lunedì 10 dicembre 2018

Paideia - 01, Che cos’è “pagàno”?

Il dibattito odierno sul “rinascimento politeista” europeo, avviatosi in epoca romantica (sec. XIX) e rilanciato nella prima metà del ‘900 da personaggi quali Murray, Leland, Crowley, Gardner, Gimbutas e Castaneda, pare “arrancare” sul modo difforme di concepire la continuità e la discontinuità delle pratiche cosiddette “pagane”, rispetto alla lunga “parentesi storica” costituita da quasi 2000 anni di Cristianesimo. Per affrontare coerentemente questo tema, in modo da fornire un contributo leale alla discussione, ritengo sia doveroso riflettere, innanzitutto, su cosa contraddistingua principalmente il “paganesimo” dalle religioni cosiddette “abramitiche” (circa le quali sarebbe, in realtà, da distinguere nettamente fra Ebraismo mosaico antico e Giudaismo rabbinico post-cristiano, ma non è questa la sede).


Religioni monoteiste come quelle giudaica, cristiana ed islamica, partono dal presupposto di un presunto incontro fra determinate persone e una determinata divinità: una divinità che si sarebbe in tutti i casi presentata come origine della realtà, come sostanzialmente esterna alla realtà da essa creata e di conseguenza, come sostanzialmente inconoscibile attraverso il rapporto dell’uomo con la realtà quotidiana. Secondo le tre religioni abramitiche summenzionate, l’unico modo per conoscere l’unica divinità sarebbe quello di attendere la rivelazione della stessa, secondo uno schema agostiniano universalmente noto come “terza navigazione” e ripreso di sana pianta dalle preconizzazioni di Platone nel Fedone, del sec. IV a.e.v. (“ante era volgare”):

«Infatti, trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina (ἢ λόγου θέιου τινός)» [PLATONE (a cura di Giovanni Reale), Fedone, Rusconi, Milano 1997, 85c-d, pag. 185].

Il passo di Platone appena riportato, mostra esattamente la differenza sostanziale che passa fra le spiritualità di tipo “pagano” e le spiritualità di tipo “rivelato”: la relazione fra idea ed esperienza. A dispetto di tutte le differenze formali che passavano fra i vari pantheon dei vari popoli, tutti i “pagani” erano concordi nell’ammettere che fosse l’esperienza a generare le idee sulla consistenza della realtà e non viceversa: mano a mano che l’esperienza informava i popoli, i popoli rivedevano, mutavano, rielaboravano e ricontestualizzavano le proprie opinioni sul reale; per contro una religione rivelata, “pendendo dalle labbra” della divinità che racconta di sé, si trova nella situazione diametralmente opposta.


Il seguace di una religione rivelata non può in alcun modo accettare che la realtà dica, riguardo alla divinità, qualcosa di diverso da ciò che –si presume, la divinità stessa abbia detto di sé: se per i “pagani” è la “forma” stessa degli dèi, ad evolvere mano a mano ch’essi fanno esperienza della realtà, per il credente è la rivelazione divina, a dettare le regole riguardo quali esperienze vadano accettate e quali altre vadano rifiutate. Per i “pagani”, le esperienze “disegnano” le idee sulla realtà; per gli abramitici, è l’idea rivelata a “filtrare” le esperienze. Da queste prime riflessioni possiamo trarre, come preliminare conclusione, la distinzione fra gli abramitici dogmatici (priorità del preconcetto “rivelato”, sull’esperienza) ed i “pagani” empirici (priorità dell’esperienza –anche filosofico/speculativa, sull’idea).

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