Dalle citazioni bibliche riportate in V, 2a/3 dovrebbe risultare
evidente che l’Albero della Conoscenza
del Bene e del Male e l’Albero della
Vita, occupino il medesimo posto centrale nel contesto dell’Eden. Come
anche afferma il biblista riminese (don) Carlo Rusconi, i due distinti nomi
rappresentano i due sensi del collegamento che il simbolo dell’albero
costituisce fra il cielo e la terra. In effetti, se si pensa anche solo all’Yggdrasill della tradizione norrena, si
può facilmente comprendere perché l’albero, con le radici poste sotto la terra,
il fusto ad altezza delle vicende umane e la chioma rivolta al cielo, sia da
sempre ed ovunque il simbolo privilegiato del rapporto fra l’umano ed il divino,
fra macro (Universo) e micro (Umanità) cosmo. A giudizio del
Rusconi, l’Albero della Vita veicolerebbe
la discesa (consentita) della grazia divina dal cielo alla terra, mentre
l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male veicolerebbe la risalita (vietata)
della Umanità a Dio: in questa prospettiva, la fruizione del frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male
costituirebbe un peccato in tutto simile a quello presentato sempre in Genesi (XI, 1-9) nell’episodio della Torre di Babele: la “scalata al cielo” con i propri mezzi da parte dell’Umanità.
Il dio padrone si mostra, in entrambi i succitati episodi, poco propenso a
tollerare una supposta “lesa maestà” alla propria persona: da notare è che, in
tutto Gn III, appare evidente come non
sia il serpente a mentire ad Eva, ma Dio a mentire ad Adamo: la previsione del
serpente (III, 4-5) «non morirete
affatto! Anzi, Dio sa che
quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio,
conoscendo il bene e il male» si
rivela talmente vera da mettere in allarme Dio («Il Signore Dio disse allora: "Ecco l'uomo è diventato come uno di
noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e
non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre!"» Gn III, 22), il quale aveva assicurato
al suo presunto “protetto” Adamo una morte certa, in caso di violazione, che
invece non si verifica affatto. Se la teoria di Rusconi sui due alberi è
attendibile come io ritengo, ciò che Dio fa è interrompere la propria grazia
verso l’umanità (grazia che, secondo Paolo, tornerà ad esser concessa grazie
all’operato del Cristo) onde evitare che questa possa fare a meno di lui: si
comporta insomma come se fosse Lui, ad abbisognare della sudditanza umana.
La spiegazione cattolica della caduta concerne il peccato di
presunzione dell’umanità riguardo Dio: essa, avendo preteso di stabilire
secondo i propri parametri il bene ed il male, avrebbe prodotto una frattura
incolmabile fra sé e la realtà, riducendo quest’ultima, si potrebbe dire, a
mera proiezione dei gusti personali degli uomini (nel senso: non più è buono
ciò che Dio dice sia buono, ma è buono ciò che all’uomo piace). Ora, abbiamo
precedentemente osservato come numerosi elementi del racconto indichino la
centralità del tema della relazione fra dualismo ed unità, nella decodifica del
mito: il serpente (cioè l’istinto vitale) pare in realtà prefiggersi, tramite
la donna, di controbilanciare (piuttosto che promuovere) un’unilateralità di
approccio alle cose, che invece pare il frutto proprio dell’ordine patriarcale
che dal dio padrone discende verso l’Adamo vassallo. Al centro del giardino c’è
un albero speciale, dualizzato nelle sue distinte direzioni discendente ed ascendente, delle quali solo la prima parrebbe dichiarata legittima
da Dio: questo significa, sul piano simbolico, che mentre ogni ordine
costituito (compreso quello divino) è necessariamente la scelta
“cristallizzata” (e quindi auto-referenziale) di qualcosa, a discapito di ciò
che sia stato escluso, la vitalità dell’esperienza umana richiede un costante
superamento dei modelli precedenti, il quale se da un lato è il presupposto
dell’avanzamento della conoscenza, dall’altro esige, ad ogni istante, una morte
della forma e delle certezze preesistenti. La condanna originale dell’uomo sta
nel fatto ch’egli non possa conoscere che per comparazione, cosicché sia
costretto, di volta in volta, a frammentare innanzitutto l’ordine preesistente
del reale, al fine di riconoscer il valore di ciascuna parte e potere
finalmente risalire dal frammento all’Uno.
