qualità originarie della loro progenitrice), in un “gioco” esperienziale nel quale le energie vengono diversamente rappresentate, al seguito del mutare della forma con cui gli uomini ne facciano esperienza nel loro specifico contesto socio-politico-ambientale.


Ogni pantheon “fa la spia” dello specifico stile di vita del popolo e/o del singolo che lo adotta: ad esempio il mare, il desiderio di ricchezza e le carestie sono esperienze condivisibili da tutti i popoli mediterranei, ma un popolo di predoni navali ringrazierà la “divinità dei mari e della conquista”, mentre un popolo costiero predato temerà una “divinità dei mari e della carestia”. A seconda del proprio stile di vita, un popolo si raffigura in modo diverso le medesime energie ed i medesimi eterni e condivisi archetipi; a seconda delle sue specifiche immagini archetipiche (ovvero le declinazioni particolari degli archetipi universali), un popolo si relaziona in modo specifico alle proprie divinità: ora con timore, ora contrattualmente, ora con presunzione. Se in un’epoca di bisogno quale ad esempio il medioevo, il popolo europeo implorava in ginocchio il dio-padrone insegnato nel Cristianesimo, in un’epoca di “euforia scientifica” come quella positivista, l’atteggiamento supponente ed ateo “l’ha fatta da padrona” in gran parte del continente europeo. Timore per la miseria, regime monarchico e sudditanza psico-emotiva al dio cristiano sono andati necessariamente di pari passo nell’Ancien Regìme in Europa, così come oggi, sempre in Europa, appare evidente l’inevitabile avanzamento parallelo fra ottimismo tecnologico, regime democratico e soggettivazione dell’esperienza spirituale-religiosa.


Trovo che le precedenti considerazioni possano risultare illuminanti per trarre nuove indicazioni circa la consistenza di una contemporanea pratica “pagana”: questa, partendo dall’esperienza, oggi come ieri non può che procedere dalla comprensione di ciò che si è nel contesto in cui ci si trovi. Se in epoche in cui “fare gruppo” era indispensabile per sopravvivere, l’edificazione di un pantheon risultava inevitabilmente “sbilanciata” sul piano dello stile di vita collettivo, nell’Occidente tecnologizzato attuale mi pare anzitutto ragionevole che si aderisca ad un pantheon in cui si avvertono meglio riflesse le personali esperienze delle energie del reale: solo in un secondo momento, persone che abbiano adottato stili di vita e di valori sufficientemente simili potranno associarsi per condividere in tutto od in parte il loro culto, ovvero la loro personale relazione con le “forze della realtà”: forze della realtà che del resto s'impongono ed appaiono eterne all’uomo "d'oggi", così come all’uomo "di ieri". In base alla sua esperienza, l’uomo di oggi può assumere una specifica modalità relazionale con la realtà, piuttosto che un’altra: in questa scelta consiste la sua libertà, mentre nell’esistere delle forze consiste la sua appartenenza oggettiva al reale. La spiritualità pagana dell’uomo contemporaneo, così com’è stata a livello comunitario per i pagani dell’epoca pre-cristiana, consiste sostanzialmente, a mio avviso, nella “scelta evolutiva” circa la modalità relazionale “ingaggiata” con quella realtà esterna che s’impone come “oggettiva”.

martedì 11 dicembre 2018

Paideia - 02, Quale “paganesimo”?

La spiritualità “pagana”, la cui evoluzione nell’epoca ellenista pure divenne un presupposto fondamentale della veniente cultura neo-abramitica (Cristianesimo, Giudaismo, Islam), si distingueva da quest’ultima per la diversa considerazione del rapporto fra esperienze ed idee: mentre ogni cultura “pagana” lasciava che ogni nuova esperienza trasformasse il suo pantheon, le culture neo-abramitiche operano esattamente al contrario e cioè riducendo l’esperienza entro i ristretti preconcetti imposti dalle presunte rivelazioni divine. Studiando le divinità politeiste, facilmente ci s’imbatte in mitologie contrastanti, riguardanti la medesima divinità; facilmente ci s’imbatte nell’accorpamento di una divinità straniera all’interno di un pantheon; facilmente ci s’imbatte nell’accorpamento di più divinità –e relativi attributi, in un’unica divinità o viceversa; facilmente ci s’imbatte nell’evoluzione di una divinità a seguito di contaminazioni, sconvolgimenti politico-economici o variazioni dello stile di vita del popolo che ad essa rendeva culto.


