Al termine della seconda parte di
questo articolo, ho illustrato la mia idea circa la questione sinottica: il primo vangelo ad essersi formato
sarebbe Mc, scritto su richiesta del popolo romano dal “figlio” di Pietro (che
a Roma non avrebbe mai messo piede) nel periodo in cui,
assieme a Luca e a tali Aristarco e Dema, si trovava al seguito di Paolo nella
sua cattività italica. Il testo di Mc
sarebbe rimasto ai romani, presso i quali avrebbe subìto alcune modifiche anche
per un adeguamento ad uso liturgico (quando si comincerà a festeggiare la
Pasqua annuale, Mc sarà letto integralmente durante una messa della durata di
circa 2h, proprio a causa della sua brevità); sarebbe presumibilmente tornato con
il suo autore in Palestina dove, incontrando raccolte locali dei detti di Gesù
(fonte Q), avrebbe costituito la base
di Mt; sarebbe rimasto ragionevolmente anche nelle mani di Luca il quale,
rientrato in medioriente forse a ridosso della morte di Paolo (collocata
attorno al 67 d.C.) o qualche tempo dopo Marco, Aristarco e Dema, sarebbe
anch’esso giunto a contatto con Q e/o
con Mt, producendo un’ulteriore sintesi, comprensiva di alcuni elementi
originali. In quest’ultima parte del terzo articolo della serie su
Cristianesimo e simbolo, inaugurata con la trattazione dei miti precedenti da
cui la dottrina paolina avrebbe tratto ispirazione, affronto proprio il tema
dell’evoluzione del pensiero cristiano all’interno del NT, grazie alla
comparazione dei primi cinque fra i testi originari presi non nell’ordine del
canone, ma in quello (a seguire) della loro stesura in ordine temporale:
I Tessalonicesi, 51-53 c.ca d.C.; I e II Corinzi, 53-57 c.ca;
Galati, 55-57 c.ca; Romani, 57 c.ca; Filippesi, 60 c.ca; Filemone e Colossesi e Efesini, 61-63 c.ca; Marco
e Q, 63 c.ca; I Timoteo, 63-66 d.C.; I
Pietro, 66-67 c.ca; DISTRUZIONE DEL TEMPIO; Matteo, +70; Luca, +70 (mi riferisco alla prima stesura, quella che
presumibilmente parte dal versetto III, 1); Apocalisse,
+90; SCOMUNICA DI JAMNIA, 95 d.C.; Giovanni, +95.
Della Prima lettera di Paolo ai Tessalonicesi ho già parlato: è il più antico scritto pervenutoci del NT e
contiene una teologia solamente abbozzata. Paolo assicura sulla legittimità del
proprio mandato (e ciò è segno inequivocabile del fatto ch’esso fosse oggetto
di discussione); denuncia le difficoltà ricevute da chi, nel giudaismo
ortodosso (dal quale, all’epoca, i cristiani di Giacomo ritenevano ancora di
dipendere) non approva la predicazione ai gentili
(i non ebrei); in IV, 13 si esprime chiaramente la fede nella risurrezione di
Gesù, che però non viene in alcun modo definita; in IV, 17 si esprime chiaramente
la fede nell’imminente ritorno di Gesù; in V, 1-11 si inseriscono speculazioni
riguardo l’incertezza della data del ritorno (secondo alcuni, il passo sarebbe
un’interpolazione successiva di chiaro segno lucano).
