Nei primi articoli di questa serie, quelli in cui ho stabilito i
parametri dell’intero lavoro, ho mostrato in che senso io ritenga non solo
legittima, ma oltretutto necessaria a detta della stessa Chiesa, la lettura simbolica
del NT. Nell’introduzione alla serie, ho citato il principio filosofico del rasoio di Ockam: esso non stabilisce
semplicemente che l’ipotesi più semplice sia sempre da preferire, ma pone il
ricercatore nella prospettiva nominalista
(l’Essere è una cosa diversa in ciascun ente) di vagliare costantemente ogni
singola risposta, senza affidarsi ad un quadro generale che contrapporrebbe un
qualunque preconcetto all’analisi dei fatti;
ho citato Bultmann, che, sulla scorta di Ockam, “separa” il Gesù storico dal
Cristo della fede affermando, con criteri filologici, il carattere prettamente
teologico delle Scritture; ho citato la semiologia di Rahner, che riconosce
l’uso innovativo che il Cristianesimo fa di immagini ad esso precedenti; ho
citato la Dei Filius del Concilio
Vaticano (CV) I, che riconosce l’esigenza che fede e ragione, provenendo dallo
stesso Creatore, non si contraddicano; ho citato la Dei Verbum del CV II, che riconosce l’esigenza di distinguere i generi
letterari all’interno delle Scritture, in sintesi adottando implicitamente le
idee di Bultmann e Rahner circa il NT, ma non (incresciosamente) compiendo (per
ora, almeno) il medesimo passo anche riguardo gli elementi della propria
dottrina che, proprio dal NT, pretenderebbero di ricevere gran parte della loro
legittimazione. Negli articoli ricapitolati nel primo sommario, ho mostrato
l’enorme serie di elementi mitici preesistenti che richiamano fortemente la
dottrina paolina ed ho mostrato anche come proprio quest’ultima si evolva nel
susseguirsi dei documenti neotestamentari.
Negli articoli fra il primo ed il secondo sommario, ho proseguito il mio
discorso anzitutto disarticolando i presupposti stessi dell’evento messianico
cristiano, cioè l’esistenza di un peccato originale da redimere;
successivamente a ciò, ho esaminato tutti quegli elementi, storici, antropologici,
filologici e logici, che suggeriscono l’estrema improbabilità d’una
interpretazione letterale dei fatti che avrebbero dato origine al Cristianesimo:
sia in termini soteriologici (cioè riguardanti un presunto bisogno di salvezza
del genere umano), che storici (la presunta resurrezione di Gesù). In questo
settimo articolo, approfittando di un’obiezione dell’antropologo Maurice
Bouisson, “affinerò” i criteri con i quali distinguere un brano che legittimi
un’interpretazione di sé di tipo semiologico, da uno che non lo giustifichi: in
II, 1/3 già affermai che una lettura simbolica delle Scritture e della dottrina
«appare lecita ogni qual volta ci si trovi innanzi a narrazioni dall’apparenza
fantastica o facilmente conducibili a soggetti mitologici precedenti (e che
siano questi ultimi, per inciso, riferibili in modo documentabile alle aree ed
alle epoche in cui le narrazioni e le dottrine analizzate si ritenga siano state
composte)». Vorrei ora precisare le nozioni da me già fornite, alla luce della osservazione
riportata nell’illustrazione seguente:
Anzitutto, già nel secondo sommario, scrissi che «i concetti di archetipo, di mito e di simbolo sono risalenti all’epoca
illuminista; nella percezione antica, il mito si confonde con la poesia (sono i
poeti, ad inventare le leggende) e la poesia si confonde con un’ispirazione
soprannaturale che ha come proprio modello l’esperienza sciamanica»: questo
significa che l’intendimento contemporaneo del simbolo, successivo alla lezione
di Voltaire nel suo Dizionario Filosofico e
soprattutto di Freud, è probabilmente anacronistico rispetto alle intenzioni di
coloro che, in epoca pre-cristiana, si trovarono ad elaborare le narrazioni fondanti
dei propri popoli. Inesatta pare oggi la dottrina illuminista, per la quale
mito e metafora, sostanzialmente, corrispondono; inesatta pare la l’evoluzione
freudiana della dottrina illuminista, che assimila il simbolo al segno. Per
Freud, che ha come modello il positivismo della tassonomia ottocentesca e
l’applicazione d’esso nella sua interpretazione dei sogni, il simbolo non è che l’alterazione della realtà dovuta al
“filtro” di un preconcetto funzionale a qualcosa, un po’ come se il suo autore
mostrasse un cosa, per suggerirne stricto
sensu un’altra («ti mostro il campanile per non scadere nella “volgarità”
di mostrarti un pene eretto»). Jung reintroduce in Occidente, anzitutto nella
sua polemica verso Freud in Simboli della trasformazione e poi in tutta la sua produzione successiva, il tema di
simbolo come “oggetto d’intuizione”, ovvero come restituzione, nelle forme di
una specifica cultura (sul piano storico collettivo) o coscienza (su quello storico
esistenziale), di esperienze ancestrali (sul piano della specie) od inconsce
(sul piano dell’individuo). Nel medesimo atto terapeutico d’interpretare i
sogni, Jung propone ora la rinuncia al voler dirimere i significati “a colpi
di” associazioni dirette, del tipo “specifica immagine = specifico senso”: il
simbolo viene liberato dalla restrittiva valenza di segno per tornare quell’oggetto polisemico,
ambivalente, ch’è oggi ben illustrato da Galimberti nel suo La terra senza il male. Cosa significa
dunque, tutto il precedente discorso, riguardo all’argomento qui tematizzato?
