domenica 12 marzo 2017

Cristianesimo e simbolo. V kerygma (2b/3)

Dalle citazioni bibliche riportate in V, 2a/3 dovrebbe risultare evidente che l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male e l’Albero della Vita, occupino il medesimo posto centrale nel contesto dell’Eden. Come anche afferma il biblista riminese (don) Carlo Rusconi, i due distinti nomi rappresentano i due sensi del collegamento che il simbolo dell’albero costituisce fra il cielo e la terra. In effetti, se si pensa anche solo all’Yggdrasill della tradizione norrena, si può facilmente comprendere perché l’albero, con le radici poste sotto la terra, il fusto ad altezza delle vicende umane e la chioma rivolta al cielo, sia da sempre ed ovunque il simbolo privilegiato del rapporto fra l’umano ed il divino, fra macro (Universo) e micro (Umanità) cosmo. A giudizio del Rusconi, l’Albero della Vita veicolerebbe la discesa (consentita) della grazia divina dal cielo alla terra, mentre l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male veicolerebbe la risalita (vietata) della Umanità a Dio: in questa prospettiva, la fruizione del frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male costituirebbe un peccato in tutto simile a quello presentato sempre in Genesi (XI, 1-9) nell’episodio della Torre di Babele: la “scalata al cielo” con i propri mezzi da parte dell’Umanità. Il dio padrone si mostra, in entrambi i succitati episodi, poco propenso a tollerare una supposta “lesa maestà” alla propria persona: da notare è che, in tutto Gn III, appare evidente come non sia il serpente a mentire ad Eva, ma Dio a mentire ad Adamo: la previsione del serpente (III, 4-5) «non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» si rivela talmente vera da mettere in allarme Dio («Il Signore Dio disse allora: "Ecco l'uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell'albero della vita, ne mangi e viva sempre!"» Gn III, 22), il quale aveva assicurato al suo presunto “protetto” Adamo una morte certa, in caso di violazione, che invece non si verifica affatto. Se la teoria di Rusconi sui due alberi è attendibile come io ritengo, ciò che Dio fa è interrompere la propria grazia verso l’umanità (grazia che, secondo Paolo, tornerà ad esser concessa grazie all’operato del Cristo) onde evitare che questa possa fare a meno di lui: si comporta insomma come se fosse Lui, ad abbisognare della sudditanza umana.


La spiegazione cattolica della caduta concerne il peccato di presunzione dell’umanità riguardo Dio: essa, avendo preteso di stabilire secondo i propri parametri il bene ed il male, avrebbe prodotto una frattura incolmabile fra sé e la realtà, riducendo quest’ultima, si potrebbe dire, a mera proiezione dei gusti personali degli uomini (nel senso: non più è buono ciò che Dio dice sia buono, ma è buono ciò che all’uomo piace). Ora, abbiamo precedentemente osservato come numerosi elementi del racconto indichino la centralità del tema della relazione fra dualismo ed unità, nella decodifica del mito: il serpente (cioè l’istinto vitale) pare in realtà prefiggersi, tramite la donna, di controbilanciare (piuttosto che promuovere) un’unilateralità di approccio alle cose, che invece pare il frutto proprio dell’ordine patriarcale che dal dio padrone discende verso l’Adamo vassallo. Al centro del giardino c’è un albero speciale, dualizzato nelle sue distinte direzioni discendente ed ascendente, delle quali solo la prima parrebbe dichiarata legittima da Dio: questo significa, sul piano simbolico, che mentre ogni ordine costituito (compreso quello divino) è necessariamente la scelta “cristallizzata” (e quindi auto-referenziale) di qualcosa, a discapito di ciò che sia stato escluso, la vitalità dell’esperienza umana richiede un costante superamento dei modelli precedenti, il quale se da un lato è il presupposto dell’avanzamento della conoscenza, dall’altro esige, ad ogni istante, una morte della forma e delle certezze preesistenti. La condanna originale dell’uomo sta nel fatto ch’egli non possa conoscere che per comparazione, cosicché sia costretto, di volta in volta, a frammentare innanzitutto l’ordine preesistente del reale, al fine di riconoscer il valore di ciascuna parte e potere finalmente risalire dal frammento all’Uno.