Non esiste un solo pantheon antico le cui ultime e più “recenti” tracce siano concordi con le prime e più antiche. Secoli e secoli di tradizione di un popolo, ovunque portarono questo ad evolvere, in base al proprio stile di vita e per l’appunto, alle proprie esperienze, non solo la propria concezione delle divinità, ma spesso, il modo stesso di concepire il rapporto fra sé ed il mondo: alla luce di queste assunzioni, proverò ora a dire “la mia” circa l’attuale diatriba fra le definizioni “pagano” e “neo-pagano”, riferite alle pratiche spirituali occidentali odierne e d’origine non abramitica. Generalmente, oggi si auto-definiscono “pagani” i cosiddetti “ricostruzionisti”, ovvero quei gruppi i quali, attingendo quanto più possibile da fonti storico-archeologiche, intendono ripristinare i culti antichi in modo filologicamente esatto; generalmente, si auto-definiscono “neo-pagani” coloro i quali, preso atto dell’impossibilità di riprodurre con esattezza ed oggi i culti antichi, sia a causa delle lacune d’informazioni, che dell’inevitabile trasformazione subìta dal contesto spazio-temporale (anche e soprattutto a causa della “parentesi” cristiana, perlomeno in Europa), si adoperano in diversa maniera a riprendere alcuni elementi tradizionali, ricombinandoli però in modo sincretico ed eclettico, al fine di coniugare il “ritorno a casa” nella tradizione e la vita contemporanea.


A mio avviso, alla luce di quanto detto circa i rapporti fra esperienze ed idee nella mentalità pagana, entrambi gli “schieramenti” commettono errori facilmente riscontrabili. I “ricostruzionisti”, a mio avviso, troppo spesso idealizzano la "forma", a dispetto della "sostanza empirica" (ovvero la priorità "pagana" all'esperienza) di cui già si è detto: anche volendo riprodurre pedissequamente un culto antico di cui si avesse precisa descrizione, dovrebbero anzitutto domandarsi “quale epoca?” ricostruire. Il pericolo principale, secondo me, è quello di confondere la spiritualità di un culto, con l'aspetto principalmente folkloristico della "rievocazione storica" di una specifica e circoscritta Era dello stesso: infatti e ad onor del vero, anche ipotizzando di possedere tutte le nozioni necessarie, un conto sarebbe “fare rivivere” il pantheon greco dell’epoca omerica; altra cosa sarebbe riproporre il culto greco dell’epoca di Solone; altra faccenda ancora sarebbe il tornar a celebrare la ritualità pubblica greca dell’epoca ellenistica. I “ricostruzionisti” insomma, a mio avviso, non solo peccano d’ingenuità se ritengono che un culto “pagano” fosse qualcosa di statico; peccano anche di dogmatismo, nella misura in cui concepiscono un pantheon con la stessa idea d’immutabilità ch’è tipica invece dei culti neo-abramitici sedicenti rivelati.


Meglio dei “ricostruzionisti”, gli eclettici comprendono il carattere illusorio della pretesa di riportare in vita, oggi, culti legati a spazi e tempi molto distanti dal vivere contemporaneo: ciò non di meno, definendosi “neo-pagani”, a mio avviso anche loro cadono nello stesso fraintendimento dei primi e ponendo una distinzione fra il loro “neo-paganesimo” e quello pre-cristiano, anch’essi dimostrano di non avere affatto capito il carattere esperienziale e dinamico degli antichi culti. Se gli eclettici si definiscono “neo..”, evidentemente è perché anch’essi, come i “ricostruzionisti”, coltivano un’idea sostanzialmente “cristiana” (intrinsecamente dogmatica, in quanto “cristallizzata” in un preconcetto) del “paganesimo” antico, che per loro è morto e basta, essendo inteso come forma fissa estinta dalla “frattura cristiana”. Su questo “fronte”, per concludere questo intervento direi che il “paganesimo”, in quanto culto dinamico, possa essere praticato oggi senza alcun bisogno di considerarsi “nuovo”: quello che veramente lo snaturerebbe, a mio avviso irrecuperabilmente, non è l’interruzione storica subìta, ma un’eventuale mentalità subdolamente - e fatalmente - ancora troppo neo-abramitica (e cioè dogmatica, inconsciamente sprezzante del divenire delle esperienze), dei sedicenti “pagani/neo-pagani” contemporanei.

lunedì 10 dicembre 2018

Paideia - 01, Che cos’è “pagàno”?

Il dibattito odierno sul “rinascimento politeista” europeo, avviatosi in epoca romantica (sec. XIX) e rilanciato nella prima metà del ‘900 da personaggi quali Murray, Leland, Crowley, Gardner, Gimbutas e Castaneda, pare “arrancare” sul modo difforme di concepire la continuità e la discontinuità delle pratiche cosiddette “pagane”, rispetto alla lunga “parentesi storica” costituita da quasi 2000 anni di Cristianesimo. Per affrontare coerentemente questo tema, in modo da fornire un contributo leale alla discussione, ritengo sia doveroso riflettere, innanzitutto, su cosa contraddistingua principalmente il “paganesimo” dalle religioni cosiddette “abramitiche” (circa le quali sarebbe, in realtà, da distinguere nettamente fra Ebraismo mosaico antico e Giudaismo rabbinico post-cristiano, ma non è questa la sede).


