martedì 18 novembre 2014

La via monastica

Il monachesimo [...]
La fuga dal mondo: deserto, isole, ville
«Fuggi lontano dal mondo e ti salverai»41; «Colui che vive nel deserto e vive nel raccoglimento è libero da tre battaglie, quella dell’udito, quella della chiacchiera e quella della vista; ne deve fare una sola, quella del cuore»42. Così si legge negliApoftegmi, e si sente riecheggiare l’ordine divino impartito ad Abramo perché raggiunga la terra promessa (Gen 12,1: «Esci dalla tua terra, dalla famiglia, dalla casa di tuo padre»). Il sentirsi straniero al mondo è tema presente nella prima letteratura cristiana (si pensi all’anonimo A Diogneto), ma è col monachesimo che questo rifiuto del mondo, il contemptus mundi appunto, diventa stile di vita nuovo. L’antichità classica non ama la desolazione del deserto e le divinità pagane prediligono la città e i commerci degli uomini. Al di fuori della città, l’unico spazio non ostile è quello organizzato delle villae, il locus amoenus delle conversazioni aristocratiche e dell’otium. Per la verità, già il messaggio evangelico riserva uno spazio inedito al deserto, a partire dalla vox clamantis in deserto, Giovanni Battista; e sempre nel deserto si rifugia Gesù per il suo digiuno di quaranta giorni, che culmina nella tentazione diabolica. Il deserto resta ancora un mondo ostile, anomico, dove spadroneggiano incontrastate le forze demoniache. Con le biografie di Antonio e Pacomio, la percezione della desolazione del deserto cambia: se da un lato mantiene il suo carattere di luogo ostile, dove appunto il contatto con il demonio è più forte, dall’altro diventa la nuova frontiera della cristianità, un luogo da conquistare e strappare progressivamente all’anomia diabolica. La trasformazione del deserto da parte dei monaci può dirsi compiuta solo quando anche lo spazio selvaggio per eccellenza è definitivamente urbanizzato: ed ecco che il deserto diventa una città, non retta dalla legge umana, ma da quella della politeiamonastica.
Ma che cos’è il deserto? In Egitto e in Siria esso è certamente la desolazione delle terre aride disabitate, ma non va dimenticato che, anche in tali contesti, il deserto si trova a ridosso delle città e costituisce il suburbium, dove convivono la terra incolta, le aziende agricole e le grandi residenze aristocratiche. L’egiziano Abramo è ben consapevole di questo e confessa a Cassiano che, pur avendo potuto costruirsi la cella lungo le sponde del Nilo per avere così l’acqua a portata di mano, consapevole di come anche lì esistano luoghi appartati, tuttavia la vicinanza con i frutti dei giardini e degli orti avrebbe pericolosamente insidiato la solitudine e l’asprezza del vero deserto43. Il deserto è quindi un cliché retorico che indica anzitutto quel luogo dove è possibile praticare la xeniteia/peregrinatio. Al deserto fisico orientale, ad esempio, non corrisponde un equivalente in Occidente: la vasta antropizzazione delle coste occidentali del Mediterraneo e la diffusione più capillare di centri urbani costringe, pertanto, i monaci locali a ‘inventarsi’ il deserto44.
«Volgi gli occhi intorno e, uscendo fuori del pelago delle tue cure affannose, guarda alla nostra condizione come a un porto e drizza lì la prora. È questo l’unico porto nel quale possiamo rifugiarci scampando a tutte le agitazioni del secolo procelloso»45. Così scrive Eucherio, monaco a Lérins, nel 430 a un giovane parente, esortandolo a rifugiarsi nell’isola-monastero antistante al capo de la Croisette, tra Cannes e Antibes. Non dissimile è l’immagine evocata da Ambrogio nell’Esamerone quando descrive le isole abitate da monaci come il porto sicuro dove i canti dei salmodianti fanno a gara «con il mormorio delle onde che dolcemente si infrangono sul lido e le isole applaudono con la bonaccia dei flutti al coro dei santi»46. La sicurezza del rifugio monastico, «fondato sulla roccia e destinato a durare con immobile stabilità»47, appare qui in tutta la sua valenza metaforica e come parte integrante di un linguaggio dove abbondano riferimenti alla navigazione e al naufragio.
Molte altre sono le testimonianze monastiche insulari: se ne trovano tracce dalla Sicilia alle coste settentrionali del Mediterraneo. Nel suo viaggio da Roma alla Gallia Narbonese all’inizio del V secolo, il senatore Rutilio Namaziano parla con malinconia di città abbandonate e della proliferazione di comunità di uomini che fuggono la luce (lucifugi viri) e si definiscono, con nome greco, monaci48. Il riferimento è all’isola di Gorgonia, dove la comunità monastica pare ancora esistere nel 59149. Sul finire del V secolo, Rufiniano, un vescovo africano profugo in seguito alla persecuzione ariana del re vandalo Trasamondo, si stabilisce in una piccola isola vicino alla Sicilia, conducendo un’edificante vita monastica50. Ma già un secolo prima, tra il 358 e il 360, Martino sceglie l’isola Gallinara di fronte ad Albenga come prima sede del suotraining ascetico51 e Girolamo parla di insediamenti analoghi nelle isole prospicienti la costa dalmata52.
Il monachesimo è però anche, sin da subito, urbano. Con la svolta costantiniana la conformazione delle città cambia rapidamente e fra i molti nuovi insediamenti abitativi trovano spazio anche i monasteri. Nel programma edilizio di Costantinopoli, sul finire del IV secolo sono previsti anche i monasteri, che immediatamente assurgono a un ruolo non indifferente nelle complicate dispute ecclesiastiche. Sembra che attorno alla metà del V secolo il numero dei monasteri dell’area costantinopolitana si assesti attorno alle trenta unità, per giungere nel 536 a 73 nel solo territorio urbano53. Nello stesso periodo, anche la ‘vecchia’ Roma si popola di monasteri. I primi insediamenti documentati di fondazioni monastiche conducono presso basiliche martiriali: è il caso del monasterium Sancti Sebastiani ad catacumbas, fondato da papa Sisto, e di quello dei santi Giovanni e Paolo apud sanctum Petrum, fondato dal suo successore Leone54. Ancora nel VI secolo resta traccia di eremiti urbani: è il caso di Ingenuo, che sceglie una zona abbandonata della città di Autun per costruirsi la sua capanna e ritagliarsi un piccolo orto per la sussistenza55, o dell’anonimo monaco di Chinon, il quale vive in una cellulanell’oratorio prospiciente la chiesa56. Emiliano invece si ritira nella foresta dell’Alvernia e ne disbosca una piccola parte sufficiente a ospitare la propria capanna e un orto57.