La Prima lettera di Paolo ai Corinzi contiene la prima descrizione d’una comunità cristiana, nonché la
prova che il cristianesimo primitivo si lasciò influenzare dal contesto pagano
circostante (Paolo si lamenta di ciò) nelle sue pratiche cultuali; promuove una
spiritualizzazione della vita religiosa ed un appello all’unità (segno preciso
che, già 20 anni dopo la morte di Gesù, ogni comunità s’era fatta un’idea
diversa del maestro). In Seconda Corinzi,
Paolo declina ogni responsabilità sulla propria pochezza a Dio, definendo per
la prima volta il paradigma, poi ripreso da Agostino, della potenza di Dio che resta
efficace nonostante l’inadeguatezza del mezzo per cui giunge: da questo assunto
Paolo, in forza del mandato soprannaturale ricevuto direttamente dal risorto,
si pone in un atteggiamento di superiorità rispetto a cosiddetti “super
apostoli”, i quali sono probabilmente non altri che Pietro, Giacomo e i dodici,
ovvero i testimoni cristiani della prima ora.
La Lettera di Paolo ai Galati
è un testo fondamentale, per almeno un paio di motivi tra cui il primo è che,
in III, 28 recita: «Non c'è più giudeo né
greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù». Il secondo e forse superiore motivo dell’importanza
di Galati è relativo al primo e consiste nelle asserzioni di III, 26-27 (A) e
di V, 6 (B): A, «Tutti voi infatti siete
figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati
in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo»; B, «non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che
si rende operosa per mezzo della carità». Il tema introdotto dalla lettera
è insomma quello della salvezza per fede, ma Paolo continua sin dall’inizio del
testo a riaffermare anche la subordinazione del suo ruolo all’iniziativa divina
(I, 11-13), nonché a proporsi come modello del credente che si svuota d’ogni
volontà per diventare puro strumento del Signore (II, 20); prosegue, in questo testo, anche il processo di spiritualizzazione della fede, grazie all’associazione
di ogni buona opera allo Spirito (e di ogni cattiva opera alla carne, in chiaro
spirito dualista; cfr. V, 22-23).
La Lettera ai Romani è forse
il testo più importante (certamente il più lungo) tra quelli redatti da Paolo e
forse dell’intero NT: in essa è chiaramente formulata la tesi del Peccato
Originale, il quale viene assunta da un lato per giustificare la salvezza per
fede (la quale, a sua volta, era stata necessaria a giustificare la non
necessità per i pagani convertiti, di sottostare alla legge mosaica) e dall’altra
per giustificare il fatto che i credenti (ovvero i giustificati/liberati da
Cristo per fede) continuassero a peccare (ovvero a restare schiavi delle
proprie pulsioni, diremmo oggi).
Possiamo, dopo questa lettera, comprendere forse la linea che può
avere guidato Paolo nella formulazione delle sue teorie mistiche: se Cristo non
è venuto a ripristinare il regno d’Israele come credevamo (visto che s’è fatto
ammazzare), cosa sarebbe venuto a fare? É venuto ad instaurare il Regno di Dio.
Se Cristo non torna ad instaurare il Regno di Dio (visto che la fine del mondo parrebbe
tardare), cosa sarebbe venuto a fare? É venuto a liberare l’Uomo dalla Legge. Se
Cristo è venuto a liberare l’Uomo dalla Legge, quali sono gli strumenti di
questa liberazione? La Sua immolazione e la fede in Lui. Come si riconosce la
fede? Si riconosce perché è «operosa nella carità» (cfr. Gal V, 6). Se chi ha
fede in Gesù Risorto (cfr. I Cor XV, 12-17) è anche chi vive amorevolmente, perché
anche i membri della comunità cristiana mantengono atteggiamenti carnali? Perché
esiste il Peccato Originale. Ergo,
Gesù è venuto a liberare dal Peccato Originale, il quale era anche la causa del
bisogno di sottostare alla Legge. Vorrei fare notare, a questo punto, alcune
cosette: 1) la logica “quasi” strumentale con cui la dottrina paolina pare
procedere nel susseguirsi dei testi, dal più antico al meno antico; 2) la
necessità -per Paolo, ovviamente- che Cristo sia risorto (se Cristo è morto prima che Paolo
lo conoscesse, a che titolo Paolo ne parla? Ne parla perché è risorto e gli è
apparso); 3) il “corto circuito” tautologico in cui entra la teologia
neotestamentaria a causa del carattere circostanziale ed “apparentemente”
strumentale con cui se ne evolve la dottrina. Il cristiano è redento dal
Peccato Originale che spinge a peccare, ma
continua a peccare; il cristiano è redento dalla Legge in virtù della fede, ma la sua fede continua a trovare
sostanza nelle sue opere; la sottomissione ebraica alla Legge sarebbe dovuta
alla caduta dei progenitori con il loro Peccato Originale (ed è per questo che
i cristiani, ormai redenti, non vi dovrebbero più soggiacere), ma sempre secondo Paolo è la Legge a
determinare il peccato e non viceversa (se fosse il peccato a determinare la
sudditanza alla Legge, anche i redenti, che comunque continuano a compiere
anche opere carnali, dovrebbero continuar a sottostarvi): «Il pungiglione della morte è il peccato e la forza del peccato è la
legge» (I Cor XV, 56).