Religioni monoteiste come quelle giudaica, cristiana ed islamica, partono dal presupposto di un presunto incontro fra determinate persone e una determinata divinità: una divinità che si sarebbe in tutti i casi presentata come origine della realtà, come sostanzialmente esterna alla realtà da essa creata e di conseguenza, come sostanzialmente inconoscibile attraverso il rapporto dell’uomo con la realtà quotidiana. Secondo le tre religioni abramitiche summenzionate, l’unico modo per conoscere l’unica divinità sarebbe quello di attendere la rivelazione della stessa, secondo uno schema agostiniano universalmente noto come “terza navigazione” e ripreso di sana pianta dalle preconizzazioni di Platone nel Fedone, del sec. IV a.e.v. (“ante era volgare”):

«Infatti, trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina (ἢ λόγου θέιου τινός)» [PLATONE (a cura di Giovanni Reale), Fedone, Rusconi, Milano 1997, 85c-d, pag. 185].

Il passo di Platone appena riportato, mostra esattamente la differenza sostanziale che passa fra le spiritualità di tipo “pagano” e le spiritualità di tipo “rivelato”: la relazione fra idea ed esperienza. A dispetto di tutte le differenze formali che passavano fra i vari pantheon dei vari popoli, tutti i “pagani” erano concordi nell’ammettere che fosse l’esperienza a generare le idee sulla consistenza della realtà e non viceversa: mano a mano che l’esperienza informava i popoli, i popoli rivedevano, mutavano, rielaboravano e ricontestualizzavano le proprie opinioni sul reale; per contro una religione rivelata, “pendendo dalle labbra” della divinità che racconta di sé, si trova nella situazione diametralmente opposta.


Il seguace di una religione rivelata non può in alcun modo accettare che la realtà dica, riguardo alla divinità, qualcosa di diverso da ciò che –si presume, la divinità stessa abbia detto di sé: se per i “pagani” è la “forma” stessa degli dèi, ad evolvere mano a mano ch’essi fanno esperienza della realtà, per il credente è la rivelazione divina, a dettare le regole riguardo quali esperienze vadano accettate e quali altre vadano rifiutate. Per i “pagani”, le esperienze “disegnano” le idee sulla realtà; per gli abramitici, è l’idea rivelata a “filtrare” le esperienze. Da queste prime riflessioni possiamo trarre, come preliminare conclusione, la distinzione fra gli abramitici dogmatici (priorità del preconcetto “rivelato”, sull’esperienza) ed i “pagani” empirici (priorità dell’esperienza –anche filosofico/speculativa, sull’idea).

martedì 8 maggio 2018

Dire, fare, baciare, AMARSI

L’identità personale è una condizione relazionale: quando incontro qualcun@, la mia coscienza diventa l’auto-percezione che da un lato, registra le mie reazioni all’incontro; dall’altro, registra le reazioni dell’altr@; infine, compara le mie reazioni alle reazioni dell’altr@. Così come si viene fisicamente al mondo a seguito di una relazione, così è anche per l’identità personale: da un lato ci sta la relazione e dall’altro, la specificità che si trova a vivere quella relazione.

I bambini più piccoli, forse a causa del loro oggettivo bisogno anche fisico degli altri, mostrano di “sapere” istintivamente quanto la loro stessa sussistenza dipenda dal riscontro esterno: quando succede loro un evento anche soltanto minimamente traumatico, come ad esempio lo scivolare mentre giocano, spesso si mettono a piangere per poi smettere istantaneamente quando qualcuno li soccorra. Bimbi un po’ più grandi, che finiscano col prendere un colpo in testa da un compagno mentre giocano, vanno piangendo dall’adult@ più vicino, per smettere immediatamente nel caso in cui quest’ultim@ imponga al colpevole di chiedere loro scusa o intervenga con un cerottino o anche semplicemente un bacio sulla parte “dolente”; spesso, i bambini si mettono immediatamente a giocare con quel ghiaccio che avevano con tanta insistenza preteso dall’adult@ di riferimento, a seguito di un piccolo incidente.


Forse, lo stesso vale per gli adulti: possono far fronte alla solitudine con strumenti migliori rispetto a quelli dei bambini; possono godere autenticamente della propria solitudine, ma non possono restare saldi in loro stessi, fintanto che non sappiano che qualcuno, da qualche parte, li pensa ed ha stima ed amore per loro. Forse, se da un lato la “solitudine in quanto tale” rischia d’essere un problema, in effetti, soltanto di quegli adulti ancora incapaci di reggersi sulle proprie gambe, d’altro canto la “solitudine in quanto sensazione di abbandono” resta un problema “vita natural durante” dell’umano in quanto tale: anche l’eremita più estremo, forse, non sarebbe in grado di resistere nel suo proposito, se non pensasse che, da qualche parte, c’è qualcuno che stia dando un senso al suo agire –e quindi al suo essere- con un affetto personale e proporzionato all’impegno: forse, ciò può spiegare la disponibilità di molti a sottomettersi a prove indicibili, nel nome di una religione o di un ideale; forse, ciò aiuta ad illuminare la relazione fra la sensazione d’avere deluso qualcuno od il provare un amore non corrisposto ed il suicidio.