Un altro spazio ambito dalle comunità monastiche è infine il suburbium, quell’area periurbana in cui sono maggiormente concentrate le residenze aristocratiche. Per gli anni 370-380 ci sono numerose notizie abbastanza attendibili su monasteri sorti entro questi complessi, attorno a Costantinopoli, su entrambe le rive del Bosforo e nell’Occidente latino. In Italia si distinguono i casi di Paolino di Nola e Melania iuniore, in Gallia quello di Sulpicio Severo, il biografo di Martino di Tours. Caso analogo è poi quello di Macrina, sorella di Basilio e Gregorio di Nissa. Tutti costoro condividono alcuni tratti caratteristici: rimangono nelle proprie condizioni di verginità o stato coniugato, rinunciano alle loro ingenti sostanze, dedicano se stessi e il proprio personale servile alla vita ascetica, trasformano la casa padronale in un monastero58.

I segni del monaco: l’abito e il linguaggio
L’abbandono del mondo secolare in favore della comunità monastica separata prevede un rito di ammissione. Come per il catecumeno, anche per il monaco è necessaria una preliminare catechesi che lo prepari a fare la sua professione monastica; anche lui dismette i vecchi indumenti e si riveste di nuovi; anche lui è invitato a formulare proponimenti di rinuncia (apotaxis/abrenuntiatio), analoghe alle formule battesimali di rinuncia a Satana. Separazione, liminalità (il periodo di preparazione) e rito d’ingresso rappresentano la struttura tripartita dell’iniziazione monastica. Parte importante del rito d’ingresso è proprio l’abbandono dell’abito secolare per l’assunzione di quello monastico. Esso è un segno del contemptus mundi, un distintivo di povertà e un’adesione all’insegnamento paolino59. Ma poiché la vita monastica è difficile e il fallimento sempre in agguato, il neo-monaco è invitato a conservare le vesti secolari, perché, in caso di pentimento, possa ritornare al mondo restituendo quelle ricevute60.
A differenza del clero secolare, che solo nel tardo medioevo adotterà un abito religioso, il monaco si contraddistingue sin dalle origini per un modo di vestire particolare, che gli consente di essere visto e riconosciuto come tale in ogni contesto. L’abito è tanto un tratto essenziale dell’identità monastica, che anche i demoni si camuffano da asceti indossando lo schema monachon61, con l’intento evidente di riuscire più facilmente nella loro opera di tentazione. La regola di Pacomio62 allude a una foggia propria dei monaci composta dalla melote/pellicula, la pelle di capra tenuta stretta al corpo da una cintura di cuoio, indossata da Elia e Giovanni Battista, e da una tunica di lino senza maniche (lebitonarium). Di tutte queste varietà si fa un compendio organizzato nel primo libro delle Istituzioni cenobitiche di Cassiano. I vari capi del vestiario monastico, dalla veste alla cintura, al cappuccio, ai calzari, al bastone vengono qui a costituire una teologia del vestire nella quale si istituisce uno stringente rapporto fra la condotta spirituale (interior cultus) e l’abbigliamento esteriore (exterior ornatus).
Prima di lui però già Sulpicio si era soffermato sulla foggia delle vesti monastiche in Gallia. Riferendo in una lettera della morte di Martino, nel 397, definisce agmina palliata le schiere di monaci che ne seguono il corteo funebre63. Il pallium è il mantello corto dei filosofi, ora assurto a simbolo del vestire monastico. Nella società antica l’abito è importante e non c’è professione, posizione sociale o età che non abbia i propri segni distintivi. La somiglianza fra monaco e filosofo è notevole: entrambi portano il pallium, il bastone e la barba lunga. Questi sono i simboli della vita filosofica che Fausto, monaco a Lérins e poi vescovo di Riez, dismette quando lascia la scuola di filosofia («Athenaei consors») per il monastero64, ma per i monaci d’Oriente mantello e bastone restano gli accessori essenziali. Proprio per questa somiglianza è facile il dileggio reciproco. Quando Eunapio racconta della distruzione del Serapeo di Alessandria (391), indugia sui cosiddetti monaci che, pur avendo l’aspetto di uomini, compiono sconcezze indicibili e portano una veste nera65; ma d’altronde è facile – prosegue – proclamarsi monaci, giacché non si deve far altro che indossare vesti scure che spazzino per terra ed essere buoni a nulla e averne la reputazione66. A Eunapio risponde idealmente Isidoro, monaco e sacerdote a Pelusio: «Non sono il mantello e il bastone a fare il vero filosofo, ma linguaggio aperto e condotta rigorosa (parresia kai politeia67.
Altro segno distintivo della disciplina monastica è il linguaggio. Come ogni gruppo sociale che propone una risemantizzazione delle pratiche di vita, anche il monachesimo elabora una sua lingua ‘speciale’, i cui segni vanno rintracciati nella vasta letteratura ascetico-monastica. Per quanto riguarda l’Occidente, il periodo di più feconda creazione linguistica è quello che va dalle traduzioni latine della Vita di Antonio alla Regola di Benedetto. Nell’Oriente egiziano, palestinese e siriaco, invece, le prime testimonianze scritte monastiche risalgono alle generazioni successive a quella dei ‘fondatori’, quando si mette per iscritto il corpus dottrinale negli Apoftegmi. La grande maggioranza delle parole dei monaci si trova proprio nella letteratura apoftegmatica: si tratta di parole in origine pronunciate e ascoltate – probabilmente in copto – e solo più tardi messe per iscritto e lette. Conoscere il monachesimo antico significa anche conoscere il processo di conservazione, raccolta e trasmissione di questo corpus testuale. Interessanti, da questo punto di vista, sono due raccolte risalenti agli inizi del V secolo, la collezione etiopica, nota comeCollectio monastica, e l’Ascetico di Isaia: queste raccolte si collocano esattamente in quel punto cruciale del passaggio dalla tradizione orale a quella scritta. Scrive Isaia: «Quello che ho visto e udito vi riferisco»68. Accanto a questo però non va trascurata la documentazione papiracea di lingua greca, la prima a impiegare una terminologia complessa per indicare le comunità monastiche egiziane. Pur tenendo conto delle diverse lingue di cui si servono gli scrittori monastici, imponente è la massa di neologismi creati per soddisfare le nuove esigenze, pratiche e spirituali, della vita monastica: i nomi delle istituzioni, della gerarchia, delle strutture organizzative, degli oggetti che formano il corredo del monaco. Analogamente non è trascurabile la raffinata risemantizzazione del linguaggio filosofico precedente, col quale si indicano ormai abitualmente gli adempimenti dei monaci e si definisce il vocabolario – e la relativa teologia – della solitudine, della preghiera continua e delle pratiche di purificazione individuale69.
