martedì 20 ottobre 2015

Innocenza e turbamento


Nell’ebraico biblico, la parola che in italiano è tradotta con “carne” è basàr, tradotta a sua volta con sarx (gr.) nel Nuovo testamento. Insieme a nefésh e ruah, basàr è uno degli attributi dell’uomo vivente innanzi a Dio: può indicare anche un pezzo di carne (il prepuzio, ad esempio, circonciso davanti a Dio), gli animali immolati (a Dio) o un’affinità, come in Gn 37, 37 in cui è adottata per indicare una parentela (una comunanza nel porsi innanzi a Dio). Insomma, genericamente, basàr non indica soltanto il corpo materiale, ma l’intero porsi verso Dio della condizione creaturale. Similmente, quando Paolo usa sarx per intendere “vivere nella carne” o “essere nella carne”, pure riferendosi spesso alla caducità del peccato, intende chiaramente riferirsi, di nuovo, alla fragilità della condizione creaturale con cui l’uomo si pone nei confronti di Dio.

Ora, il matrimonio cattolico si autocomprende come unione in una sola carne: che significa? Di certo l’unione non va intesa come una fusione dei corpi fisici dei due sposi; che neppure vada intesa, però, nel senso di un’unione ontologica delle due nature degli sposi, ce lo dice la dottrina stessa. Esistono sacramenti, come il Battesimo e l’Ordine Sacro, che conferiscono il cosiddetto carattere, una “mutazione” vera e propria della natura del ricevente. Il matrimonio, secondo la dottrina cattolica, non conferisce alcun carattere, ossia non produce alcuna nuova natura né nei singoli sposi, né nella coppia in quanto ente unitario. Il matrimonio è indicato valere sino alla morte fisica di uno o di entrambi i coniugi: altro “indizio”, questo, che lascia comprendere com’esso sia inteso strettamente legato alla condizione esistenziale creaturale, ossia, appunto, alla carne.

Dunque l’unione nella carne prodotta dal matrimonio, a volere comprendere rettamente la dottrina cattolica, consiste non tanto nell’unificazione fisica o spirituale dei due sposi, quanto nell’unione in una modalità compartecipata di porsi come creature davanti a Dio. Il che sarebbe come dire che gli sposi riconoscono l’incontro avvenuto tra loro come opera di Dio, affinché condividano nel reciproco sostegno le reciproche vicende terrene ed i reciproci percorsi di santità. In parole semplici, il matrimonio pare, piuttosto che unire, associare i percorsi terreni dei due contraenti, che restano due pure ponendosi in comunione d'intenti nel relazionarsi a Dio. Questa condivisione dell’esperienza creaturale è insieme simbolo (già e non ancora) e via (percorso fra il già e il non ancora) dell’unità eterna fra Cristo e la Sua Sposa e non va “rotto”, per molteplici e serii motivi: poiché incarnante l’eterna fedeltà di Dio (piano simbolico); poiché incarnante il riconoscimento d’un intervento divino (piano vocazionale); poiché costituente la stabilità affettiva di base su cui poggia la coesione sociale.

La “rottura” del matrimonio è peccato (“mancanza”) e chi indirizza le attenzioni coniugali verso altri che il coniuge, commette adulterio (“guasto”). Dio intima nelle Scritture a non “romperlo”, ma ciò non significa che il matrimonio sia "indistruttibile": significa solo che distruggerlo è una mancanza nella via alla santità, è un guasto apportato su più piani a qualcosa di valore. Ora, per i guasti prodotti e per le mancanze vissute c’è il perdono di Dio, il quale, secondo la retta dottrina della Chiesa, è morto specificamente per concederlo. Come la Chiesa ammette, sin dalle persecuzioni dei primi secoli, che non sia da tutti testimoniare eroicamente la fede nella propria vita e che qualunque vigliaccheria è perdonabile davanti al pentimento, così nulla vieta alla dottrina sul matrimonio di perdonare coloro che lo infrangono contro il comando di Dio.

Il matrimonio è indissolubile nel senso di “vietato dissolverlo” (cioè nel senso che “romperlo” è sempre un guasto ed una mancanza da parte degli sposi), ma non nel senso ch’esso sia ontologicamente indistruttibile: esso “compone” infatti gli sposi, s’è detto, esclusivamente sul piano della contingenza terrena della relazione con Dio, la quale è per sua stessa natura… contingente, per l’appunto, soggetta a tutte le fluttuazioni delle fragilità e vicende umane della vita. La fedeltà al matrimonio è legittimamente insegnata dalla Chiesa come l’aspirazione massima di quella forma di percorso, ma riuscirvi rientra nel novero della santità e non in quello del “minimo indispensabile”.  Niente nella dottrina cattolica parla di un “minimo indispensabile” per accedere al perdono, se non il desiderio sincero di esso, unito a una sincera intenzione di fare meglio la prossima volta (anche reiterando lo sbaglio: non è il numero d’errori ad essere valutato dalla dottrina, ma la retta coscienza al momento della richiesta di perdono).

Tutto ciò che non è secondo il cuore di Dio, in un cristiano, sia sul piano del simbolico che su quelli esistenziale e sociale, è mancante e ciò vale anche per il matrimonio: ma ciò che ovunque è mancante viene raggiunto dalla misericordia del perdono di Dio, anche nel contesto di un adulterio. In questa prospettiva, la sopravvivenza fisica di entrambi gli sposi "originari" non giustifica, davanti alla retta dottrina della Chiesa Cattolica, la pretesa di alcuni che indicano la ricomposizione familiare come unica via d’accesso al perdono: ciò che si è rotto si è rotto, anche se romperlo non si doveva ed il farlo ha costituito una mancanza grave, producente un guasto grave. La Chiesa non attende la risurrezione dei morti, nel perdonare l'assassino. Il perdono di Dio rinnova le vite e le ricrea ed esso raggiunge il peccatore là dov’egli ora si trova: è il perdono a muoversi per primo, dalla Croce ai peccatori, senza pretendere dall'errante, preventivamente, le forze per avanzare.

Appaiono tre evidenze. La prima è che l’Ortodossia Cattolica custodisce in se stessa tutti gli strumenti per fare fronte ai cambiamenti sociali attuali, nella prospettiva della misericordia, senza rinnegare nulla di sé: si avverte un'esigenza d'autocoscienza, ma non un problema d'insufficienza. La seconda è che l’indissolubilità del matrimonio è un obiettivo e non un pre-requisito (o meglio: è un pre-requisito nella misura in cui lo sono tutte le altre importanti indicazioni ortopratiche della Chiesa): è una vera e propria forma di santità ed in tal senso soltanto può essere recepita, il che implica un cammino di discernimento e formazione vocazionale serio, debitamente articolato e ben guidato sia nel tempo, che nelle circostanze. La terza è che un eventuale percorso penitenziale, eventualmente istituito per aiutare la santificazione degli adulteri, pare doversi configurare come salvaguardia della massima solidarietà possibile reciproca fra gli ex coniugi, cosicché la situazione attuale possa riparare qualcosa di quanto guastato, allo stesso tempo però tenendo conto della Grazia che procede oltre l'errore anche quando gli uomini si pongono nella condizione di non potere o non riuscire più, ragionevolmente, a tornare sui passi delle proprie passate mancanze.

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