Ci sono persone che mostrano di vacillare quando si trovano in contesti di solitudine ideologica: nessuno pare pensarla come loro. Ci sono persone che mostrano di vacillare quando si trovano a non essere mai l’oggetto di un dono, di un gesto di dedizione personale o di una parola romantica: nessuno pare pensarle. Ci sono persone che mostrano di vacillare quando si trovano in contesti in cui si sentono rifiutare sul piano fisico: nessuno pare volersi compromettere con loro. Quale che sia il motivo d’avvertenza di penuria nei propri riguardi, forse la sensazione pare avvertita universalmente come problematica proprio per il fatto che si diceva, ovvero che la mancanza percepita d’attenzione, andando a ledere quel “prodotto relazionale” che è l’identità, di fatto demolisce la possibilità di considerazione positiva di se stessi. A quanto pare, una prolungata auto-percezione nella prospettiva di carenza, inibisce nel tempo la produzione di serotonina e di noradrenalina: quando tale inibizione si fa cronica, si costituirebbero le basi fisiologiche per l’insorgere di una “bella” depressione, magari anestetizzata con una o più dipendenze.


Se da un lato, il percepirsi -come che sia- in condizioni di penuria rispetto alle relazioni umane, pare un dato universalmente correlato all’incapacità di resistere alla vita, d’altro lato –e proprio a motivo del suddetto dato generale, il contesto cui ciascuno attribuisce la propria condizione di penuria “dice” della specificità della persona sofferente. L’ipotesi è che faccia maggiormente soffrire quel tipo di penuria che si sia avvertita non solo più frequentemente, ma anche nelle fasi più importanti dello sviluppo della propria identità: infanzia e pubertà, per essere più precisi. Una persona che sia sempre stata abituata a sentirsi accolta riguardo le sue idee, ma raramente sul piano fisico, tenderebbe ad assolutizzare il dato fino a ritenere di non essere accolta, fintanto che altri non accettino di compromettersi fisicamente con lei; per contro, una persona che sia sempre stata abituata a sentirsi accolta sul piano fisico, ma raramente sul piano delle opinioni, tenderebbe ad assolutizzare il dato fino a ritenere di non essere accolta, fintanto che altri non vedano in lei un riferimento morale e/od intellettuale importante.

Se il discorso di cui sopra avesse una qualche validità, forse sarebbe, da un lato, possibile stabilire come piacere a qualcun@, fino a riuscir a manipolarl@, nell’apprendere quale penuria quest@ avverta nella propria vita; dall’altro, sarebbe forse possibile capire perché molti incontri paiano determinati più da due carenze che si “incastrano”, che da due piaceri che si condividono: sembra evidente, infatti, che le persone non si preoccupino poi tanto di ciò che amano, finché si sentano carenti di ciò che trovano indispensabile alla loro sopravvivenza. Se il discorso di cui sopra avesse una qualche validità, forse sarebbe possibile ipotizzare due tipi fondamentali di atteggiamento, davanti alla percezione di una propria condizione di penuria: la ricerca di consapevolezza a tale riguardo, piuttosto che la sottomissione implicita ad essa.


Una persona che si trovi inconsapevolmente a sottomettersi ad un’auto-percezione nell’ottica della mancanza, potrebbe reagire sia con l’abbandonarsi ad uno stato depressivo, che con l’abbandonarsi ad un solipsismo auto-narrato come “voluto” ed in effetti “reattivo”: tale persona, in questo caso, andrebbe incontro ad una crescente nevrosi, nel convincere se stessa di potere fare a meno degli altri. Una persona che si trovi consapevolmente in un’auto-percezione nel segno della mancanza, potrebbe rispondere sia dedicandosi ad accrescere strumentalmente le proprie abilità, al fine d'imparare come convincere gli altri a scegliere di sopperire alle sue mancanze; sia dedicandosi, in ogni circostanza, a distinguere ciò verso cui si sentisse spinta dal bisogno, da ciò verso cui si sentisse spinta dal piacere.

