sabato 20 luglio 2013

Essere-per-dono



« Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. »

(Gesù, Padre Nostro, in LUCA, 11,1 segg.)

Un dio pensato non è un dio di cui si sia fatta esperienza: un dio di cui non si sia fatta esperienza, un dio pensato, non esiste. Un dio pensato come un motore immobile, è un dio ricalcato sul disprezzo umano verso un lavoro strettamente associato alla fatica di procurarsi i mezzi per sussistere: di conseguenza, un dio pensato come non plus ultra della realtà, perfettamente autosufficiente, non può essere pensato, da chi disprezza il lavoro facendo coincidere la fatica con il male, come un dio che non si muova. Ma la fatica non è male ed il lavoro non è solo fatica di sopravvivere: la fatica è fatica ed il male è il male, mentre il lavoro è fatica, soddisfazione, esercizio di sé ed interazione creativa con le cose che sono. L’uomo fa esperienza delle cose: un dio che esiste è un dio di cui si fa esperienza e l’esperienza del dio passa attraverso le cose, per cui il dio e le cose si sostanziano a vicenda, come senso e come sostanza del senso di tutto quanto esiste. Una realtà pensata senza contatto con le cose, è un esercizio autoreferenziale di chi pensa: una realtà ridotta all’aspetto più banale, contingente e “sensoriale” delle cose, è un’esperienza non vissuta secondo l’integrità delle possibilità umane: entrambe le strade sono vicoli ciechi chiusi alla realtà. Dio si muove con la realtà e la realtà che si muove è la sostanza di Dio e non soltanto l’apparire dei suoi propositi: Dio illumina l’esperienza delle cose nell’esperienza di Lui nelle cose e le cose illuminano Dio nel suo essere e nel suo divenire assieme ad esse. L’uomo fa esperienza dell’adeguatezza delle cose ai suoi bisogni e fa esperienza del non sempre facile accesso al bene che la realtà costituisce per lui; fa esperienza del tempo, della morte e fa esperienza dell’eterno presente nel compromettersi gioioso con una realtà che risponde mettendo in moto forze sempre nuove ed impreviste. L’uomo fa esperienza dell’ineluttabilità del dolore e fa esperienza della possibilità di perdonare il dolore subìto: fa esperienza del sacrificio di sé e fa esperienza del trovarsi di nuovo donato a se stesso dalla realtà con cui si era compromesso. Ciò che esiste non può smettere di esistere: se il dolore esiste, questo non può essere negato; se il perdono e l’eterno presente ed il nuovo riceversi in dono dalla realtà, dopo ogni morte, esistono, questi non possono smettere di esistere. L’uomo che si compromette con la realtà avverte tutto il limite ed il dolore della propria condizione, avverte tutta la forza del ritrovarsi donato a se stesso e tutta la forza del perdono.
Il dio soffre insieme all’uomo, perdona assieme all’uomo e si trova di nuovo donato a se stesso dall’uomo che perdona, risignificando con ciò la realtà, mentre si trova compromesso con l’uomo e con essa e assieme all’uomo. L’uomo che perdona come Dio perdona, vede lo Spirito procedere da sé, generato e donato a se stesso dal suo umano perdono: il dio che si compromette, soffre e perdona è vero dio e vero uomo; l’uomo che perdona dopo avere sofferto è vero uomo e vero dio. Il dolore resta sempre lì, non superato, ma emendato nel perdono che restituisce in dono la realtà a se stessa.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

HEIDEGGER M., Essere e tempo (Sein und Zeit, Germania 1927);
LEVINAS E., Totalità e infinito (Totalité et infini: essai sur l'extériorité, Francia 1961).

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