Prima di stabilire criteri più attendibili che legittimino la lettura simbolica
di un brano “sacro” o di una dottrina, è necessario tenere a mente una cosa,
ossia che i simboli lavorano per
associazione e non per scomposizione,
come invece le parole del
discorso razionale: mentre queste ultime, infatti, suddividono le questioni in
elementi semplici posti poi in una catena di cause ed effetti che vada
dall’ipotesi alla tesi (processo ch’è ciò che sto operando anch’io, con questa
serie d’articoli!), il simbolo assume in sé diversi piani della realtà e
diversi aspetti di ciascun piano. Il simbolo è contemporaneamente rappresentativo (vale come segno), riassuntivo (capace di accomunare più
significati) ed evocativo (capace di rifrangersi
in più significati distinti); rappresenta e riassume, sul piano dei sensi,
elementi esistenziali (piano dell’Essere), elementi operativi (piano del fare)
ed elementi sapienziali (piano dell’avere); rappresenta e sviluppa da se stesso,
sul piano della coscienza, significati concettuali, psico-emotivi e storici. Il
mito non è che un simbolo posto in forma narrativa: aldilà del significato
letterale che il racconto mitico ha di per sé (piano dell’avere), esso propone
un modello di comportamento (piano del fare) ed una nozione di realtà (piano
dell’Essere); all’interno delle vicende mitiche possono presentarsi numerosi
simboli abitualmente rappresentati in forma grafica ed in questo caso la
comprensione dei modelli etico e cosmico da esso trasmessi, non può che passare
da una pre-conoscenza dei suddetti simboli.
Ora, come già detto, davanti ad episodi con elementi fantastici, a me
pare altamente più probabile l’ipotesi di una consistenza mitica dei racconti,
piuttosto che l’idea di trovarmi innanzi a resoconti storici d’eventi di
portata straordinaria: se non bastasse tutta la riflessione fatta dal ‘500 in
avanti sulla valutazione dei generi narrativi in campo filologico, a sostenere
la mia preferenza, ricorderei il semplice dato di buon senso per il quale, onde
reputare plausibilmente come vere delle affermazioni straordinarie, occorrano
dimostrazioni altrettanto straordinarie (se mi si chiedesse di credere alla
presenza di un passerotto su un tetto, potrei ragionevolmente farlo anche senza alcuna prova, data l’estrema
usualità di quell’evento: lo stesso discorso non varrebbe nel caso mi si
raccontasse della presenza, sullo stesso tetto, di un fortuna-drago). In presenza di elementi fantastici, diventa altamente
più probabile non solo la consistenza mitica del racconto, ma anche, per ciò
stesso, l’ipotesi che numerosi elementi del suddetto racconto indichino simbolicamente
dei significati ulteriori a quello del senso letterale della narrazione: ciò
nonostante, essendo che i simboli sono di per sé spesso rappresentati da
oggetti (spade, scudi, brocche, mantelli, ecc.), eventi (lavarsi, passare una
porta, salire, ecc.) ed esseri viventi (animali, piante, ecc.) tipici della
realtà quotidiana, resta facile il trarsi in inganno, finendo col fare dire ad
un testo tutto quanto si voglia ch’esso dica. Come si riconosce un simbolo e
come si evita di confondere la biografia di Napoleone con un mito solare?