Nella ricomprensione del proprio vero piacere, al netto dei piaceri essenzialmente legati all’appagamento di un bisogno, la persona in oggetto potrebbe procedere rapidamente nella conoscenza di se stessa: si troverebbe presto nella condizione di conoscere, tra piaceri e bisogni inalienabili, il “proprio posto” nel mondo; troverebbe nel “proprio posto” percepito il “faro” capace di guidare le sue scelte in un contesto personalmente significativo; troverebbe poi forse, nel procedere fattualmente verso una meta ideale (personalmente utile e quindi sensata), tramite gesti coerenti, l’approssimarsi a quello stile di vita ed a quella sensazione di valore di sé che, in un linguaggio comune, si potrebbe definire “felicità”.

domenica 4 marzo 2018

Il senso della perdita e la bussola elettorale

I dati delle Elezioni Politiche Italiane 2018 mi suggeriscono un’analisi. L'enorme vittoria del M5S e della Lega, contro l'evaporazione di PD e FI che si prospettano, sono a mio avviso due facce della stessa medaglia. Il M5S con la sua presunta "democrazia diretta" e "dal basso", a torto o a ragione, mi pare sia stato identificato come principale soggetto alternativo al modello rappresentativo ritenuto in crisi.

Per contro, proprio il PD è a parer mio la causa della percezione di crisi rispetto alla democrazia rappresentativa: dopo l'unificazione veltroniana fra l'ala sinistra della DC e l'ala centrista dei DS, il partito s'è trovato ad estinguere al suo interno le ultime residuali forze delle ideologie cattolica e comunista dei suoi "padri fondatori". Con la nascita di FI, la destra del paese ha abbandonato in modo definitivo l'assetto social-fascista per abbracciare il modello liberista-conservatore. Il PD, svuotato oramai di contenuto ideologico e preso tra l'incudine della tecnocrazia europea ed il martello di FI, ha pensato bene di trasformarsi nella versione progressista (ovvero meglio disposta verso i diritti civili) di quello stesso liberismo di cui FI rappresentava, appunto, la versione socialmente reazionaria ed imprenditoriale.

Con i partiti ancora a "traino ideologico" spinti ai margini dell'arena politica (dalle nuove leggi elettorali di stampo maggioritario) da un lato e con l'appiattirsi dei partiti maggioritari sul medesimo programma liberista, dall'altro, è successo che la classe media abbia registrato su se stessa questa infelice concomitanza: da una parte, lo svuotamento di senso della rappresentatività parlamentare, ridotta di fatto a due versioni della stessa "minestra"; dall'altra -e parzialmente proprio a causa di ciò- all'aggressione selvaggia del capitale sul proprio potere d'acquisto: aggressione volontaria attuata perché l'UE potesse competere globalmente a discapito dei mercati interni e delle tutele del lavoro.

Agli italiani, l'associazione fra la perdita di senso della rappresentatività e la perdita del potere d'acquisto, è subito scesa "nella pancia" ed ha determinato, a mio parere, il risultato odierno: la vittoria di M5S e Lega in funzione anti-conformista e protezionista, con la coestensiva disfatta di PD e FI, in quanto "ratifica" della loro inadeguatezza e cioè della loro omologazione, pur "in doppia salsa", sul liberismo. Una Sinistra ed una Destra appiattite non servono a niente: anche senza grandi valutazioni intellettuali, gli italiani paiono averlo "intuito" sulla loro pelle. Penso che solo con il recupero graduale e coraggioso di vere e forti identità politiche, i partiti oggi giustiziati potranno sperare, un giorno, di risorgere dalle ceneri..

lunedì 26 febbraio 2018

Libertà è responsabilità, Democrazia è partecipazione

Perché le persone sono ciclicamente attratte da opinioni prevaricatrici? Guardando i bambini giocare, si vede spesso come molti amino impersonare animali domestici intenti a ricevere gratificazione da un/a padroncin@ affettuos@: si potrebbe dire che, crescendo, questa fantasia resti il gioco preferito di molti.


Una persona è molto più felice, quando è sottomessa a un’autorità benevola”, dice il Professor Marston nell’omonimo (e secondo me splendido) film biografico del 2017, scritto e diretto da Angela Robinson: l’esperienza quotidiana mi porta a pensare che, per molti, sia in effetti così. Certamente, secoli di mentalità cristiana avranno contribuito non poco ad instillare nella civiltà europea l’idea di attendersi la soluzione da un Deus ex machina benevolo ed onnipotente: ciò nonostante, ho il vago sospetto che la causa e l’effetto in questo caso sfumino l’una nell’altro. Ho il sospetto, insomma, che il Cristianesimo abbia fornito ai popoli europei l’occasione per lasciarsi andare ad una tendenza innata: la stessa del bimbo che fa il cagnolino per la compagna di classe; la stessa del leccapiedi del capo-ufficio; la stessa per cui alcune civiltà sacrificavano i loro più cari beni al fine d’ingraziarsi un mondo spaventevole.