Il fine del monaco: la lotta contro le passioni
Un esempio di questa risemantizzazione è il concetto di imperturbabilità (apatheia). Intesa come fine della vita del saggio, essa può indicare o l’assenza di ogni passione (platonismo), oppure l’assenza di passioni irrazionali, ma con l’ammissione di alcune passioni positive (stoicismo), o ancora l’assoluta insensibilità a qualsiasi emozione (cinismo). La scelta fra apatheia metriopatheia (moderazione) costituisce il dibattito fondamentale relativo al fine della vita, attorno al quale ruotavano le diverse scuole filosofiche antiche. La stessa oscillazione si ritrova nel primo monachesimo cristiano, dove le passioni diventano i pensieri malvagi della morale origeniana e poi gli otto spiriti di Evagrio, i quali giungono a noi dall’esterno, s’insediano nel nostro cuore e generano i pensieri; ultima fase di questa catena causale sono le azioni. Con Cassiano però, il ‘traghettatore’ della morale monastica egiziana in Occidente, accanto ai pensieri (cogitationes) malvagi si rinvengono quelli buoni, generati dalla stessa mente umana. Mentre questi sopraggiungono grazie all’illuminazione dello Spirito Santo, quelli di origine maligna sono insinuati in noi dal diavolo per allettarci con i vizi o con altre insidie occulte70. Al monaco pertanto non resta che vagliarli a uno a uno, affinché si possa raggiungere quella stabilitas che apre le porte alla tranquillitas cordis71.
Uno solo è lo strumento che consente di giungere a questa condizione: il discernimento (diakrisis/discretio). Sempre oscillante fra carisma divino (tradizione egiziana) e tecnica (Cassiano, Nilo di Ancira), il discernimento degli spiriti diventa il tratto distintivo del vero monaco e, di conseguenza, occupa una parte rilevante nella letteratura ascetica cristiana greca e latina. Il fondamento del discernimento è scritturistico, quindi indiscutibilmente di origine divina, tuttavia sulle modalità del suo raggiungimento l’opinione non è altrettanto univoca: per quanto nessuno si spinga a negarne la trasmissione da Dio all’uomo, sul ruolo che la persona assume in questa relazione e soprattutto sulla sua compartecipazione ad essa le posizioni divergono, e talvolta anche di molto. In termini generali, si può dire che il discernimento è il frutto di una lunga e complessa pratica di purificazione del corpo e dell’anima attraverso la continenza, i digiuni, le veglie e la preghiera. Il raggiungimento di tale perfezione ascetica rende l’uomo prossimo a Dio, dischiudendogli la possibilità della vera gnosi. A seconda del contesto nel quale il monaco vive, il discernimento ha conseguenze diverse: per il solitario Antonio è lo strumento principe dell’ascesi, per Pacomio è quel particolare dono che gli consente di preservare l’armonia nella comunità, per entrambi però è lo scudo frapposto alle insidie che giungono dal mondo e quel particolare carisma che consente al monaco il progresso spirituale72.
Pensatore cristiano di riferimento per la definizione di questo itinerario ad Deum è Origene: questi, saldando tradizione giudaica e tradizione greca, indica l’etica come il primo passo sul cammino della vera vita ovvero della conoscenza. Tre sono le vie che conducono l’anima a Dio, purgativa, illuminativa e unitiva: la prima prevede la repressione delle passioni e il dominio sugli istinti; la seconda, più complessa, consiste nell’acquisizione della consapevolezza della fondamentale vanità delle realtà terrene; la terza invece è la conoscenza delle realtà superiori e spirituali, la contemplazione divina. Da qui prende le mosse Evagrio – il vero primo teologo della vita monastica – fissando le tappe di questo cammino attraverso la successione delle sue tre opere principali: il monaco deve anzitutto conseguire l’impassibilità dell’anima attraverso la lotta contro gli otto pensieri malvagi che lo assalgono quotidianamente (Pratico), quindi, solo vinta questa lunga battaglia, potrà aspirare alla vera gnosi, godendo della contemplazione della natura e di Dio (Gnostico). Pilastro fondamentale della sua teologia resta però la lotta alle passioni (Antirretico), ovvero gli otto spiriti malvagi (gola, lussuria, avarizia, tristezza, ira, accidia, vanagloria, orgoglio) legati fra loro da uno stretto rapporto genealogico73.

Il rapporto maestro-discepolo
La radicalità della scelta monastica costringe a rompere i legami sociali precedenti o perlomeno così è rappresentata nelle fonti. L’inevitabile conseguenza è la costruzione di una nuova identità e di un nuovo tipo di personalità. In questo senso, pressoché in ogni area dove il monachesimo prende piede, si assiste al crescente interesse per il rapporto maestro-discepolo, come forma obbligata del processo iniziatico che dà accesso alla vita monastica. Nonostante la grande varietà di situazioni e di stili ascetici, è evidente la centralità di un particolare rapporto di ‘direzione spirituale’, dove un discepolo desideroso di conseguire il progresso continuo nel suo cammino ascetico si rivolge a un maestro istruito ed esperto di quella pratica. Rispetto alla tradizione non cristiana, il monaco che si pone come maestro spirituale non si limita a istruire il discepolo con parole ed esempi, al fine di renderlo più o meno autonomo, bensì richiede fedeltà assoluta. Al discepolo resta la libertà nella scelta, ma dopo che è accettato, l’obbedienza e l’abbandono della propria volontà devono essere totali74. I Padri, dice Poemen, hanno provato tutte queste cose e hanno tramandato la via regia (basilike odos)75 sulla quale tutti i monaci devono camminare76. Al padre spirituale bisogna manifestare i propri pensieri (exagoreusis), anche quelli più vergognosi e intimi, legati, ad esempio, alla sessualità, e chiedere lumi sulla corretta interpretazione delle Scritture77. In ambito cenobitico, in particolare nelle comunità di Pacomio e Shenoute, il dialogo personale lascia il posto a istruzioni generali per l’intera comunità78.
