lunedì 20 febbraio 2017

Verità, libertà, integralismo ed asservimento

In un precedente articolo s’era affrontato il legame implicito tra monoteismo e totalitarismo, all’interno di una riflessione liberale che vincola i valori all’intenzionalità umana: determinato un obiettivo, è possibile attingere alla propria esperienza ed alla propria abilità previsionale, per determinare quali atteggiamenti (e quindi quali valori) appaiano come i più adeguati a perseguirlo. L’occasione d’un’audio-conferenza tenuta da Cattolici integralisti, mi spinge ad approfondire alcune questioni filosofiche circa il rapporto fra il riconoscimento di una realtà oggettiva e la suddetta relatività dei valori etici. Innanzitutto è necessario stabilire l’affidabilità del principio di non contraddizione, non soltanto in quanto regola della retorica, ma come formalizzazione dialettica della realtà: per intenderci, pare necessario dimostrare che il principio di non contraddizione non è semplicemente una regola funzionale al dibattito, ma è anzi la realtà stessa che si esprime in una forma mentale. Qualunque cosa sia il pensare, nel momento in cui penso, faccio esperienza del pensare: riuscendo a distinguere l’atto del pensare (qualunque cosa sia), ho il primo termine di paragone per valutare ciò che sia pensare e ciò che non lo sia, il che m’impedisce di fatto il ritenere che pensare e non pensare siano in fondo la stessa cosa. Dico “di fatto” e non solo dialetticamente, poiché non si dimostra la validità del principio di non contraddizione tautologicamente, attraverso lo stesso principio: il pensare lo si percepisce; siccome lo si percepisce, lo si distingue; siccome lo si distingue, lo si oppone a ciò che non gli è conforme e ciò che non gli è conforme non è il pensare. In seconda istanza ed appurata l’affidabilità del principio di non contraddizione, se (come di fatto è) non esiste alternativa all’Essere (poiché tutto ciò che c’è è per definizione nell’Essere) e quindi una cosa (come il pensare) non può contemporaneamente “essere” e “non essere”, la Verità esiste e coincide con la realtà oggettiva di ciò che È e di ciò che c’è.


Dati i due precedenti presupposti, cioè l’affidabilità del principio di non contraddizione e l’esistenza della Verità, diventa una necessità logica il riconoscere che la coscienza (la stessa che si è scoperta pensante) non possa che percepire il vero; se la coscienza fosse fallibile, potrebbe avere fallito anche nello scoprirsi a pensare, ma questo è impossibile ed è impossibile non per motivi retorici, ma esperienziali: la coscienza esiste proprio in quanto si scopre a pensare (qualunque cosa sia il pensare); pensando, distingue il pensare; distinguendo il pensare, distingue l’altro dal pensare; distinguendo il pensare dall’altro che il pensare, genera il principio di non contraddizione che ci costringe a ritenere ch’essa possa percepire soltanto il vero. Per il semplice fatto di esistere, la coscienza si dimostra ontologicamente infallibile: questa è la prima sconfessione all’interpretazione che l’integralismo cattolico dà alla definizione tomista di retta coscienza. Va intesa come “retta” non tanto la coscienza che non sbaglia, quanto la coscienza che si mantiene aperta alla acquisizione di nuovi dati: se infatti è inevitabilmente vero che la coscienza non possa sbagliare nel percepire la realtà, d’altro canto è vero anche che il tempo è parte integrante della realtà percepita (e quindi della realtà esperienziale tout court) e che, perciò, percepire necessariamente il vero non coincide col percepire necessariamente tutto il vero.


Discutere la relazione tra eternità dell’Essere e temporalità dell’esperienza uscirebbe dai propositi di questo articolo: mi limito qui a far notare che la coscienza opera necessariamente delle distinzioni, anche di tipo temporale, nel percepire la realtà, in quanto essa nasce proprio comparando se stessa che pensa, col resto.
Se la Verità esiste e la coscienza non può che percepirla, non è però detto che la coscienza sia sempre retta, ovvero sempre disposta ad acquisire dall’esterno quegli aspetti della verità che ancora ignora: è questo il caso di un atteggiamento autoreferenziale, circa le ragioni del quale, anche, sarebbe necessario aprire dei discorsi a parte e qui improponibili, di tipo fisiologico, psicologico, culturale ed educativo. La tesi dell’integralismo cattolico sostiene che la verità abbia il primato sulla libertà, poiché, mentre la verità sarebbe in grado di reggersi autenticamente a prescindere dalla sua accettazione da parte dei senzienti, la libertà “senza verità” sarebbe una libertà falsa, in quanto ci si direbbe d’avere compiuto una vera scelta soltanto se questa fosse fatta alla luce di una precisa nozione della sua consistenza, del suo contesto e dei suoi effetti.  Innanzitutto la Verità, essendo la formalizzazione dell’Essere, ha la stessa struttura relazionale di quest’Ultimo: coscienza che percepisce ed oggetto percepito sono i due poli che si sostengono a vicenda in Essere (esiste solo ciò ch’è percepibile, ma percepisce solo chi ha qualcosa da percepire) quindi è vero sì che la Verità si auto-sostiene, ma lo fa non a prescindere dai senzienti, bensì comprendendoli nella sua stessa struttura.


