Siamo giunti ad un’ulteriore
ricapitolazione del lavoro fino a qui intrapreso con questa serie d’articoli:
IV, primo sommario (presupposti
di un’interpretazione mitica del Cristianesimo);
V, kerygma (1/3 – esigenza di
un’interpretazione mitica del Peccato Originale);
V, kerygma (2a/3 – interpretazione
simbolica del serpente nel giardino dell’Eden);
V, kerygma (2b/3 – rilettura
esoterica dell’episodio della cacciata dal paradiso);
V, kerygma (3/3 – inevitabilità
per i cristiani d’una lettura mitica della redenzione);
Ho provato a mostrare quanto il
Cristianesimo sia debitore, a livello simbolico, di tutta la tradizione mitica
dell’Asia Minore: eppure, sono sostanzialmente d’accordo col semiologo
cattolico (don) Hugo Rahner, quand’egli afferma che il Cristianesimo s’appropria dei
simboli precedenti per farne qualcosa di sostanzialmente altro; sono d’accordo
anche con l’opinione della Chiesa Cattolica quando essa, nel documento
conciliare Nostra Ӕtate,
«riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano
già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei
profeti» (§ 4). Hugo Rahner, nel
suo testo fondamentale Miti greci nell’Interpretazione cristiana (EDB, Bologna 2011, p. 10), afferma che «il cristiano ellenico, nel rappresentarsi e
nell’interpretare il suo nuovo mistero con lucida libertà di spirito, [pone] mano ai tesori del passato, per deporli sul
suo altare» ed a mio avviso è proprio così: il Cristianesimo assume simboli
che non gli appartengono ed arbitrariamente li strumentalizza affinché
veicolino un messaggio nuovo, di matrice senza alcun dubbio orientale e senza
alcun dubbio ebraica, cioè il monoteismo “rivelato” e la specifica forma di
sottomissione all’autorità ch’esso comporta. La mitologia dispregiativamente
chiamata pagana è preposta, in ogni
cultura, a descrivere la relazione tra i singoli soggetti ed il tutto della
realtà: in questo, la mitologia cristiana si mostra del tutto in continuità d’intenti
con il passato. In Grecia, il mito dell’epoca omerica narra dell’emergere
dell’ego (principio eroico) che tende a divinizzarsi (Achille, Ulisse) a fronte
del “muro invalicabile” della Necessità,
il quale circonda i mortali, ma anche gli Déi; in epoca classica, cioè in età
democratica, il mito dell’eroe lascia il passo al principio di cittadinanza
rappresentato dallo sviluppo della filosofia, per il quale, all’emergere
dell’ego, si sostituisce il valore della ricerca dell’universale, ovvero di
quei termini condivisibili, con la dialettica, nell’agorà politica; in epoca ellenistica, cioè nell’età imperiale prima
macedone e poi romana, il valore di riferimento diventa la divinizzazione per
elitarismo, grazie ad una mitologia misterica che sostituisce la vecchia imitazione
dell’esempio offerto dagli eroi, con un
nuovo valore simbolico dato ora agli
stessi. Nel mondo romano, il rapporto magico della “prima ora” fra uomini e Déi
si trasforma, in età repubblicana, in una mitologia ch’esprime una relazione giuridica fra Déi e mortali, fondata sul
do ut des: il popolo di Roma consulta
gli aruspici non più, come nella
Grecia pre-classica, per cogliere il “disegno” della Necessità e riconoscer “il proprio posto”, ma per capire come “ingraziarsi
il cielo” volendo, a prescindere da esso, portar avanti i propri progetti (la differenza fra Roma
e Atene è tutt’oggi riscontrabile nelle differenze di “credo” fra cattolici,
per i quali lo Spirito procede anche
dal Figlio –e quindi anche dal piano terreno- ed ortodossi, per i quali lo
Spirito procede solo dal Padre –e
quindi solo dal piano celeste-); in epoca imperiale, il culto pubblico romano
si ellenizza, promuovendo da un lato la divinizzazione delle cariche pubbliche
(all'orientale) e dall’altra, valorizzando l’elezione iniziatica
della plebe.