Nella prospettiva della suddetta lettura, diviene coerente l’ipotesi esegetica ebraica circa l’identità del fico come frutto dell’albero proibito; col suo carattere ermafrodito, il fico è la perfetta immagine della ritrovata accoglienza dell’Ombra all’interno della prospettiva umana sulla vita, la quale però è condannata dal dio padrone: è come se la Bibbia ammettesse di conoscere come stiano le cose, scegliesse di demonizzare una metà del reale in funzione di un ordine maschilista, artefatto e sostanzialmente disumano. «Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gn III, 6): sempre Rusconi illustra, nell’omelia già citata, il paragone fra il suddetto brano ed altri del NT, più precisamente quelli evangelici delle tentazioni subìte da Cristo nel deserto (Mt IV, 1-11; Mc I, 12-13; Lc IV, 1-13) ed un passo dell’epistola I Gv II, 16: «tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo». Le quattro pericopi neotestamentarie confermano una prospettiva spiritualizzante tesa a rimuovere dall’orizzonte della scelta umana l’Ombra, ovvero qualunque istanza risulti fondata sulla condizione psico-fisica dell’umanità e non sull’adesione perentoria ed incondizionata ad ogni comandamento divino (foss’anche quello di “amare”). Il Peccato Originale, alla luce dei simboli del suo mito, consisterebbe nel lasciare spazio a bisogni di carattere personale, ovvero a quel bisogno di completezza che richiederebbe da parte di ciascuno, per dirla con Jung, una riappropriazione del proprio “rimosso”: NO, il rimosso deve restare rimosso, perché Dio lo vuole! 


Ora, dal punto di vista simbolico e nel contesto più esteso dell’intera vicenda, è chiaro che la cacciata dal paradiso terrestre risulti una conseguenza inevitabile (Dio o non Dio, insomma) dell’attivazione, grazie all’iniziativa dello scegliere da parte dell’uomo, di quel processo storico che chiamiamo divenire; la rottura di una situazione cristallizzata (Eden) dà l’avvio alla Storia, la quale non può avvenire che nel mondo della fatica e non in una situazione idilliaca, poiché non esiste storia senza trasformazione, la quale richiede la costante distruzione di uno stato, in funzione del successivo: ciò nonostante, questo processo non è narrato come l’effetto necessario di una causa, ma come conseguenza della violazione di un dominio, che è quello del dio padrone. Ora le questioni a me paiono due: se la figura di Dio stesso viene letta in termini simbolici, ovvero come metafora di un’autoreferenzialità ordinatrice di stampo monarchico, proto-razionalista e patriarcale, allora è ancora possibile interpretare Gn III come un’esposizione metafisica (e cioè sapienziale) della condizione umana, ma al prezzo appunto di rinunciar all’esistenza del dio antropomorfo del racconto; se la figura del dio antropomorfo dev’essere salvata a tutti i costi in quanto oggetto di un culto, allora il brano diventa lo strumento di violenza col quale stornare l’uomo dalla ricerca della sua ricomposizione e del proprio divenire, sotto grave minaccia di condanna eterna ed in ossequio al volere arrogante di Dio. Nel primo caso, si accede ad un livello esoterico delle Scritture (e quindi della dottrina) in cui nulla è più ciò che appare e tutto è finalizzato alla relazione fra il soggetto e l’unità dell’Essere; nel secondo caso, si resta nella lettera della morta dottrina exoterica, buona solo per gli ignoranti da mantenere al guinzaglio del padrone. Concludo questa parte offrendo il parallelo con il mito greco di Aracne, testo tardivo proposto da Ovidio nelle sue Metamorfosi, circa una trentina d’anni prima dell’era cristiana. Il mito racconta di una giovane che sfida Atena, Dea della tessitura, in una gara al telaio: ovviamente la ragazza perde, anche se per un artificio della Dea e viene da essa trasformata in un ragno. Aracne, la cui storia sarà ripresa da Virgilio e da Dante, racconta di un clima imperiale fortemente condizionato dal concetto di ossequio all’autorità, già caro al monoteismo ebraico: Atena, Dea della Guerra, della Saggezza e quindi anche della tessitura (in origine, l’associazione di queste prerogative indica non solo il livello divino delle qualità rappresentate, ma anche l’eroe che realizza se stesso grazie alle sue doti), illustra qui una degradata idea del divino (in epoca classica, infatti, gli Déi sono soggetti alla necessità tanto quanto i mortali e non “burattinai” del destino) che difende il proprio ordine a dispetto di qualunque iniziativa umana: la ragazza viene trasformata in ragno, animale che comunque tesse e dalle otto (simbolo di rinnovamento) zampe, ad effige di un’umanità che non rinuncia a costruirsi nonostante la prevaricazione del Cielo (destino, necessità) nei suoi riguardi.

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