Ritenere di essere liberi implica l’assumersi un’enorme responsabilità riguardo gli esiti della propria vita e della cosa pubblica. Come posso dire di essere libero, se le mie azioni, le mie parole ed i miei pensieri sono indifferenti e non sortiscono alcun effetto reale? Come posso dire di essere libero, quindi, senza ammettere il nesso causale fra ciò che faccio, ciò che dico e ciò che penso, con ciò che si produce nella mia vita? Ce lo ricorda anche lo zio di Peter Parker nella vignetta conclusiva della storia d’esordio di Spider-man (Amazing Fantasy #15, Marvel, USA 1962), che “da grandi poteri, derivano grandi responsabilità”: un impegno con se stessi e col mondo che, ho il sospetto, molti umani siano tendenzialmente insofferenti a doversi prendere. Alla responsabilità della libertà, mi pare sia per molti preferibile il valutarsi nella condizione d’inferiorità che offre l’indubbia comodità di potere delegare ad altri l’impegno delle soluzioni, nonché di potersi piangere addosso per le disgrazie, magari recriminando (senza reagire) sulle colpevoli inadempienze dell’autorità che si era riconosciuta. Chi ragiona nel modo che ho detto, lo fa ovviamente anche in un contesto democratico: i politici sono allora l’autorità cui si è riconosciuto potere, in cambio del proprio posticino da vittima “speranzosa” degli eventi.


Ovviamente la Democrazia è secondo me ben altro e richiede, nel contesto sociale della Polis, la stessa partecipazione “eroica” richiesta personalmente per accettare il prezzo della propria emancipazione dal vittimismo. Così come la propria libertà non può essere né percepita e né “spesa” senza l’assunzione della responsabilità dei suoi effetti, così la Democrazia esige la più vigile partecipazione di chi voglia mantenerla. La libertà, così come la Democrazia, sono regìmi enormemente più dispendiosi del vittimismo e della sudditanza: sono regìmi per gente che non si risparmia, sono regìmi d’iniziazione a se stessi e richiedono il coraggio delle grandi narrazioni epiche! Ulisse affronta il suo viaggio iniziatico contro il favore del Fato, così come le rivolte operaie “strappano” porzioni di libertà e responsabilità aziendale al potere del Capitale; l’uomo si lancia alla ricerca di se stesso ed affronta i propri demoni in vista della vera Volontà, così come i cittadini democratici affrontano le reciproche diversità per trovare il miglior punto d’equilibrio fra libertà soggettive e convivenza pacifica e costruttiva. In questa prospettiva, un approccio “liderista” alla Democrazia è un tradimento intrinseco del significato di quest’Ultima: smettiamola di inseguire capi prestigiosi e mettiamoci una buona volta a verificare le notizie, a scegliere partiti con una gestione interna democratica ed a seguire le assemblee del partito che abbiamo votato (qualunque esso sia), per valutarne l’operato e contribuire ad esso con la nostra esperienza. Essere democratici e liberi sono grandi fatiche e solo una precisa intenzione, seguita da una partecipazione puntuale a se stessi ed alla cosa pubblica, può renderle eventi effettivi (anziché illusioni).

venerdì 23 febbraio 2018

Animali "energetici" e come trovarli

Per affrontare correttamente l’argomento dell’uso evolutivo del simbolismo animale, occorre anzitutto distinguere fra tre categorie: 1) animali totemici, 2) animali guida e 3) animali di potere.

1) “Totem” è un termine che, in Europa, può essere utilizzato soltanto impropriamente, dal momento che si trova strettamente legato alle civiltà nord-americane preesistenti alla conquista da parte dell’uomo bianco: esso presuppone una concezione animista della realtà che prevede l’esistenza di un Grande Spirito cosmico, il quale si declina in una miriade di forze che si manifestano all’uomo sotto la forma di ogni ente ch’esiste. Se, per compararci ad un lessico europeo, accettassimo di paragonare il Grande Spirito all’Anima Mundi dei pensatori rinascimentali, potremmo intendere gli animali totemici come quelle sue particolari declinazioni "incarnate" nelle peculiarità comportamentali e percettive di una data famiglia di sangue, piuttosto che di un dato popolo: un po’ come gli animali araldici che, in Europa, descrivono l’indole di una stirpe svettando dagli scudi di ciascuna linea genealogica familiare. L’animale totemico non è mai soggettivo, riguardando sempre una linea di sangue od una stirpe od un popolo od una determinata civiltà: l’aquila è l’animale totemico del senato romano, mentre la lupa è l’animale totemico del popolo; il picchio è l’animale totemico dei piceni stanziatisi nelle Marche prima ancora della nascita di Roma, tant’è vero che, ancora oggi, la Regione lo porta disegnato sulle proprie insegne; il grifone bicefalo fu l’animale totemico dei Romanov, ecc.

2) L’animale guida è una figura che rientra nella medesima concezione animista già descritta e parimenti, indica una specifica energia in cui si declina verso l’uomo l’Anima Mundi: mentre l’animale totemico indica però l’indole collettiva di un dato gruppo umano, legato da una certa discendenza di sangue o da una certa psicologia sociale dovuta alla comune appartenenza culturale, l’animale guida definisce una energia di cui lo sciamano si giova per viaggiare tra i mondi sottili, allo scopo di portare a termine la sua funzione sociale. In un viaggio sciamanico, l’animale guida si offre all’operatore come quella specifica energia in grado di orientarlo nel suo operato: lo sciamano potrà in un caso invocare diversi animali guida a seconda delle operazioni che andrà a compiere oppure, in un secondo caso, si gioverà di un solo animale guida che con la sua simbologia, esprima su quali atteggiamenti il singolo sciamano possa fare leva, data la sua soggettività.