Come si pone il Cristianesimo davanti all’uso del proprio mito, in relazione a quanto detto sul mondo greco e romano? La novità fondamentale del Cristianesimo è la pretesa di storicità della propria narrazione, ma su questo occorre una specifica. I concetti di archetipo, di mito e di simbolo sono risalenti all’epoca illuminista; nella percezione antica, il mito si confonde con la poesia (sono i poeti, ad inventare le leggende) e la poesia si confonde con un’ispirazione soprannaturale che ha come proprio modello l’esperienza sciamanica: in questo senso, qualunque tradizione religiosa si ritiene in un certo qual modo ispirata (spesso addirittura in senso concreto, come nelle civiltà egizia, sumera, centro-africana, indù, maya, polinesiana ed australiana, le cui tradizioni custodiscono i nomi dei personaggi storici dai quali il popolo avrebbe appreso in passato le leggi, l’agricoltura e le arti); la differenza sta nel fatto che l’evento della rivelazione si colloca per i pagani nell’esperienza soggettiva del narratore, ovvero in un tempo mitico ed idealizzato, in un contesto cioè che non costringe mai un popolo a sottomettersi ad essa come davanti ad un’evidenza prettamente storica. Per i pagani, la sottomissione soggettiva alla religione pubblica sussiste giusto nella misura in cui determinati popoli non abbiano ancora visto emergere, dalla loro psiche collettiva, quelle “costellazioni” egoiche, tali da permetter al singolo d’individuarsi rispetto alla coscienza del gruppo: «Come l'individuo non è assolutamente un essere unico e separato dagli altri, ma è anche un essere sociale, così la psiche umana non è un fenomeno chiuso in sé e meramente individuale, ma è anche un fenomeno collettivo. […] Il primitivo si identifica ancora, in maggiore o minor misura, con la psiche collettiva e per tal ragione è equamente partecipe delle virtù e dei vizi di tutti senza alcuna attribuzione personale e senza contraddizione interiore. La contraddizione insorge soltanto quando si inizia lo sviluppo della mente personale e quando la ragione scopre l'inconciliabilità dei contrari. Conseguenza di questa scoperta è il conflitto della rimozione. Noi vogliamo essere buoni e quindi vogliamo sopprimere il male e con questo finisce il paradiso della psiche collettiva» (C.G. JUNG, «La struttura dell'inconscio» in: La psicologia dell'inconscio, Newton Compton editori, 1997, pp. 110; 112). Paolo afferma l’attualità della risurrezione di Gesù rispetto all’epoca corrente; il Cristo paolino non è la forma poetica che prende un’esperienza mistica e non è il ricordo dell’iniziatore ancestrale di una specifica civiltà, come Abramo: è un tizio che gli sbarra fisicamente la strada e lo prende a sberle, costringendolo (parola chiave del suo annuncio!) a non vedere (At IX, 1-9) altri che Lui.
A prescindere dalla storicità o meno del ritorno dai morti di Cristo
in un corpo glorioso, la dottrina
cristiana si pone in se stessa come necessariamente
coercitiva, anzitutto in quanto pretendente d’essere un’evidenza, un fatto: a questo riguardo, trovo
importantissimo sottolineare che la distinzione già affrontata tra il Gesù
storico ed il Cristo della fede cattolica, se da un lato risulta indispensabile
per farsi un’idea sull’attendibilità della credenza paolina, dall’altro è assolutamente
ininfluente al fine di valutare l’impatto della dottrina cristiana sul corpo
sociale. Dal momento che la Chiesa, nel suo operare di millenni, ha tenuto
conto soltanto del Cristo del NT e non del Gesù presunto rabbino galileo
itinerante con velleità millenariste e rivoluzionarie, ucciso dai romani per
sedizione, va da sé che per comprendere il rapporto fra Cristianesimo e simbolo
ci si debba fondare esclusivamente sulle fonti riconosciute legittime dal culto
cristiano stesso, ovvero i soli documenti neotestamentari: se il Cristo dei
vangeli ha detto ed ha fatto questo e quello, è su quelle sole basi che il
messaggio cristiano va interpretato e non su ciò che il “vero” Gesù potrebbe
invece essere stato. La storicizzazione dell’evento messianico è l’eredità più
autenticamente ebraica della dottrina paolina: essa è inconcepibile fuori dal quadro
concettuale dell’alleanza mosaica, altro episodio dalle tinte mitiche, ma
collocato in un luogo ed un tempo non verificabili e ciò nonostante considerati
“precisi” dalla tradizione. Come ho mostrato circa Gn III, anche riferendovi i
passi contigui del NT riguardanti le tentazioni di Cristo e la lotta fra
spirito e carne della letteratura giovannea, il dio d’Israele è un padrone ed
il NT dipinge il Cristo come figlio del padrone e padrone a sua volta (cfr. Mc
XIII, 26; Mt XIII, 41-42; Lc XVII, 7-10): in questo senso, anche il contenuto esplicito
del mito cristiano educa di per sé alla sudditanza, anzitutto della Chiesa al
dio padrone, la quale si riversa poi in una pretesa sudditanza dei figli ai
genitori, degli alunni agli educatori, del popolo ai governanti “per volontà
divina” (è il liberalismo, oggi, ad avere abbattuto quest’alleanza fra papato e
monarchie), dei laici ai chierici, dei chierici ai vescovi, dei vescovi al Papa
e della società civile alla dottrina cattolica (basti pensare alle continue
ingerenze politiche della CEI nel panorama civile italiano). Riassumendo, l’educazione
alla sottomissione s’insinua nella società, attraverso il mito cristiano, per due
vie: quella legalista, imperniata sul dualismo “bene vs male” (eredità
ebraica e mazdea, per cui solo chi aderisce al volere di Dio si salva. Il fatto
che nel Cristianesimo l'adesione al bene contro il male diventi una responsabilità personale fatta su criteri pseudo-empatici
–cfr. Mc III, 32-35; Gv XV, 14.17-, non altera la sostanziale continuità del
principio dualista e legalista coi due culti precedenti) e sulla pretesa di
possesso di un’unica verità, in forza dell’unica rivelazione dell’unico dio
padrone; quella della pretesa storicità dell’evento Cristo, che costringerebbe
ad inchinarsi davanti ai fatti. In tutto il lavoro fino a qui prodotto, ho mostrato la
discutibilità della storicità della redenzione e quindi la plausibilissima infondatezza della
pretesa di detenzione di una verità, assoluta e rivelata, da parte della Chiesa:
nei prossimi articoli continuerò ad analizzare i miti cristiani, al fine di
riconoscervi sia gli elementi di continuità col paganesimo (emersione “eroica” della
volontà del singolo e percorso di rinnovata accoglienza dell’universale in lui),
che gli elementi di continuità con l’ebraismo (servilismo, storicizzazione del
mito e relativa sottomissione al dio padrone).
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