Strumento particolare di direzione spirituale sono poi le lettere. Testimonianza preziosa è quella di Ammonas, monaco eremita nel deserto di Sceti, da dove scrive ai discepoli. In questo corpus testuale si delinea un chiaro percorso ascetico. Il primo passo che spetta al monaco è il raggiungimento dell’esychia, la capacità di praticare la solitudine; raggiunta tale condizione, si è pronti alla lotta contro le passioni attraverso la preghiera e il discernimento79. Alla metà del VI secolo, il meccanismo è talmente consolidato da diventare un vero e proprio strumento di governo con Barsanufio e Giovanni di Gaza, due reclusi che dalle loro celle dispensano consigli a monaci e laici e dirigono le comunità loro sottoposte.
Come già per il carisma del discernimento, anche il rapporto maestro-discepolo, oltre a esplicarsi in modalità diverse, dalla simbiosi fra i due protagonisti alle lettere, viene inteso in maniera quasi opposta nei molti stili di vita monastica. Essenzialmente un carisma riservato a pochi nel monachesimo egiziano, nel De monastica exercitatione di Nilo di Ancira il ruolo del padre spirituale perde ogni coloritura divina per divenire didaskalia, un sapere tecnico acquisito lungo un preciso percorso di formazione, una tradizione sapienziale controllabile e verificabile che scaturisce dal diuturno tirocinio dell’ascesi. «Chi si ingaggia in questo compito deve ungersi come se dovesse affrontare una lotta sfiancante»80. Come il buon medico, il vero padre spirituale risulterà efficace nella misura in cui sarà capace di riconoscere e rimuovere le cause della malattia. Una funzione simile al ‘medico delle passioni’ (spiritalis medicus) è anche quella illustrata da Cassiano, dove l’anziano monaco si presenta al giovane discepolo come una guida che esercita il comando (imperium) e l’autorità (auctoritas) e che, grazie alla sua esperienza, riuscirà a trasmettere al discepolo i segreti del deserto (secreta heremi)81. Il rapporto diventa così una prova per saggiare le reali intenzioni del discepolo, inadatto alla vita monastica se incapace di reggere il giogo (iugum) imposto dall’anziano82.
Molti monachesimi

Famiglie carnali e famiglie spirituali
Topos principale della letteratura ascetica cristiana è certamente l’esortazione al rifiuto di ogni ricchezza materiale e dei legami familiari. Il commento esegetico, spesso congiunto, di pericopi bibliche come Gen 12,1 («Esci dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre») e Mt 19,21 («Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro un cielo; poi vieni e seguimi») indica a tutti coloro che intendono iniziare un cammino monastico un dovere imprescindibile, un netto rifiuto di alcune consuetudini sociali: possesso di beni privati, istituto del matrimonio e preservazione dei legami familiari. Nonostante una ripetuta insistenza su questi argomenti nelle fonti letterarie, una discreta serie di indizi relativi alle diverse forme di aggregazione monastica storicamente documentate lascia intravedere una certa discrepanza fra quanto auspicato e quanto messo in atto. Il modello familiare tradizionale insidia direttamente le comunità monastiche e impone una definizione dei confini del ‘campo’ monastico. Come il cristianesimo ha influito nella ristrutturazione della famiglia antica, anche la diffusione del movimento ascetico ha avuto conseguenze sulle dinamiche familiari in tutti i diversi ceti sociali fra i quali l’ideale di vita si era diffuso, dall’aristocrazia senatoria dell’Urbe ai contadini dell’Egitto copto. I casi di ascetismo domestico di Sulpicio, Melania e Paolino di Nola, ad esempio, influiscono sulla definizione dello spazio fisico dove si conduce vita monastica, ma investono direttamente anche il modello familiare. La reazione è immediata e, forse perché inefficace, reiterata. Dai canoni del concilio di Elvira (306) sino a quelli di Nicea (325), la coabitazione ascetica di uomini e donne è condannata, ma bisogna attendere il canone 17 del concilio di Calcedonia (451) e l’intervento imperiale nella prima metà del VI secolo83 perché l’intensificazione del controllo episcopale sui monasteri dia risultati: da questo momento la vita ascetica non potrà darsi in nessun’altra forma se non in quella del monastero tradizionale.
Alla rinuncia formale della famiglia carnale fa seguito una spiritualizzazione del linguaggio familiare classico (padre, madre, figlio, figlia): i legami spirituali (ma anche quelli regolamentati dalla legislazione) sono definiti in termini di discendenza. Il corpus testuale shenoutiano regola i rapporti all’interno del monastero sulla base del principio di paternità, spirituale e gerarchica, distinguendo tra fratelli (comunità maschile) e sorelle (comunità femminile). Accanto a questo, però, vi sono casi in cui la conservazione dei legami carnali è garantita ai figli e alle figlie di madri che optano per la vita monastica o alle donne che seguono figli e mariti, o più facilmente i fratelli, come nel caso di Pacomio84 e Shenoute. Qualcosa di analogo si verifica in Gallia fra IV e VI secolo, dove abbiamo coppie sposate con prole che optano per la vita monastica (Eucherio di Lione e Salviano di Marsiglia) e il caso dei fratelli, due maschi e una femmina, fondatori della comunità monastica sul massiccio del Giura. E proprio Salviano nel suo Governo di Dio non lesina una dura critica alla famiglia tradizionale, manifestamente in contrasto con quella nuova, che vede in Dio il suo supremo paterfamilias85. Accanto alla tradizionale esortazione a recidere ogni legame con la società mondana, si assiste quindi a un ridimensionamento della radicalità in vista di uno stile di vita certamente casto e ritirato, ma non del tutto separato dal contesto domestico e familiare86.

Stabilità e itineranza
Ogni studio sul monachesimo antico contiene almeno un riferimento all’epistola di Girolamo a Eustochio e alle Conferenze dei Padri di Cassiano, dove si legge che «tria sunt in Aegypto genera monachorum»: anacoreti, cenobiti e un non meglio definitotertium genus87. I primi scelgono di vivere nella solitudine della chora, il territorio extraurbano, i secondi si raccolgono in un medesimo luogo per praticare un comune regime di vita (koinos bios), i terzi invece rifuggono da queste restrizioni e scelgono di vivere l’ascetismo da pellegrini. Il passaggio dal primo al secondo stato di vita è concesso e talvolta regolato; il tertium genus è invece degenere e universalmente condannato88.
