domenica 23 dicembre 2018

Paideia - 03, In che modo “pagàno”?

Si è detto che la spiritualità “pagana” si distingue da quella neo-abramitica (post 70 e.v.) per la diversa considerazione del rapporto fra esperienze ed idee. Mentre ogni cultura “pagana” lascia che ogni nuova esperienza trasformi il suo pantheon, le culture neo-abramitiche operano esattamente al contrario e cioè riducendo l’esperienza entro i ristretti preconcetti imposti dalle presunte rivelazioni divine: una pre-comprensione che, come desumibile dai loro “assunti”, sia gli attuali “pagani” di tipo “ricostruzionista” (approccio filologico), che i sedicenti “neo-pagani” (approccio eclettico), dimostrano di non cogliere. Se da un lato i “ricostruzionisti” perseguono una visione “cristallizzata” delle proprie pratiche, dimenticando che ogni pantheon si è costantemente evoluto e che pretendere di ricostruirne uno in forma “fissa” è un atto sostanzialmente dogmatico, altrettanto dogmatici risultano i “neo-pagani”, nella misura in cui ritengono che la “parentesi cristiana” abbia costituito in Europa uno “spartiacque” storico, anziché un’esperienza tra le altre, oltre la quale procedere.


Ora mi pare necessario proseguire indicando quali ulteriori caratteristiche, oggi come ieri, contraddistinguano la “paganità”. I “pagani” di ogni latitudine ed epoca partono dall’esperienza per identificare iconograficamente alcune qualità ed alcuni contesti tipici del vivere umano: la gelosia, il desiderio, l’ordine sociale, il mare, il conflitto, la ricerca di senso, la mediazione fra necessità diverse, la fame, la ricchezza, la nascita, la morte, ecc., diventano nel mondo “pagano” archetipi con i quali tutti e ciascuno hanno a che fare. L’uomo pagano fa esperienza di due circostanze: 1) le qualità ed i contesti del vivere umano precedono il singolo individuo, lo condizionano inesorabilmente, sopravvivono alla sua estinzione fisica e sono quindi “Déi immortali”; 2) gli Déi, ovvero le energie “qualitative” ed “ambientali” con cui tutti e ciascuno hanno a che fare, evolvono; mutano forma; si accorpano (da due divinità ad una sola con duplice caratteristica); si separano (una divinità pluri-archetipica si scinde in due divinità che si spartiscono le qualità originarie della loro progenitrice), in un “gioco” esperienziale nel quale le energie vengono diversamente rappresentate, al seguito del mutare della forma con cui gli uomini ne facciano esperienza nel loro specifico contesto socio-politico-ambientale.


Ogni pantheon “fa la spia” dello specifico stile di vita del popolo e/o del singolo che lo adotta: ad esempio il mare, il desiderio di ricchezza e le carestie sono esperienze condivisibili da tutti i popoli mediterranei, ma un popolo di predoni navali ringrazierà la “divinità dei mari e della conquista”, mentre un popolo costiero predato temerà una “divinità dei mari e della carestia”. A seconda del proprio stile di vita, un popolo si raffigura in modo diverso le medesime energie ed i medesimi eterni e condivisi archetipi; a seconda delle sue specifiche immagini archetipiche (ovvero le declinazioni particolari degli archetipi universali), un popolo si relaziona in modo specifico alle proprie divinità: ora con timore, ora contrattualmente, ora con presunzione. Se in un’epoca di bisogno quale ad esempio il medioevo, il popolo europeo implorava in ginocchio il dio-padrone insegnato nel Cristianesimo, in un’epoca di “euforia scientifica” come quella positivista, l’atteggiamento supponente ed ateo “l’ha fatta da padrona” in gran parte del continente europeo. Timore per la miseria, regime monarchico e sudditanza psico-emotiva al dio cristiano sono andati necessariamente di pari passo nell’Ancien Regìme in Europa, così come oggi, sempre in Europa, appare evidente l’inevitabile avanzamento parallelo fra ottimismo tecnologico, regime democratico e soggettivazione dell’esperienza spirituale-religiosa.


Trovo che le precedenti considerazioni possano risultare illuminanti per trarre nuove indicazioni circa la consistenza di una contemporanea pratica “pagana”: questa, partendo dall’esperienza, oggi come ieri non può che procedere dalla comprensione di ciò che si è nel contesto in cui ci si trovi. Se in epoche in cui “fare gruppo” era indispensabile per sopravvivere, l’edificazione di un pantheon risultava inevitabilmente “sbilanciata” sul piano dello stile di vita collettivo, nell’Occidente tecnologizzato attuale mi pare anzitutto ragionevole che si aderisca ad un pantheon in cui si avvertono meglio riflesse le personali esperienze delle energie del reale: solo in un secondo momento, persone che abbiano adottato stili di vita e di valori sufficientemente simili potranno associarsi per condividere in tutto od in parte il loro culto, ovvero la loro personale relazione con le “forze della realtà”: forze della realtà che del resto s'impongono ed appaiono eterne all’uomo "d'oggi", così come all’uomo "di ieri". In base alla sua esperienza, l’uomo di oggi può assumere una specifica modalità relazionale con la realtà, piuttosto che un’altra: in questa scelta consiste la sua libertà, mentre nell’esistere delle forze consiste la sua appartenenza oggettiva al reale. La spiritualità pagana dell’uomo contemporaneo, così com’è stata a livello comunitario per i pagani dell’epoca pre-cristiana, consiste sostanzialmente, a mio avviso, nella “scelta evolutiva” circa la modalità relazionale “ingaggiata” con quella realtà esterna che s’impone come “oggettiva”.