3) Gli animali di potere si dividono in due sotto-categorie ricalcanti, per certi aspetti, i due atteggiamenti che, si è visto, lo sciamano può assumere verso gli animali guida ed anche questi simboli si rifanno alla concezione animista. 3a) la prima categoria di animali di potere include quelli che stanno al soggetto come gli animali totem stanno ai gruppi: ogni soggetto scopre nella sua vita un animale di potere e nel confronto con le caratteristiche di questo, scopre progressivamente le proprie qualità intrinseche, ma spesso a lui stesso sconosciute: gli animali di potere di questo tipo accompagnano il soggetto dalla culla alla bara e non sono in alcun modo sostituibili, facendo talmente parte della persona da esserne in pratica l’alter-ego; 3b) la seconda categoria di animali di potere include quelli che, in qualche modo, si manifestano al soggetto in determinati periodi, per illuminarlo simbolicamente sulla circostanza ch’egli vive in quel momento: essi possono illustrare un atteggiamento temporaneo del soggetto, così come l’atteggiamento più opportuno da tener in una data situazione, così come la situazione stessa nelle sue qualità energetiche.

Come si individuano gli animali simbolici dei tre gruppi? Esistono sostanzialmente due metodi, uno di tipo epifanico, con l’incontro reale di un certo animale in circostanze rilevanti ed uno di tipo meditativo.

Nel primo caso, il soggetto incontra fisicamente l’animale in un contesto significativo come ad esempio, nella ricerca del proprio animale di potere personale (3a), la circostanza di essersi recato appositamente in un luogo selvaggio in modo rituale (cioè affrontandovi preghiere, digiuni, silenzi ecc.), al fine di vedersi comparire davanti un animale che segnali il suo valore simbolico attraverso un comportamento significativo per il cercatore stesso. Un altro modo “epifanico” d’incontro con animali energetici, stavolta sia totemici (1) che appartenenti ad entrambe le sotto-categorie “di potere” (3a-b), riguarda quegli avvenimenti che Jung chiama sincronicità: il cercatore sta pensando o facendo qualcosa inerente il suo percorso, l’auto-comprensione di se stesso e/od eventi e dinamiche tipici del suo gruppo ed in più di un’occasione, si verifica la concomitante apparizione di uno specifico animale: in questo caso, il soggetto comincia, con il susseguirsi delle coincidenze fra agito/pensato ed apparizioni, a riconoscere un nesso di valore simbolico e chiarificatore, fra i due fenomeni apparentemente slegati fra loro.

Il secondo metodo, più frequente, è quello utile a riconoscere animali energetici di tutte quante le tre categorie (totemici, guida e di potere “a+b”): tramite un viaggio sciamanico od un’opportuna meditazione, anche guidata dalla voce di un soggetto esterno, il cercatore entra in contatto con l’immagine mentale di un animale, del quale poi dovrà andare ad indagare le caratteristiche, al fine di ottenere un responso utile.

mercoledì 21 febbraio 2018

La Grande Ricerca

Mi è stato ultimamente richiesto di commentare esotericamente l’arci-nota fiaba di Cappuccetto Rosso: essendo un tema affascinante, esponendo il quale mi sarà poi possibile esemplificare anche alcuni meccanismi del mito, mi accingo a stenderne un'illustrazione, necessariamente riassuntiva. Per chi non lo sapesse, la fiaba in questione parla di una bimba invitata dalla madre a portare vivande alla nonna, aldilà del bosco: noncurante dei consigli materni, la bimba si lascia distrarre dal lupo, che la devìa dal percorso e la precede a casa della nonna, per tenderle un agguato. Nonna e Bimba, divorate dal lupo, vengono infine salvate da un cacciatore amico dell’anziana. Per avvicinarci culturalmente a questa fiaba è necessaria una premessa: con l’arrivo del monoteismo giudaico-cristiano in Europa, i racconti popolari assunsero su loro stessi il compito che in epoca politeista fu del mito, ovvero il narrare quelli che Jung chiamerebbe “archetipi”. Come bene spiega l’Emerito Sovrano Gran Maestro della Serenissima Gran Loggia d’Italia, Giovanni Francesco Pecoraro, il mito non è che la versione “narrativa” di quelle “cose” di cui i simboli sono la versione “visiva” ed i riti la versione “drammatica”: quelle cose sono gli archetipi, ovvero le forme pensiero che la specie umana, dai suoi albori, ha assunto, elaborato e sfruttato per incontrare la realtà e riconoscerle significato. I singoli miti, i singoli simboli ed i singoli riti non sono che diverse forme comunicative di medesimi e antichissimi archetipi universali, declinati poi in ciascun tempo e luogo nelle immagini archetipiche che li rendono accessibili in ogni specifica civiltà.