L’isolamento dal mondo e dalle sue tentazioni è certamente il fine ultimo di ogni monaco, ma le aree desertiche del bacino mediterraneo sono limitate e progressivamente si popolano di solitari. Il monaco Ammonio lascia la comunità ascetica di Celle per la regione di Nitria, spinto dalla necessità di trovare per sé e i compagni un luogo più appartato per immergersi nell’unione con Dio89. Ma più semplicemente, quando il monaco si accorge di aver ormai acquisito una certa familiarità con le persone e le cose che lo circondano, ecco che abbandona il luogo90. Altri, come Macario Alessandrino, si spostano periodicamente da un luogo a un altro91, altri ancora conducono una vera e propria vita nomadica92. In alcuni rari casi quindi l’itineranza non è biasimata, forse per il prestigio di chi la pratica. Giovanni di Licopoli, ad esempio, monaco veggente, vive da vagabondo, ma in lui alberga il carisma della mobilità93.
Il più noto gruppo monastico itinerante è forse quello dei messaliani o euchiti, vale a dire oranti. L’unica attività che considerano propria della vita ascetica è la preghiera, tutta rivolta ad annullare l’influenza di un demone, responsabile delle passioni, che l’uomo porta con sé dalla nascita, in conseguenza del peccato di Adamo. Questa preghiera ininterrotta impedisce loro di svolgere qualsiasi attività lavorativa e, per sopravvivere, si vedono costretti all’elemosina e all’itineranza ascetica. Presenti nei dintorni di Edessa nella prima metà del IV secolo, i messaliani non costituiscono un vero e proprio movimento unitario e se ne trova traccia anche in altre regioni. È il caso del movimento ascetico di Eustazio, il maestro ascetico di Basilio: organizzato in comunità chiamate fraternità (adelphotes) e sparse in Anatolia, si ha menzione di questo movimento a partire dalla metà del IV secolo. Gli eustaziani rifiutano ovviamente vincoli familiari e con il mondo, e si dedicano prevalentemente all’itineranza, facendosi ospitare nelle case di quanti sono disposti ad ascoltare la loro predicazione94.
L’effetto combinato degli interventi dell’autorità imperiale e di quella ecclesiastica produce una rapida normalizzazione del fenomeno monastico, ma è indubbio che la concettualizzazione messa in atto da Girolamo e Cassiano appiattisca sui modelli considerati accettabili una varietà notevole di pratiche ascetico-monastiche.

Quis monachus salvetur?
La discussione sui genera monachorum lascia vedere in trasparenza una costante della letteratura monastica: la demarcazione fra ortodossia ed eterodossia in ambito ascetico. Più o meno sotterraneamente, questa esigenza accompagna la storia del movimento monastico sin dalle origini. Ne è un primo esempio la storia della comunità monastica urbana guidata da Ieraca vescovo di Leontopoli, pressoché coeva all’esperienza di Antonio, dove si propugna una continenza completa per i suoi membri, al punto da escludere i coniugati dalla partecipazione alla liturgia. L’enkrateia ieracita ha un certo successo, anche fra le donne, alle quali è chiesta non tanto la castità nel matrimonio, ma la verginità. Contro Ieraca si schierano fermamente Atanasio e il suo successore Pietro II. La pretesa di purità integrale all’interno della Christiana societas, perseguita in aggiunta attraverso la convivenza ascetica fra uomini e donne, è una minaccia per l’ordine sociale: Ieraca diventa il lupo che si aggira nella vigna del Signore istillando, nelle menti semplici, pensieri nocivi, e pertanto va avversato. Il modello ascetico è quello di Antonio, mentre la vita nel mondo prevede l’istituto matrimoniale. Non a caso, la Vita di Antoniodiventa il testo di riferimento per la vita monastica, mentre le poche notizie che abbiamo su Ieraca sono quelle contenute nel Panarion di Epifanio95, la raccolta eresiologica per eccellenza96.
Ieraca muore nel 340, ma il problema della radicalità ascetica è lungi dall’essere risolto. Nell’ultimo decennio del IV secolo, i più illustri esponenti della cristianità orientale e occidentale si prodigano per promuovere e definire lo status delle vergini e delle vedove. Fra questi, spiccano due vescovi, Ambrogio e Giovanni Crisostomo. La pratica della velatio e la sua regolamentazione diventano così un argomento d’attualità, dopo che la decretale, probabilmente damasiana, Ad Gallos (383-384) ha definito età e modalità di consacrazione delle vergini, senza dimenticare le pene per le ragazze («nondum velata in Christo») che non mantengono la promessa. Si inserisce in questa scia anche Girolamo, deciso ad abbattere un altro antagonista del monachesimo: Gioviniano. A differenza di Ieraca, questi insiste sull’equiparazione fra vergini, vedove e donne sposate: costoro, grazie al battesimo, godono tutte di fronte a Dio degli stessi meriti97. Girolamo percepisce quest’affermazione come estremamente pericolosa perché l’uguaglianza fra le tre condizioni della donna cristiana sovverte l’ordine sociale, che vede nettamente separata la vita secolare da quella religiosa, e in modo particolare monastica. «La cosa che mi ha destato qualche sospetto di competenza», scrive Girolamo, «è che questi [scil. Gioviniano] invita alle nozze con lo scopo di sottrarre seguaci alla verginità»98. Anche in questo caso, le uniche notizie su Gioviniano sono contenute nel trattato che Girolamo scrive contro di lui e nella raccolta eresiologica di Agostino. Entrambi ricordano che Gioviniano si definisce monaco, ma, ovviamente, in maniera indebita99.
Per comprendere quanto, in quegli anni, la questione sia considerata vitale, basta leggere la lettera di Siricio a Imerio vescovo di Tarragona (11 febbraio 385). Una parte molto estesa e significativa del documento riguarda questioni disciplinari e di etica sessuale, legate soprattutto al monachesimo e al variegato mondo dell’ascesi. Oltre a decretare che monaci e monache che siano venuti meno al proposito di santità («propositum sanctitatis»), unendosi in rapporti illeciti e sacrileghi, siano allontanati dai monasteri100, Imerio insiste sulla consacrazione dei monaci, perché possano essere sottoposti al controllo diretto del vescovo101.
