venerdì 17 febbraio 2023

Pagani vs cristiani

Penso che il tema del passaggio epocale di Roma (e con essa, di tutta la civiltà europea) dal politeismo al monoteismo sia molto articolato, perché sia la prima forma, che la seconda, poggiano innanzitutto su caratteristiche antropologiche, prima ancora che politiche: come ben intuì Edith Stein in un noto scambio col collega Ingarden (a proposito dei motivi per cui filosofi parimenti abili giungessero ora a soluzioni realiste, ora a soluzioni idealiste), in effetti esistono nella persona istanze “pre-razionali” che forniscono una sorta di “matrice” a tutto lo sviluppo del suo pensiero successivo.


Se da un punto di vista storico-politico il passaggio di paradigma avvenne attorno al tema della gestione unilaterale del potere (a una Repubblica che diventa impero, serve un'ideologia non più pluralista, ma incentrata su un "pensiero unico" a favore del governante) e se dal canto filosofico, la prima vera codificazione concettuale del monoteismo è a mio parere riscontrabile già nella “scissione ermeneutica” che Platone (ripreso poi abilmente, in termini teologici, da Agostino) opera fra pluralità degli enti (“materia”) ed unitarietà dell’idea (“anima”), direi che, sul piano antropologico, il politeismo si basi sull’esperienza della pluralità di “forze” che “abitano” la realtà, mentre il monoteismo si fonda sull’insopprimibile esigenza umana di trovare unità di senso al proprio esistere.

Essendo il politeismo sostanzialmente “orto-pratico” (cioè fondato sulla correttezza di azioni da compiersi per interagire positivamente con le forze del reale) ed il monoteismo in linea di massima “orto-dosso” (e quindi fondato sulla convergenza delle esperienze in un’unica “cornice di senso”), a me pare chiaro che, specialmente in epoche di forte “smarrimento”, il secondo modello abbia potuto, più del primo, dare l’impressione di potere fornire, al proprio operato, una “terra più solida” su cui “poggiare i piedi”.

Persecuzioni imperiali contro i gentili a parte, direi che la cultura politeista, che io comunque professo, abbia evidentemente “fallito” storicamente anche nella misura in cui, a mio parere, non si è dimostrata capace di associare, ad una efficace pratica, un’altrettanto convincente “weltanschauung” che sapesse contestualizzare tutte le sue (apparentemente) diverse istanze, in un “quadro” concettuale finalmente unitario anche sul piano intellettuale (ed ancor più, forse, "emozionale", dato l'alto valore consolatorio di una cultura inneggiante la salvezza): se le riforme augustee si fossero preoccupate maggiormente di coordinare anche sul piano cognitivo/psico-emotivo i varii aspetti del culto, anziché limitarsi a riorganizzarli formalmente in funzione governativa e (in parte) di “restaurazione” tradizionalista (del genere “si fa così perché facevamo così”), ecco… forse la Storia sarebbe andata diversamente.

venerdì 10 febbraio 2023

Lacrime di coccodrillo

C’era una volta la RAI, titanicamente impegnata a “fare gli italiani dopo che s’era fatta l’Italia”; anche quella era propaganda (beninteso) e la musica seguiva lo schema, con gli interpreti “per famiglie” da un lato ed il cantautorato dissidente, dall’altro.


In assenza di competizione fra emittenti, i criteri della RAI erano politici e con il triplicarsi delle emittenti, la propaganda si era lottizzata, coi Baglioni su Rai1 e coi Guccini su Rai3: poi arrivarono gli anni ‘80, con Berlusconi e con l’ “Auditel”.

Mi pare che oggi si colpevolizzi il web per degli effetti che hanno in realtà le loro cause altrove, molto più lontano nello spazio-tempo: se la RAI doveva competere con (l’allora) Fininvest per l’Auditel, introdotto per quantificare il costo degli spazi pubblicitari, allora i criteri di trasmissione dovevano progressivamente smettere di essere politici (ossia partitici) e dovevano farsi commerciali.

In epoca di propaganda a suo modo pluralista, i Morandi e i Celentano potevano stare sereni fintanto che cantavano l’amore e l’ecologia, mentre i De André potevano giocarsela con la difesa delle minoranze e della lotta operaia; l’idea di qualità non perveniva direttamente dalle produzioni, ma (mi pare) dal retaggio di un certo modo “arcaico” di ragionare, nello stile “far le cose per bene”.

Le cose si facevano “per bene” perché, dopo la guerra, dovevano durare; forse, pure la musica si faceva “per bene” solo perché la gente voleva ancora così "per principio", in generale: non perché il popolo italiano semi-analfabeta di allora, avesse più cultura musicale di quello semi-analfabeta attuale.

Se in Italia i vecchi (ed io tra loro) si lamentano oggi della musica non più “fatta per bene”, a mio parere non è da avercela col web, ma con la sbronza di luccichii e “smutandamenti” che loro tutti si fecero al “Drive-in”: con la loro malintesa idea di sviluppo, che sostituiva il fare sempre meglio, con l'avere sempre di più e sempre più spesso cose nuove, possibilmente "odoranti" di straniero.

Il sistema keynesiano di auto-consumo andò in “rotta di collisione” con la realtà quando la gente, dopo il “boom” economico, volle sempre più “Golf” e sempre meno “128” e “Ritmo”: all’inizio perché forse erano davvero fatte meglio: poi sempre più, solo perché parevano diverse dal solito.

Non prendiamocela coi ragazzi della Trap o con Sanremo, che nell’esprimere il "clima" del Paese si dimostra (in fin dei conti) inossidabile: prendiamocela con noi stessi, con la sbronza che ci beccammo e con la nostra pigrizia nel non coltivare sottigliezza di vedute e competenze... anche musicali.