martedì 11 dicembre 2018

Paideia - 02, Quale “paganesimo”?

La spiritualità “pagana”, la cui evoluzione nell’epoca ellenista pure divenne un presupposto fondamentale della veniente cultura neo-abramitica (Cristianesimo, Giudaismo, Islam), si distingueva da quest’ultima per la diversa considerazione del rapporto fra esperienze ed idee: mentre ogni cultura “pagana” lasciava che ogni nuova esperienza trasformasse il suo pantheon, le culture neo-abramitiche operano esattamente al contrario e cioè riducendo l’esperienza entro i ristretti preconcetti imposti dalle presunte rivelazioni divine. Studiando le divinità politeiste, facilmente ci s’imbatte in mitologie contrastanti, riguardanti la medesima divinità; facilmente ci s’imbatte nell’accorpamento di una divinità straniera all’interno di un pantheon; facilmente ci s’imbatte nell’accorpamento di più divinità –e relativi attributi, in un’unica divinità o viceversa; facilmente ci s’imbatte nell’evoluzione di una divinità a seguito di contaminazioni, sconvolgimenti politico-economici o variazioni dello stile di vita del popolo che ad essa rendeva culto.


Non esiste un solo pantheon antico le cui ultime e più “recenti” tracce siano concordi con le prime e più antiche. Secoli e secoli di tradizione di un popolo, ovunque portarono questo ad evolvere, in base al proprio stile di vita e per l’appunto, alle proprie esperienze, non solo la propria concezione delle divinità, ma spesso, il modo stesso di concepire il rapporto fra sé ed il mondo: alla luce di queste assunzioni, proverò ora a dire “la mia” circa l’attuale diatriba fra le definizioni “pagano” e “neo-pagano”, riferite alle pratiche spirituali occidentali odierne e d’origine non abramitica. Generalmente, oggi si auto-definiscono “pagani” i cosiddetti “ricostruzionisti”, ovvero quei gruppi i quali, attingendo quanto più possibile da fonti storico-archeologiche, intendono ripristinare i culti antichi in modo filologicamente esatto; generalmente, si auto-definiscono “neo-pagani” coloro i quali, preso atto dell’impossibilità di riprodurre con esattezza ed oggi i culti antichi, sia a causa delle lacune d’informazioni, che dell’inevitabile trasformazione subìta dal contesto spazio-temporale (anche e soprattutto a causa della “parentesi” cristiana, perlomeno in Europa), si adoperano in diversa maniera a riprendere alcuni elementi tradizionali, ricombinandoli però in modo sincretico ed eclettico, al fine di coniugare il “ritorno a casa” nella tradizione e la vita contemporanea.


A mio avviso, alla luce di quanto detto circa i rapporti fra esperienze ed idee nella mentalità pagana, entrambi gli “schieramenti” commettono errori facilmente riscontrabili. I “ricostruzionisti”, a mio avviso, troppo spesso idealizzano la "forma", a dispetto della "sostanza empirica" (ovvero la priorità "pagana" all'esperienza) di cui già si è detto: anche volendo riprodurre pedissequamente un culto antico di cui si avesse precisa descrizione, dovrebbero anzitutto domandarsi “quale epoca?” ricostruire. Il pericolo principale, secondo me, è quello di confondere la spiritualità di un culto, con l'aspetto principalmente folkloristico della "rievocazione storica" di una specifica e circoscritta Era dello stesso: infatti e ad onor del vero, anche ipotizzando di possedere tutte le nozioni necessarie, un conto sarebbe “fare rivivere” il pantheon greco dell’epoca omerica; altra cosa sarebbe riproporre il culto greco dell’epoca di Solone; altra faccenda ancora sarebbe il tornar a celebrare la ritualità pubblica greca dell’epoca ellenistica. I “ricostruzionisti” insomma, a mio avviso, non solo peccano d’ingenuità se ritengono che un culto “pagano” fosse qualcosa di statico; peccano anche di dogmatismo, nella misura in cui concepiscono un pantheon con la stessa idea d’immutabilità ch’è tipica invece dei culti neo-abramitici sedicenti rivelati.