Situazioni simili si ritrovano anche in Siria con gli agapeti (letteralmente ‘i diletti’), uomini e donne che decidono di vivere in maniera radicale il loro cristianesimo, imponendosi un regime di vita ascetico. A partire dalla fine del IV secolo, questa condizione di promiscuità è considerata pericolosa per la comunità ecclesiale, e l’opposizione da parte episcopale cresce. Caso analogo è quello della comunità di vergini nota come «Figli e Figlie del Patto»: gruppo sociale trasversale a cui partecipano in egual misura laici e chierici, per tutto il IV secolo si contraddistingue per la spiccata venatura ascetica. Con l’affermarsi del modello ecclesiastico episcopale anche in Siria, il «Patto» verrà progressivamente clericalizzato, diventando, di fatto, una forma di suddiaconato102.
Prendendo poi il 383 come ideale terminus a quo, non si può non evocare un evento che si verifica a ridosso di quella data: la condanna a morte del vescovo di Avila Priscilliano. Le analogie con l’affaire Gioviniano sono molte: entrambi sono accusati di eresia (manicheismo), di frequentazioni femminili ambigue e improprie, di propagare uno stile di vita anti-ascetico. Anche nel caso di Priscilliano si tratta perlopiù di accuse costruite ad arte, interpretando in maniera tendenziosa alcuni passaggi dei testi attribuiti a lui o alla sua cerchia. Anch’egli però si muove su uno sfondo simile a quello di Gioviniano, dove la reazione violenta della maggioranza dei vescovi ispanici è consentita dall’assenza, come a Roma, di un ordo sociale definito103. Come i Padri del concilio di Saragozza, anche Girolamo avrà certamente la meglio, ma le pratiche ascetiche ‘familiari’, a partire dalla predicazione giovinianea, generano degli eredi, che ne consentono il traghettamento nel secolo successivo, dove si assisterà, ad esempio, al monachesimo familiare di Lérins. Si tratta però di stili di vita effimeri e progressivamente normalizzati man mano che i ruoli all’interno della Christiana societas si cristallizzano104
   
Verso l’ortodossia monastica  
Historiae e miracula
L’atto di nascita del discorso cristiano sul passato è la Storia ecclesiastica di Eusebio: da questo momento in avanti, le vicende politiche fanno da sfondo al succedersi degli eventi che riguardano propriamente la storia della Chiesa. Il racconto eusebiano innesta quest’ultima nella storia plurisecolare dell’Impero romano, con la conseguenza che gli oggetti d’interesse, pur restando i medesimi, sono traslati su un piano totalmente diverso, quello della politeia cristiana. Dopo Eusebio, tutti si inseriscono in questa cornice, ma lo sviluppo imponente e diffuso del monachesimo occupa prontamente la scena ed entra nella storia della Chiesa. Il primo a occuparsene è Rufino nella traduzione e continuazione dell’opera eusebiana, eseguita intorno al 402, poco prima della traduzione, sempre rufininiana, dellaStoria dei monaci in Egitto (404). Di qualche anno successiva è invece la Storia lausiaca di Palladio (419-420). Tutte condividono la conoscenza diretta dei luoghi dove il monachesimo cristiano si sviluppa. Cronologicamente alla fine di questo gruppo di testi si colloca poi Cassiano: con le sue Istituzioni cenobitiche (419-426), subito seguite dai tre libri delle Conferenze dei Padri (425-428).
Le diverse storie delle origini del monachesimo contenute in questi scritti appaiono compiutamente come strategie discorsive finalizzate alla definizione dell’ortodossia monastica, all’interno della cornice più ampia della storia dei Christiana tempora, vale a dire dell’affermazione del regno di Dio attraverso la lotta contro le eresie. Sono da considerarsi, scrive Rufino, padri dei monaci (patres monachorum), grazie alla loro vita e vetustà, Macario, Isidoro, l’altro Macario, Eraclide e Pambo; costoro sono i discepoli di Antonio che abitano il deserto di Nitria, più vicini agli angeli del cielo che agli uomini105. Antonio è naturalmente collocato al vertice dell’ideale piramide che rappresenta la vita monastica; nella parte mediana si trovano invece i suoi diretti discepoli, i cui nomi sono ormai universalmente noti e il cui insegnamento, attraverso la condotta di vita esemplare, si offre alla massa anonima di monaci, e aspiranti tali, che abitano il vasto deserto egiziano. La successione genealogica Antonio-patres-monaci non contiene allusione alcuna a Pacomio né, più in generale, al monachesimo cenobitico, il cui padre fondatore è, per Rufino, Basilio di Cesarea. I monaci poi sono presentati come gli eredi diretti degli apostoli. Traducendo Pacomio, Girolamo chiama i monaci apostolici viri106; Cassiano invece indica nella pratica di comunione dei beni della chiesa gerosolimitana (At 4,32) il luogo e la data di nascita del monachesimo107. Il passaggio dall’età apostolica alle età successive è segnato dall’intiepidirsi della fede ardente degli inizi: di fronte al venir meno di quel fervore, anche in seguito alla morte degli apostoli, i più zelanti abbandonano la città per preservare dal contagium di questa degenerazione la disciplina di schietta tradizione apostolica. La frattura all’interno della Christianasocietas si fa qui evidente, al punto che sembra intravedersi l’incompatibilità non solo con il popolo, ma anche con i pastori che dovrebbero guidarlo e si presentano invece manifestamente incapaci a ridestarlo da questo stato di torpore. La critica dei costumi della Chiesa non risparmia neppure le gerarchie ecclesiastiche, lasciando intendere come anch’esse non siano immuni dal contagium mondano, macchiando così l’ascendenza apostolica della successione episcopale108.
Questo solo esempio è sufficiente a comprendere come le ‘origini’ rappresentino l’ideale terreno di confronto sul quale si fronteggiano i primi storici del movimento monastico, tutti intenti a stabilirne l’‘ordine del discorso’ autentico e la genealogia certa, giacché la potenza dell’interpretazione si dispiega eminentemente nel metodo genealogico, il quale cela sempre una lotta per la supremazia, per l’affermazione di un punto di vista. In questo senso, l’immagine dell’Egitto come culla del monachesimo è frutto di una costruzione culturale, per quanto molto precoce, di cui solo alcuni degli scrittori di cose monastiche si fanno difensori e propagatori. Fra di essi primeggia Girolamo, ma gli scritti di Atanasio, Rufino, Cassiano hanno finalità analoghe109.