Giunti dove ci troviamo, non resta che “mettere insieme i puntini” per
capire il senso generale di tutta quanta la mole d’informazioni portata alla
luce in questa serie d’articoli, fino ad ora: a tale scopo, illustrerò
brevemente anche il Vangelo di Tommaso,
così come ho fatto per i precedenti documenti paolini. VT ci consegna 114 detti
di Gesù, dei quali circa un terzo non riportati nel NT e di cui altri, tra
quelli già noti grazie ai canonici, presentati in una forma più arcaica e in un
contesto teologico diverso. Esistono diverse tesi sulla datazione di VT: a
causa dei suoi arcaismi, dell’indipendenza dai sinottici e dai riferimenti ad
esso che troviamo contenuti in Gv (unico testo narrante l’episodio dell’incredulità
di Tommaso nella risurrezione e per un insieme d’altro motivi, scritto
chiaramente in polemica con una comunità riferibile a VT), propendo per una
redazione che si colloca non solo precedentemente a Gv stesso, ma anche a Mt e
Lc. Il Gesù di Tommaso pare “poco ebreo” e “molto gnostico” a diversi esegeti
(portati quindi a posticiparne la redazione addirittura di un secolo), ma
questo fatto mi pare del tutto giustificabile alla luce di quanto da me già
esposto all’articolo II, 2/3 di questa serie. Alla luce di VT, qualora ne si
accetti la datazione più antica (-70 d.C.), diventa necessario evidenziare una
frattura, in seno alle prime comunità cristiane, tra gruppi che pongono maggior
importanza all’insegnamento del Cristo
(VT, Q e/od altre eventuali raccolte
di detti la cui esistenza, essendo universalmente assunta dagli studiosi, costringe comunque a riconoscere la medesima ripartizione fra le prime comunità) ed altri che, sulla spinta paolina, volgono verso una divinizzazione della persona di Gesù
(NT). Rispetto alle origini essene e rabbiniche (Hillel) del pensiero gesuano, vediamo
come appaiano maggiormente nella corrente illustrata da VT, testo dal “sapore”
ellenista e nel quale si sottolineano il tema vegetariano, il dualismo
luce/tenebre, il valore iniziatico della
missione salvifica del Cristo (cioè: la salvezza da lui operata consiste nell’avere
tracciato una strada sapienziale di risalita al cielo, un po’ sul modello
buddista) ed il senso prettamente esistenziale e sapienziale sia del Regno di Dio
(che starebbe nel cuore di ognuno), che della sconfitta che il Signore opera
sulla morte (detto n°1): «colui che trova
il senso segreto di queste parole, non assaggerà la morte». Rispetto alle
influenze ellenistiche ed orientali da me già riferite in II, 1/3, vediamo com’esse
influenzino maggiormente Paolo, nell’assunzione della tesi del Peccato
Originale (tesi zoroastriana e non ebraica), nonché i sinottici, nell’elaborazione
narrativa della vita di Gesù.
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