lunedì 2 novembre 2015

Dall'Illuminato all'Uomo Nuovo

Quanti [avendo ancora una personalità infantile], affermando di amarci, pretendono da noi presenza, disponibilità, fedeltà, dedizione, sacrificio che in realtà sono sofferenza per noi e piacere per loro?

(G.C. GIACOBBE, Come diventare un Buddha in cinque settimane,
Ponte alle Grazie, Milano 2005, p. 108, nota 4)


Un’osservazione attenta della realtà, insegna Siddharta, rende immediatamente consapevoli di due cose: nulla resta uguale a se stesso e tutto è interdipendente da tutto il resto. I suoi proseliti dunque, approfondendo l’esperienza dell’impermanenza, svilupparono il principio del non attaccamento come strada maestra verso l’estinzione della sofferenza psichica. In questo, dimenticarono spesso due punti determinanti del discorso: dimenticando il principio d’interdipendenza delle cose, resero l’uomo eccessivamente responsabile del suo proprio soffrire; dimenticando d’aver assunto l’impermanenza e l’interdipendenza delle cose come verità assolute, non affrontarono il quesito circa ciò che oggettivamente resta uguale a se stesso. Dire che l’uomo è il solo responsabile della propria sofferenza psichica, infatti, significa dimenticare l’interdipendenza; dire che impermanenza ed interdipendeza sono “nobili verità”, si dimentica che qualcosa di permanente lo si riconosce. Il Buddha storico non fece lo stesso errore dei suoi discepoli circa l’interdipendenza, ma risolse nella compassione il bisogno umano di sostegno reciproco, dimenticando il problema di fondare la verità.

L’insegnamento del rabbino Jeshua Ben N’zareth, successivo a quello di Siddharta di ben 500 anni, appare a questo punto avere due radici: il culto legalistico (piano della verità) e sacrificale (piano dell’interdipendenza) dell’ebraismo e la consapevolezza esistenziale dell’insegnamento buddhista (e questo è un fatto che supera ogni dimostrabilità storica circa la possibilità o meno di influenze dirette del pensiero buddhista: se anche queste fossero incontestabilmente dimostrate come non avvenute, di fatto quel tipo di consapevolezza è riscontrabile nell’insegnamento evangelico).

Tutto l’insegnamento evangelico, dalla “charta magna” delle Beatitudini ai continui richiami al non attaccamento (“Il figlio dell’uomo non ha un sasso su cui posare il capo”), associa la proiezione dell’Io (il luogo in cui si ripone il proprio “tesoro”) sul moltiplicarsi di oggetti (beni) o preconcetti esterni (discriminazioni culturali), alla sofferenza psichica e alla nevrosi, ossia a quella “durezza del cuore” che è la “coazione a ripetere” tipica di chi si aggrappa a false certezze non riuscendo a cogliere la transitorietà delle cose: tipica, cioè, delle personalità impaurite (capricciose) infantili. La soluzione di Jeshua è precisamente la stessa proposta da Siddharta ed è pratica e non concettuale: praticare la carità è il modo in cui si allena lo spirito al non attaccamento ed il modo in cui si coopera all’appagamento reciproco dei bisogni reali di ciascuno. Praticare la carità pone progressivamente nella prospettiva di “conoscere la verità” ed “essere liberi” (Gv VIII, 31-32).

C’è dunque una verità, che questa volta nel Messhia, diversamente che nel Buddha, per quanto riguarda l’interdipendenza fra tutte le cose non si ferma al contesto umano (risolto con l’insegnare il sostenersi reciprocamente), poiché Jeshua è anche un ebreo e l’altra sua radice, il culto sacrificale a YHWH, gli fornisce nuove prospettive per risolvere i problemi lasciati in sospeso nel lontano Oriente. C’è un dio che interviene nella vita degli uomini e questo dio funziona così: il suo modo di rendere valore alle differenze non è quello di punire i cattivi e premiare i buoni (“Dio fa piovere e splendere il sole sia sui buoni che sui malvagi”), ma quello di essere per ciascun uomo esattamente ciò che quell’uomo si aspetta da Lui (Maestro, di chi è colpa se la torre di Siloe è franata in testa a quei tizi? Di nessuno, ma colgo l'occasione per farvi capire come funziona il Padre: se infatti non cambierete atteggiamento, morirete tutti allo stesso modo). Jeshua, insegnando a riconoscere in dio un Padre sollecito, pone gli uomini in una prospettiva nuova senza il bisogno che questi escano da loro stessi con grandi esercizi di meditazione e di respiro; fonda emotivamente la dottrina del non attaccamento (non m’attacco perché è un altro a sapere cosa sia il mio bene e a procurarmelo) e non intellettualmente (panta rei); risolve il problema dell’interdipendenza umana (all'epoca regolata dalla Legge) riconfigurandola fino a farla coincidere con l’interdipendenza cosmica dei fenomeni col Pensiero Intelligente che fonda la realtà con le Sue proprie leggi, che costituiscono anche la “verità vera” e permanente della vita. Il dio di Jeshua è fedele, ovvero: le leggi che regolano l’’impermanenza e l’interdipendenza sono affidabilmente eterne perché fondate su di un’Intelligenza non soggetta al tempo e che le regola. Il capolavoro di quest’uomo straordinario giunge con la sua scelta volontaria della Croce: quale modo migliore per “saldare” definitivamente la “via” sacrificale ebraica con quella buddhista del “non attaccamento”, per produrre ex novo, come tertium, la trasformazione della compassione orientale e della carità ebraica nella Comunione cristiana?

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