Un caso particolare riguarda invece il monachesimo di area siriaca. Se i monaci delle altre zone orientali del Mediterraneo trovano già a partire dall’ultimo quarto del IV secolo i propri storici, qui si deve attendere la metà del V secolo, quando Teodoreto vescovo di Cirro scrive la sua Storia filotea. Composto di trenta notizie su settantacinque personaggi, il testo restituisce una mappa del monachesimo presente nelle regioni intorno ad Antiochia, Cirro, il deserto di Calcide e Apamea. Come precisa nell’altra sua opera, la Storia religiosa, il suo obiettivo non è tanto ricostruire la storia del monachesimo siriaco, quanto piuttosto fornire un affresco dei diversi stili di vita ascetica diffusi110.
Ma la storia del monachesimo antico è scritta anche da coloro che visitano i luoghi dell’ascesi per un breve periodo della propria vita. Il corpus testuale cassianeo non è l’opera di un monaco egiziano, ma di un visitatore di quei luoghi. Sulpicio Severo si affida al racconto dell’amico Postumiano, il parlante dei Dialoghi, non certo monaco, ma vero e proprio ‘turista spirituale’ nel lontano Egitto. La stessa Storia dei monaci in Egitto è attribuita a sette pellegrini anonimi111.
La storia della Chiesa e del popolo di Dio non è però solamente il racconto delle res gestae degli uomini, ma soprattutto il racconto dei mirabilia Dei. Proprio questa espressione (o gesta mirabilia) è impiegata a più riprese da Rufino, il quale considera il miracolo manifestazione della potenza divina e perciò prova della legittima autorità conferita ai vescovi e ai monaci. Il prologo della Storia dei monaci in Egitto può essere letto come un manifesto di buona parte della letteratura ascetica fra IV e V secolo: intento di quanti hanno visitato quei santi uomini è narrare fedelmente i prodigi, dagli interventi sulla natura alle guarigioni, ai miracoli112. Dall’Egitto alla Gallia, i monaci si distinguono per la capacità di compiere miracoli, mettendosi così in concorrenza con i vescovi e ancorando le proprie radici all’età apostolica e dei martiri. La taumaturgia diventa così il segno della condizione di straordinarietà nella quale essi vivono113.
Monaci e chierici
Gli storici del primo monachesimo hanno messo in luce gli aspetti complessi dell’anacoresi, della fuga dalla città nella chora, ma la grande tensione all’interno della Christiana societas è creata dal monachesimo organizzato in comunità e radicato nell’area periurbana o nella città stessa. Cassiano è ben conscio di questa forza dirompente: egli, scrivendo a interlocutori che vivono la loro scelta ascetica nella regione probabilmente più antropizzata dell’Occidente romano, la Provenza, identifica i primi monaci non con i solitari del deserto, ma con i primi cristiani di Alessandria, convertiti dall’evangelista Marco, primo vescovo della città114. È proprio il rapporto fra monaci e vescovi a scandire la storia del movimento sin dai suoi esordi. La tensione fra le due figure è talmente alta che nel 398 riceve le attenzioni degli imperatori Arcadio e Onorio, i quali mettono in guardia chierici e monaci che sottraggono, nascondendoli, i condannati della giustizia civile115. A porre termine a questa prassi perniciosa sono chiamati in causa i vescovi, ai quali è affidata la giurisdizione sul clero, ma anche sui monaci. Questo potere di controllo è definitivamente mutuato nella legislazione ecclesiastica al concilio di Calcedonia del 451116. Nonostante ciò, per tutto il V secolo, nella Gallia si vieta esplicitamente al vescovo di rivendicare alcunché nella gestione della congregatio e ancora la Regola del Maestro (inizio VI secolo) non prevede l’ammissione stabile di preti nella comunità; nel caso poi di soggiorni prolungati, impone che essi lavorino insieme con gli altri117. Sin da subito è testimoniato infatti il tentativo episcopale di assoggettare i monaci, soprattutto per quanto riguarda le ordinazioni forzate. È il caso del monaco Aphu, prelevato a forza dal suo monastero di Ossirinco (vita Aphu 40-42), o di Shenoute, l’archimandrita del Monastero Bianco, che, in un primo momento, si rifiuta di ricevere il vescovo di Shmin perché impegnato nella preghiera. Al secondo richiamo, tuttavia, quando il vescovo minaccia la scomunica per quello che considera un affronto intollerabile, Dio stesso esorta Shenoute ad assecondare il volere del presule perché, in caso di scomunica, non potrà riammetterlo in forza di quanto sancito in Mt 16,19: «ciò che legherai sulla terra rimarrà legato nei cieli e ciò che scioglierai sulla terra rimarrà sciolto nei cieli» (Besa, vita Sinuthii 70-71). Caso opposto è quello di abba Poemen che congeda sbrigativamente un gruppo di monaci giunti a fargli visita dopo che questi avevano cominciato a denigrare il vescovo di Alessandria (Apophth. Patr. De abbate Poemene 45)118.
I casi di Shenoute e Aphu sono un chiaro esempio di quella figura che avrà tanta fortuna proprio a partire dall’Egitto: il monaco-vescovo119. Per quanto il rifiuto dell’ordinazione sia un topos della letteratura ascetica, al punto che moltissimi sono gli stratagemmi messi in atto dai monaci per sottrarsi a quella che è vista come la fonte principale della superbia, la presenza di monaci consacrati nella comunità ovvia al ricorso esterno per le celebrazioni liturgiche, rendendo così la comunità più autonoma (Regula quattuor patrum 4,18-19).
Ma come il vescovo può controllare la vita dei monaci, così i monaci possono diventare i ‘custodi’ degli ecclesiastici indisciplinati. Ne dà testimonianza fra IV e V secolo Bachiario, che racconta di un ecclesiastico macchiatosi di una grave colpa e perciò messo al bando. Questi è invitato alla penitenza, che consiste nella relegazione in un luogo remoto e solitario («secretus et solitarius locus») come può essere la piccola e misera cella di un monastero («cellula monasterii parva vel modica»). La decisione sulla relegazione spetta al vescovo, che determina anche il tempo necessario all’espiazione (Bachiar., repar. laps. 7-11).