Meglio dei “ricostruzionisti”, gli eclettici comprendono il carattere illusorio della pretesa di riportare in vita, oggi, culti legati a spazi e tempi molto distanti dal vivere contemporaneo: ciò non di meno, definendosi “neo-pagani”, a mio avviso anche loro cadono nello stesso fraintendimento dei primi e ponendo una distinzione fra il loro “neo-paganesimo” e quello pre-cristiano, anch’essi dimostrano di non avere affatto capito il carattere esperienziale e dinamico degli antichi culti. Se gli eclettici si definiscono “neo..”, evidentemente è perché anch’essi, come i “ricostruzionisti”, coltivano un’idea sostanzialmente “cristiana” (intrinsecamente dogmatica, in quanto “cristallizzata” in un preconcetto) del “paganesimo” antico, che per loro è morto e basta, essendo inteso come forma fissa estinta dalla “frattura cristiana”. Su questo “fronte”, per concludere questo intervento direi che il “paganesimo”, in quanto culto dinamico, possa essere praticato oggi senza alcun bisogno di considerarsi “nuovo”: quello che veramente lo snaturerebbe, a mio avviso irrecuperabilmente, non è l’interruzione storica subìta, ma un’eventuale mentalità subdolamente - e fatalmente - ancora troppo neo-abramitica (e cioè dogmatica, inconsciamente sprezzante del divenire delle esperienze), dei sedicenti “pagani/neo-pagani” contemporanei.

lunedì 10 dicembre 2018

Paideia - 01, Che cos’è “pagàno”?

Il dibattito odierno sul “rinascimento politeista” europeo, avviatosi in epoca romantica (sec. XIX) e rilanciato nella prima metà del ‘900 da personaggi quali Murray, Leland, Crowley, Gardner, Gimbutas e Castaneda, pare “arrancare” sul modo difforme di concepire la continuità e la discontinuità delle pratiche cosiddette “pagane”, rispetto alla lunga “parentesi storica” costituita da quasi 2000 anni di Cristianesimo. Per affrontare coerentemente questo tema, in modo da fornire un contributo leale alla discussione, ritengo sia doveroso riflettere, innanzitutto, su cosa contraddistingua principalmente il “paganesimo” dalle religioni cosiddette “abramitiche” (circa le quali sarebbe, in realtà, da distinguere nettamente fra Ebraismo mosaico antico e Giudaismo rabbinico post-cristiano, ma non è questa la sede).


Religioni monoteiste come quelle giudaica, cristiana ed islamica, partono dal presupposto di un presunto incontro fra determinate persone e una determinata divinità: una divinità che si sarebbe in tutti i casi presentata come origine della realtà, come sostanzialmente esterna alla realtà da essa creata e di conseguenza, come sostanzialmente inconoscibile attraverso il rapporto dell’uomo con la realtà quotidiana. Secondo le tre religioni abramitiche summenzionate, l’unico modo per conoscere l’unica divinità sarebbe quello di attendere la rivelazione della stessa, secondo uno schema agostiniano universalmente noto come “terza navigazione” e ripreso di sana pianta dalle preconizzazioni di Platone nel Fedone, del sec. IV a.e.v. (“ante era volgare”):

«Infatti, trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare una di queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo da se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani, quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera, affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina (ἢ λόγου θέιου τινός)» [PLATONE (a cura di Giovanni Reale), Fedone, Rusconi, Milano 1997, 85c-d, pag. 185].

Il passo di Platone appena riportato, mostra esattamente la differenza sostanziale che passa fra le spiritualità di tipo “pagano” e le spiritualità di tipo “rivelato”: la relazione fra idea ed esperienza. A dispetto di tutte le differenze formali che passavano fra i vari pantheon dei vari popoli, tutti i “pagani” erano concordi nell’ammettere che fosse l’esperienza a generare le idee sulla consistenza della realtà e non viceversa: mano a mano che l’esperienza informava i popoli, i popoli rivedevano, mutavano, rielaboravano e ricontestualizzavano le proprie opinioni sul reale; per contro una religione rivelata, “pendendo dalle labbra” della divinità che racconta di sé, si trova nella situazione diametralmente opposta.


Il seguace di una religione rivelata non può in alcun modo accettare che la realtà dica, riguardo alla divinità, qualcosa di diverso da ciò che –si presume, la divinità stessa abbia detto di sé: se per i “pagani” è la “forma” stessa degli dèi, ad evolvere mano a mano ch’essi fanno esperienza della realtà, per il credente è la rivelazione divina, a dettare le regole riguardo quali esperienze vadano accettate e quali altre vadano rifiutate. Per i “pagani”, le esperienze “disegnano” le idee sulla realtà; per gli abramitici, è l’idea rivelata a “filtrare” le esperienze. Da queste prime riflessioni possiamo trarre, come preliminare conclusione, la distinzione fra gli abramitici dogmatici (priorità del preconcetto “rivelato”, sull’esperienza) ed i “pagani” empirici (priorità dell’esperienza –anche filosofico/speculativa, sull’idea).