Nella prospettiva della suddetta lettura, diviene coerente l’ipotesi
esegetica ebraica circa l’identità del fico come frutto dell’albero proibito;
col suo carattere ermafrodito, il fico è la perfetta immagine della ritrovata
accoglienza dell’Ombra all’interno della prospettiva umana sulla vita, la quale
però è condannata dal dio padrone: è come se la Bibbia ammettesse di conoscere
come stiano le cose, scegliesse di
demonizzare una metà del reale in funzione di un ordine maschilista, artefatto
e sostanzialmente disumano. «Allora
la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e
desiderabile per acquistare saggezza»
(Gn III, 6): sempre Rusconi illustra, nell’omelia già citata, il paragone fra
il suddetto brano ed altri del NT, più precisamente quelli evangelici delle
tentazioni subìte da Cristo nel deserto (Mt IV, 1-11; Mc I, 12-13; Lc IV, 1-13)
ed un passo dell’epistola I Gv II, 16: «tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la
concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal
mondo». Le quattro pericopi
neotestamentarie confermano una prospettiva spiritualizzante tesa a rimuovere
dall’orizzonte della scelta umana l’Ombra,
ovvero qualunque istanza risulti fondata sulla condizione psico-fisica
dell’umanità e non sull’adesione perentoria ed incondizionata ad ogni
comandamento divino (foss’anche quello di “amare”). Il Peccato Originale, alla
luce dei simboli del suo mito, consisterebbe nel lasciare spazio a bisogni di
carattere personale, ovvero a quel bisogno di completezza che richiederebbe da
parte di ciascuno, per dirla con Jung, una riappropriazione del proprio
“rimosso”: NO, il rimosso deve restare
rimosso, perché Dio lo vuole!
Ora, dal punto di vista simbolico e nel contesto più esteso dell’intera
vicenda, è chiaro che la cacciata dal
paradiso terrestre risulti una conseguenza inevitabile (Dio o non Dio, insomma) dell’attivazione, grazie all’iniziativa
dello scegliere da parte dell’uomo, di quel processo storico che chiamiamo
divenire; la rottura di una situazione cristallizzata (Eden) dà l’avvio alla
Storia, la quale non può avvenire che nel
mondo della fatica e non in una
situazione idilliaca, poiché non esiste storia senza trasformazione, la quale
richiede la costante distruzione di uno stato, in funzione del successivo: ciò
nonostante, questo processo non è narrato come l’effetto necessario di una
causa, ma come conseguenza della violazione di un dominio, che è quello del dio
padrone. Ora le questioni a me paiono due: se la figura di Dio stesso viene
letta in termini simbolici, ovvero come metafora di un’autoreferenzialità
ordinatrice di stampo monarchico, proto-razionalista e patriarcale, allora è ancora
possibile interpretare Gn III come un’esposizione metafisica (e cioè
sapienziale) della condizione umana, ma al prezzo appunto di rinunciar all’esistenza
del dio antropomorfo del racconto; se la figura del dio antropomorfo dev’essere
salvata a tutti i costi in quanto oggetto di un culto, allora il brano diventa
lo strumento di violenza col quale stornare l’uomo dalla ricerca della sua
ricomposizione e del proprio divenire, sotto grave minaccia di condanna eterna
ed in ossequio al volere arrogante di Dio. Nel primo caso, si accede ad un livello
esoterico delle Scritture (e quindi della dottrina) in cui nulla è più ciò che
appare e tutto è finalizzato alla relazione fra il soggetto e l’unità dell’Essere;
nel secondo caso, si resta nella lettera della morta dottrina exoterica, buona
solo per gli ignoranti da mantenere al guinzaglio del padrone. Concludo questa
parte offrendo il parallelo con il mito greco di Aracne, testo tardivo proposto da Ovidio nelle sue Metamorfosi, circa una trentina d’anni
prima dell’era cristiana. Il mito racconta di una giovane che sfida Atena, Dea
della tessitura, in una gara al telaio: ovviamente la ragazza perde, anche se
per un artificio della Dea e viene da essa trasformata in un ragno. Aracne, la
cui storia sarà ripresa da Virgilio e da Dante, racconta di un clima imperiale fortemente
condizionato dal concetto di ossequio all’autorità, già caro al monoteismo
ebraico: Atena, Dea della Guerra, della Saggezza e quindi anche della tessitura (in origine, l’associazione di queste
prerogative indica non solo il livello divino delle qualità rappresentate, ma
anche l’eroe che realizza se stesso grazie alle sue doti), illustra qui una
degradata idea del divino (in epoca classica, infatti, gli Déi sono soggetti alla necessità tanto quanto i mortali e non “burattinai” del destino) che difende il proprio ordine a dispetto di qualunque iniziativa umana: la ragazza viene trasformata in ragno, animale che comunque tesse e dalle otto (simbolo di rinnovamento) zampe, ad effige di un’umanità che non rinuncia a costruirsi nonostante la prevaricazione del Cielo (destino, necessità) nei suoi riguardi.
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