La regola
Se i primi esperimenti di vita comunitaria sono quelli dell’Egitto pacomiano, dove i monaci abitano in luoghi separati, passano la giornata lavorando in solitudine e si riuniscono solo per la preghiera, qui vanno individuate anche le tracce dei primi codici di comportamento. Le consuetudini sono certamente gli unici modelli di riferimento per le comunità raccolte attorno a un leader carismatico, ma il vivere iuxta regulam diventa ben presto la cifra della vita monastica comunitaria. «Quelli che disprezzano i precetti dei superiori («praecepta maiorum») e le regole del monastero («regulas monasterii»), che sono stabilite da Dio, e non tengono conto dei consigli degli anziani («seniorum consilia») saranno castigati secondo la regola stabilita» (Pach., reg.praecepta atque iudicia 8). Così traduce Girolamo il corpuslegislativo pacomiano, giunto a noi nell’originale copto in pochi frammenti. Nel quadro di istituzionalizzazione della pratica monastica, accanto alla repressione o normalizzazione delle forme di vita ascetica al di fuori del monastero tradizionale, ha un posto rilevante la stesura delle regole, e punto di partenza è proprio la legislazione pacomiana, modello di riferimento per la fiorente produzione successiva. L’assenza di una terminologia univoca e chiara impone cautela nel considerare questi testi come veri e propri strumenti giuridici per razionalizzare e sanzionare i comportamenti nella comunità, tuttavia la loro rapida diffusione segna una chiara e inarrestabile linea di tendenza120.
Un’altra importante coppia di testi monastici, che si è soliti chiamare regola e che, come quelli pacomiani, avrà notevole fortuna nei secoli successivi, è quella costituita dal Grande Piccolo ascetico. Composti dopo il 365 da Basilio, questi due testi sono strutturati come una raccolta di domande e risposte sulla vita ascetica comunitaria; i 55 quesiti del Piccolo ascetico saranno tradotti da Rufino nel 397 su richiesta di Ursacio, abate del monastero di Pineto, vicino a Roma, che desiderava dotare la sua comunità di una norma di vita omogenea. La prima regola di lingua latina è però l’Ordo monasterii composto nella cerchia agostiniana (forse Alipio) alla fine del IV secolo. La sua origine è una spia interessante della crescente istituzionalizzazione del monachesimo. Di ritorno dall’Italia, Agostino si stabilisce con alcuni amici, fra cui Alipio ed Evodio, nella città natale di Tagaste, adibendo una residenza paterna a monastero. Nel 391 però Agostino si trasferisce a Ippona e la gestione della comunità passa ad Alipio, il quale, desideroso di adeguare lo stile di vita dei suoi membri alle regole orientali, fa visita a Girolamo per prendere visione delle consuetudini ascetiche palestinesi. Di ritorno, prontamente nominato vescovo della città (394), decide di mettere per iscritto quanto appreso. È però in Gallia che assistiamo al fiorire di moltissime regole. Prima testimonianza e capostipite della normativa successiva è la Regola dei Quattro padri comunemente ricondotta all’asceterio di Lérins. Essa si presenta come la trascrizione di quattro discorsi tenuti in quella che sembra una riunione monastica in vista della costituzione di una comunità cenobitica. Dopo un breve preambolo nel quale si dichiara l’intento di redigere una regola di vita («conversatio vel regula vitae») sotto ispirazione dello Spirito Santo, i quattro oratori, a turno, si soffermano su quegli aspetti che, da quel momento, costituiranno il nucleo di ogni successiva regola latina: la supremazia della vita in comune, l’obbedienza incondizionata al superiore, i requisiti e doveri di quest’ultimo, gli adempimenti ai quali sono tenuti gli altri monaci, la scansione del tempo monastico, le forme della preghiera e del lavoro, il rapporto con il clero e i monaci provenienti da altre comunità. I temi non sono affatto nuovi ed evidenti sono le reminiscenze e le allusioni alle traduzioni rufiniane del Piccolo Ascetico e della Storia dei monaci in Egitto, e alle regole di Pacomio tradotte da Girolamo. Non comune è invece la scelta dei protagonisti: Serapione, Macario, Pafnuzio e un altro Macario (il primo potrebbe essere Macario il Vecchio o l’Egiziano, mentre quest’ultimo Macario il Giovane o l’Alessandrino). La predilezione per la terra d’elezione dell’ascetismo è certamente la ragione principale di questa scelta: in questo modo si sancisce l’autorità e l’inviolabilità di norme fatte risalire ai fondatori della vita monastica, sulle quali si fondano quei rapporti gerarchici e quelle consuetudini che contraddistingueranno il monachesimo latino, ma che, ad esempio, poco hanno in comune con i principi comunitari proposti da Basilio e da una certa tradizione monastica orientale.
Scorrendo cronologicamente le molte regole monastiche prebenedettine giunte sino a noi, si nota ad esempio un progressivo affievolimento dell’interesse per i requisiti richiesti agli aspiranti monaci: mentre i primi legislatori prospettano procedure di ammissione e attestano che l’ingresso nella comunità non è libero e dettato dalla sola volontà personale di abbandonare il mondo, le regole successive accordano alla questione scarsa o nessuna attenzione. Ha invece il sopravvento la serie di norme e precetti che regolano la vita interna alla comunità e i rapporti fra i diversi protagonisti. È il monachesimo provenzale a riproporre la questione dell’accesso al monastero e del suo regolamento (Regola dei quattro Padri). Ampio spazio ai requisiti richiesti agli aspiranti monaci si registra invece nelle regole di Pacomio: il postulante deve essere di condizione libera e in grado di rinunciare alla famiglia e al patrimonio; egli deve attendere per qualche giorno davanti alla porta del monastero, quindi, lasciate le vesti mondane, è ammesso alle riunioni e ai pasti in comune (Pach., reg.praecepta 49). Di diverso avviso è Basilio, che prevede una professione pubblica, nella quale si faccia solennemente voto di castità dinanzi alle autorità ecclesiastiche (Bas., reg. fus. 15,4), e un periodo di noviziato nel corso del quale verrà esaminata la vita passata del postulante. Questo periodo sarà breve se il candidato ha un passato immacolato, lungo e costellato di faticosi esercizi ascetici se dovranno essere cancellate gravi colpe passate (Ivi, 10,2)121.
[NdR: per le note bibliografiche segnalate nel testo, riferirsi alla "fonte" linkata ad inizio testo, presso il nome dell'Autore]

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