giovedì 10 dicembre 2015

Ilici, psichici, pneumatici ed individuazione (2)

La coscienza, si è detto, è la funzione con cui il soggetto delinea il quadro ambientale in cui si viene a trovare: essa fornisce alle emozioni, vero “motore” dell’azione, il "panorama" a cui reagire. La coscienza che cresce in capacità di calcolo comincia ad includere se stessa e tutte le altre funzioni del soggetto, oltre che il soggetto stesso, nel panorama che va delineando. Le emozioni consistono nell’accumulo delle pregresse esperienze in cui gli istinti hanno reagito ai precedenti contesti colti di volta in volta dalla coscienza. Gli istinti, dal canto loro, sono sostanzialmente due: sopravvivenza e riproduzione: gli archetipi (maternità, paternità, sessualità, crescita, coscienza ecc.) non sono che codificazioni ereditarie, di carattere emozionale, dei diversi contesti in cui la specie, storicamente, ha esplicitato i due suddetti istinti. In questi termini, ogni apertura del soggetto al mondo sarebbe motivato dal bisogno di trovare fuori ciò che manca dentro di sé.

Assunto ciò, si potrebbe ipotizzare che la causa prima dell’agire umano sia l’istinto nei suoi due suddetti aspetti, che potrebbero essere genericamente riassunti come “voglia di vivere”. La voglia di vivere sarebbe il motivo fondamentale, la “causa prima”, di ogni agire umano: questa voglia poi, in esseri metacognitivi (coscienti di sé), si tradurrebbe in una causa seconda dell’agire, che potrebbe essere definita “ricerca di senso” e che consisterebbe nel bisogno di coerenza tipico della funzione della coscienza di produrre, come s’è visto, quadri (unitari) delle circostanze esterne/interne. La ricerca di senso sarebbe però condizionata inconsciamente dal retroterra emozionale costituito dalle risposte pregresse degli istinti (archetipi) ai precedenti contesti definiti dalla coscienza in via di sviluppo: in questo senso, la vera “causa seconda” dell’agire sarebbe in realtà il desiderio (voglia di vivere + esperienze positive pregresse), mentre la ricerca di senso, da esso pilotata, sarebbe in realtà, ad un secondo stadio evolutivo immediatamente successivo a quello dell’istinto puro, solo una “causa terza”. A questo livello, qualora l’azione dell’uomo, emergente dai processi descritti, diventasse controproducente sul piano della sua propria “voglia di vivere”, si dovrebbe parlare di patologia mentale.

L’individuazione junghiana consisterebbe, in questo discorso, precisamente nel prendere coscienza dei processi dell’avvertire, dello scegliere (ossia nell’espandere l’orizzonte della propria coscienza) e quindi nel “ribaltare” la gerarchia delle cause ponendo la ricerca di senso al primo posto, la quale dovrebbe trovare poi ‘l modo d’accogliere le resistenze emotive e gl’istinti senza rimuoverli, ma neppure assecondandoli pedissequamente. In termini strettamente identitari, l’uomo dovrebbe poter agire secondo la migliore pertinenza possibile, in una prospettiva vitale, al perfettibile “contesto mondo” che la sua coscienza sarebbe in grado di delineargli. In termini d’apertura al mondo, l’esigenza dettata dall’individuazione sarebbe allora quella di passare da una mera dinamica d’approv-vigionamento ad una prospettiva olistica, capace di tener insieme e l’esigenza d’appagare i bisogni vitali e quella d’includere tra quest’ il mantenimento d’una relazionalità no-profit, per il solo (ma determinante) fine di non ricadere nell’autoreferenzialità impulsiva, nella cecità animale ed in ultim’analisi, nell’indistinzione di specie. Si tratta di un’operazione intrinsecamente gnostica.

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