Del serpente ho già scritto innumerevoli volte in innumerevoli
articoli. Nel brano in questione non si parla mai di demoni o di diavoli, ma si
dice esplicitamente che il serpente sia un animale, «la più astuta di tutte le bestie selvatiche» (Gn III, 1). Il serpente è un elemento
tra i più classici della simbologia universale: le sue qualità consistono nel
somigliare ad un fallo che penetra la terra; nel cambiar pelle; nell’esser un
predatore implacabile e silenzioso, capace di muoversi nei più diversi ambienti
(acqua, terra, alberi). Per restare nel Pentateuco,
subito dopo il libro di Genesi, il
serpente compare in Esodo tra le mani
di Mosè che, nella sfida contro i maghi del faraone, riesce a trasformare il
proprio bastone in questo animale (Es VII, 8-20); compare in Numeri XXI nella scena delle polemiche
del popolo, in fuga dall’Egitto, contro Dio, il quale fa sorgere allora dal
deserto una miriade di serpenti nocivi il cui veleno sarò vinto soltanto da
un’effige di rame del serpente, issata su un palo. Universalmente, il serpente
indica la padronanza dei quattro elementi (fuoco,
grazie al suo associarsi al desiderio; acqua,
poiché nuota; terra, poiché striscia;
aria, poiché si arrampica); indica la
salita e la discesa fra i tre livelli della coscienza (acqua, istinti; terra, azione; alberi, pensiero);
indica la scienza, la fecondità ed il possesso in tutte le sue accezioni,
grazie al suo gesto di penetrare; indica la morte e la guarigione, grazie al suo
veleno (gr. φάρμακον, pharmakon, “pianta curativa”
o “veleno”. Da notare che pharmakos
era il nome di un rito di purificazione consistente nell’espulsione del male
tramite l’ausilio di un capro espiatorio:
questa prassi sarà attestata nell’ebraismo fintanto che sussisterà il Tempio di
Gerusalemme e l’uso dei sacrifici animali); indica l’acume, per le abilità
predatorie ed il rinnovamento per il cambio di pelle.
Negli episodi biblici di Genesi
III, Esodo VII e Numeri XXI il serpente assume le sue qualità simboliche con connotati
specifici: cominciamo dagli ultimi due. Il bastone di Mosè, nei racconti biblici
dell’esodo, è l’oggetto per il quale Dio manifesta la Sua Potenza in mezzo al
popolo, attraverso il Suo Messia: il bastone sale verticalmente dalla terra al
cielo e si conficca dall’alto verso il basso; serve da sostegno e da arma,
quindi è un elemento che esprime potere e comando. Il bastone di Mosè si
trasforma in serpente, ma lo stesso prodigio riesce ai sacerdoti egizi,
detentori dei misteri religiosi del faraone: mi pare chiaro che, nel contesto,
il serpente illustri un conflitto fra due tipi di conoscenza, quella del Dio
che si rivela direttamente e quella iniziatica ed occulta dei maghi. In Numeri XXI il popolo è stato appena
sconfitto dai Caldei nel suo tentativo d’aprirsi un varco in Palestina: sorge
la mormorazione e il dio padrone “rassicura” i suoi facendo sorgere dal suolo
una miriade di serpenti, pronti a sterminali col veleno. Nel contesto della
mormorazione, la moltitudine di
serpenti rappresenta l’aspetto frammentario delle esperienze: il popolo di Dio
assolutizza il determinato episodio della sconfitta e ne fa il paradigma unico
da usare nel suo giudizio sull’operato di Dio: la soluzione starà nel fissare
lo sguardo sull’Unico serpente di
rame issato da Mosè su un palo, icona la quale rappresenta invece il dovere, per Israele, di mantenere uno
sguardo unitario, “globale”, sulla storia della propria relazione con YHWH. Da
quanto detto possiamo vedere che, nel Pentateuco,
il serpente ha sempre una valenza sapienziale,
la quale però, a maggior conferma dell’impianto “monolatrico” (“quanti che
siano gli déi, noi uno solo ne
adoriamo”) progressivamente assunto dai testi, scade in conflitto (“che
conoscenza?” Esodo) e confusione (tra
circostanze e sostanza: Numeri) ogni
qual volta il numero di serpi ecceda l’unità.
Tornando ora ad Adamo ed Eva, vediamo che soltanto con la donna il
serpente parla. Il serpente parla la
stessa lingua della donna, dettaglio ancora più curioso se si pensa al fatto
che Dio, il comando (cfr. Gn II, 15-17) di non toccare l’albero oggetto di
contesa, lo dà al solo uomo, prima addirittura che la donna venisse all’essere.
Dio s’impone sulla coppia attraverso il comando
dato ad Adamo, mentre il serpente s’impone sulla coppia discutendo con Eva: siamo certamente
davanti ad una rappresentazione del duplice aspetto dell’umanità, qui
illustrato nei due membri della coppia
originale. Adamo, il maschio, è il custode di un ordine ideologico di cose (YHWH) che s’identifica con la legge,
mentre Eva, la femmina, è ricettacolo d’un divenire
vitale (generazione, scoperta, discussione) che s’identifica con la frattura
dell’ordine costituito, attraverso l’irruzione dell’istinto di sopravvivenza
(serpente). Nietzsche assocerebbe forse Adamo ad Apollo ed Eva a Dioniso;
Jung assocerebbe forse Adamo all’Ego
ed Eva all’Ombra; l’esegesi ebraica
del brano, dal canto suo, sostiene da sempre la suddetta interpretazione, ricordando
che, essendosi la prima coppia subito dopo coperta con delle foglie di fico,
proprio un fico sarebbe potuto essere l’Albero
della Conoscenza del Bene e del Male. Il frutto del fico ha, nella
simbologia di pressoché tutti i popoli (il Buddha stesso riceve l’Illuminazione
sotto un fico) delle curiose caratteristiche di tipo ermafrodita: chiuso,
somiglia ad uno scroto contenente testicoli; inciso, lascia fuoriuscire un
latte simile allo sperma; aperto, è da sempre e ovunque associato alla vagina,
sia per il suo colore rosato, che per il gusto dolce e la consistenza morbida e
cedevole. Il tema della dualità, introdotto dalle polarità rappresentate dai
due termini della coppia dei progenitori; dal conflitto Dio vs serpente ed ordine costituito vs vitalismo; dalla duplicità degli
alberi e dall’ambiguità del fico, sarà approfondito con la lettura simbolica degli
altri elementi costitutivi della narrazione.
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