1) Premesso ciò, il primo elemento da osservare è gioco forza il cappuccetto rosso che identifica il racconto, il quale, senza ombra di dubbio, deriva dal berretto frigio che fu di Mitra, eroe solare che inaugura la nuova era uccidendo l’antico toro: esso indica nella protagonista il soggetto di un viaggio iniziatico, finalizzato al sacrificio di una vecchia condizione in vista di un ciclo rinnovato di consapevolezza e di uno stato di comunione generato dal previo riconoscimento di valore alla propria identità. Il rosso è il colore del sangue e del fuoco, del mestruo, dell’erotismo e della volontà ardita: esso associa in sé i significati dell’individuazione e dell’auto-coscienza sessuale. 2) Il secondo elemento da osservare è quello delle tre donne ovvero un’anziana, una madre ed una bimba: dalla greca Ecate alla Diana trivia latina; dalle Moire greche alle Parche romane, alle Norne germaniche, il tema del trittico femminile si rifà alle tre fasi della vita (ingenuità/iniziativa, fertilità, saggezza) nel parallelo con le tre fasi lunari visibili (crescente, piena, calante). La madre di Cappuccetto Rosso è la Dea fertile e Regina, che spinge alla maturazione la nuova generazione con la richiesta di raggiungere il capezzale della saggia rappresentante del vecchio corso: comincia così una peripezia entro la selva oscura, popolata in questo caso da quella specifica fiera che ora valuteremo e cioè il lupo.


3) Nella tradizione europea e per certi aspetti anche mondiale, il lupo è l’animale sciamanico per eccellenza. Nel branco, esso rivaleggia sempre per fare valere la propria individualità eppure in quel branco egli, come ogni membro svolge, una precisa funzione di utilità collettiva: il lupo si pone così a simboleggiare da un lato la costante subordinazione di senso al gruppo e dall’altro, la continua messa in discussione del medesimo gruppo. In Grecia, “lupesco” era un appellativo del Dio solare delle arti, Apollo Liceo, la cui pianta sacra è l’alloro in cui volle trasformarsi Dafne per fuggirlo; nelle fiabe russe, il lupo è sovente l’animale-guida dell’eroe; nel mito italico, la lupa alleva i capostipiti solari di Roma e di Siena; nel mito norreno, una coppia di lupi serve Odino, che è il Dio Sovrano della Saggezza, della Guerra e dell’Iniziazione runica. Per il suo comportamento allo stesso tempo individualista e collettivista, accudente e predatorio, il lupo mantiene costantemente una duplice valenza solare e lunare, la prima legata alla capacità espressiva e la seconda, alimentata dal noto immaginario degli ululati all'astro notturno, alla trasformazione. Nel già citato mito norreno è presente, oltre ai due lupi del Dio Supremo Odino, un terzo lupo, che è figlio del dio dell’inganno Loki: si tratta di Fenrir, il Distruttore di mondi, colui che alla fine dei tempi, durante il crepuscolo degli dèi, ucciderà Odino stesso e divorerà il mondo, producendo involontariamente lo spazio affinché una nuova e migliore realtà possa emergere dalle antiche ceneri. Una lupa è tra le fiere che spingono Dante, autentico Cappuccetto Rosso ante litteram, dentro la Selva Oscura da cui uscirà soltanto dopo essere sprofondato nelle viscere dell’Inferno e quindi riemerso rinnovato; dalla figura mitica di Fenrir, il noto scrittore Michael Ende prenderà spunto per il lupo nero, servitore del Nulla distruttore, lanciato sulle orme del giovane cacciatore Atreiu ne La Storia Infinita, anche lui non a caso rivestito di un mantello rosso e dotato del simbolo di rinnovamento Auryn / Uroboros.


Cappuccetto Rosso si conclude con il cacciatore che apre la pancia del lupo per fare uscire di là sia la bimba, che la nonna insieme, a simboleggiare l’avvenuta associazione tra giovinezza e sapienza come effetto degli eventi trasformativi interpretati dall’ingannevole bosco, dal lascivo lupo e dal suo ventre "fecondo", nonché dall’intervento della controparte maschile costituita da lui stesso. Il cacciatore è l’aspetto positivo del lupo (cacciatore a sua volta) e l’aspetto maschile della Triplice Dea: in tutti i pantheon tradizionali, le divinità della guerra e della caccia sono anche le divinità del parto e della sapienza. In un’interpretazione monoteistica, il cacciatore è lo Spirito che illumina l’anima del fedele dispersa nelle difficoltà della vita; in prospettiva junghiana, egli è Animus che si ricongiunge alla coscienza che si sia presa la briga di morire a se stessa nel confronto con l’ombra.