Seguendo il filo del ragionamento fino a qui condotto, si può quindi notare come la suddetta posizione integralista confonda, della realtà, il piano ontologico con quello esperienziale: se è necessario che sul piano ontologico (dell’unità dell’Essere) la Verità ci sia e sia una, sul piano dell’esperienza la libertà è un dato di fatto ed è una condizione non soggetta alla contrapposizione “vero” vs “falso”, poiché tutto ciò che la coscienza percepisce è per forza reale (ciò non esclude che un sogno sia un sogno e che un’allucinazione sia un’allucinazione, poiché il sogno è vero in quanto sogno e l’allucinazione è vera in quanto allucinazione: chi confonde il sogno e l’allucinazione con altro, manca di un dettaglio della verità –che quelle sono esperienze soltanto mentali-, ma continua a percepire soltanto il vero). Rispetto alla libertà di pensiero, pertanto, pare possibile distinguere tra quella più consapevole d’una coscienza “aperta” (retta) che dispone di più dati (la Tradizione cattolica la chiama Libertas Major) e quella meno consapevole e meno efficace (la Tradizione la chiama Libertas minor) d’una coscienza “chiusa” (auto-referenziale), ma non tra libertà “vera” e libertà “falsa”, poiché la libertà in quanto intenzionalità è una condizione “a priori” del senziente.
Parlando di soggetti adulti (il tema educativo porterebbe troppo lontano) e non potendo (per praticità) che ragionare sulla libertà di una retta coscienza (sono infiniti i motivi per cui qualcuno potrebbe agire come se non conoscesse cose che invece conosce), ovvero sulla libertà d’una persona in buona fede (e cioè che sceglie in conformità alla migliore comprensione della realtà che di volta in volta detiene), mi pare si possa desumere ch’essa non possa che crescere quante meno coercizioni trovi alla propria possibilità d’indagine: per contro, mi pare che qualunque costrizione aggiunta alla libertà di pensiero, entro gli angusti limiti di un’ideologia precostituita, non possa che giocare a favore della chiusura, dell’autoreferenzialità e dell’ottenebramento della coscienza (oltre che della libertà), anche nel caso in cui ciò avvenga in un contesto collettivo come quello di un partito e/o di una civiltà e/o di una religione.


L’uomo di retta coscienza impara scegliendo, sceglie imparando e scegliendo ed imparando forgia se stesso e il suo mondo “giostrandosi” tra le necessità del reale e l’intento personale, evocando con il proprio percorso i nuovi valori cui altri potranno, volendo, aderire. L’unica Verità non contraddice la legittimità di valori diversi, perché la prima inerisce la forma oggettiva del mondo (necessità), mentre gli altri ineriscono il desiderio (direzione nell’individuazione di sé) dei singoli soggetti (intenzione). Per quanto concerne la libertà religiosa, anche senza entrare nel merito della ragionevolezza del credo cattolico, occorre a mio avviso riconoscere che tutti i monoteismi rivelati, nella migliore delle ipotesi, costringono la ricerca della coscienza entro l’ambito del già definito: anche se il Cattolicesimo, ad esempio, riconosce la legittimità di una ricomprensione progressiva della dottrina, tale ricomprensione non può eccedere i limiti di quanto oramai fissato, dovendosi invece limitare a quei marginali aspetti ancora non del tutto definiti; nel caso della sua interpretazione integralista, la quale ritiene che la verità sia stata già tutta quanta rivelata, si viene ad eliminare anche il minimo spazio di manovra. Ora, gli integralisti cattolici dicono (e dati i loro assunti, non possono fare diversamente) che la coercizione ch’essi auspicano riguarda esclusivamente gli apostati, ovvero coloro che, avendo già accolto la pienezza della verità, la ripudino: ciò apre un ulteriore campo d’argomentazione, che andrà affrontato altrove, cioè quello del rapporto fra exoterismo ed esoterismo in campo religioso; per ora, mi limito ad osservare che, a prescindere da ogni soggettivo giudizio di tipo etico a riguardo (a qualcuno, le seguenti situazioni potrebbero legittimamente piacere), 1) l’integralismo cattolico di cui qui si è discusso mostra il volto più autentico dei monoteismi rivelati in generale; 2) ogni monoteismo rivelato (cioè ogni religione in cui l’unico termine di verità sia assunto dalle affermazioni a priori di qualcosa/qualcuno e non dal percorso acquisitivo della coscienza) è “nemico naturale” della libertà, della libera indagine e quindi delle potenzialità di auto-identificazione del soggetto, perché, anche qualora riconoscesse il diritto di ciascuno alla ricerca, lo farebbe pur sempre in quanto concessione di un dio padrone.

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