Stiliamo una lista di requisiti che rendono progressivamente più probabile la
circostanza di essere davanti ad un simbolo:
- Presenza di numerosi elementi fantastici (superpoteri dei protagonisti come il volare, l’essere invulnerabili, il detenere armi magiche, ecc.; presenza di animali inesistenti come chimere, unicorni, ecc.) che indicano la natura chiaramente mitica di un racconto;
- Presenza di numerosi elementi preesistenti in altre narrazioni chiaramente mitiche ed appartenenti a contesti storicamente venuti a contatto con quello di formazione del racconto in analisi (come nel caso di un eroe che, in diverse culture mediorientali, viene smembrato, ricomposto e risuscitato);
- Concordanza documentata fra un presunto elemento simbolico ed i dati letterari e/od archeologici riguardanti il medesimo periodo e la medesima area di composizione del racconto in esame (ad esempio, la presenza del serpente associata con valenza simbolica a diverse divinità del contesto);
- Coerenza fra l’uso di un presunto elemento simbolico del racconto in questione e l’uso simbolico che quello stesso elemento abbia già dimostrato altrove, comunemente, di avere (ad esempio, il serpente associato all’astuzia, all’intelligenza, al rinnovamento, all’inganno, alla fecondità);
- Coerenza fra il significato simbolico riconosciuto ad un elemento e le caratteristiche fisiche oggettive dell’elemento significante stesso (ad esempio, il serpente associato alla fertilità in quanto avente apparenza di fallo che penetra la terra, piuttosto che associato al rinnovamento a causa della sua fisiologica caratteristica di mutare pelle);
- Coerenza fra le qualità simboliche attribuite a un elemento della narrazione e la narrazione stessa (ad esempio, come il serpente, storicamente associato all’astuzia, che nel racconto si rende responsabile di un inganno);
- Impossibilità di comprendere l’utilità di un elemento all’interno di una narrazione, nel caso si escludesse un suo uso simbolico all’interno della stessa (ad esempio, l’impossibilità di giustificare la capacità del serpente biblico di parlare, se non per il fatto ch’esso simboleggi una persuasione).
Nel caso di Napoleone citato nello stralcio di Bouisson più sopra
riportato, aldilà del fatto che esistono prove
documentali (carteggi, dipinti, testimonianze, toponimi, influenze
linguistiche, lignaggi nobiliari, ecc.) dell’effettiva esistenza del comandante
francese secondo quella specifica biografia, possiamo notare: 1) come il
racconto non presenti alcun elemento fantastico (nessun super potere, nessun
animale inventato o parlante, ecc.); 2) come gli elementi della simbologia
solare citati siano pochissimi rispetto alla vastità della biografia del
generale e del tutto coerenti con la parabola esistenziale di numerosissimi
uomini di potere della Storia; 3) come l’epoca positivista dell’epopea
napoleonica non fosse affatto avvezza alla narrazione simbolica delle mitologie
solari; 4) come la figura di Napoleone non includesse alcuna delle
caratteristiche mitiche di un eroe solare, come la nascita miracolosa, l’esercizio
della magia, una morte eroica, ecc.; 5) come la figura di Napoleone risulti
assolutamente comprensibile alla luce delle sole dinamiche umane, senza
necessità di tirar in ballo alcun esercizio di semiologia per comprenderne
determinati aspetti (se fosse nato ad ovest e morto ad est, il senso della sua
parabola esistenziale sarebbe rimasto inalterato). Per concludere, la valenza archetipica di un racconto, per essere plausibile, deve tenere conto sia della plausibilità
della presenza di simboli in esso, che della nozione che del simbolo si aveva
all’epoca della sua stesura, che del senso simbolico che determinati elementi
avevano in quei luoghi ed in quell’epoca, che della coerenza fra il consueto
valore simbolico degli elementi presi in esame, con il contesto del racconto;
per contro, si ha che la presenza di tutti questi elementi o di gran parte d’essi,
non solo legittima la lettura simbolica di un brano, ma anche la qualifica come la più probabile e fruttuosa.
Per quanto concerne la polemica di Bouisson contro la teoria di una origine comune a tutte le religioni, voglio ora sviluppare un breve discorso a parte. Anzitutto, il suddetto autore francese è in polemica contro una specifica corrente di pensiero che è quella teosofica, poi ripresa in forma distinta dal suo connazionale René Guénon: essa, assumendo che le varie forme religiose non siano altro che forme folkloristiche tese a trasmettere un’unica verità, attribuisce alla storia dei culti una dinamica simile a quella che la Bibbia narra circa la Torre di Babele; gli uomini, dispersi dal loro luogo d’origine, avrebbero declinato il culto originario in una miriade di forme, dalle quali sarebbe oggi possibile risalire alla fonte solo grazie alla pratica esoterica. Diversamente dalla teosofia, Jung parla di archetipi, cioè di “forme-pensiero” tipiche della specie umana e che quest’ultima poi “incarnerebbe”, di volta in volta, in immagini archetipiche adeguate alle singole circostanze; gli archetipi rappresenterebbero per Jung quelle tensioni psichiche che trovano origine negli istinti (di caccia, di conservazione, di espansione, di riproduzione, di cura parentale, di clan, di nascita, di morte, ecc.), mentre le immagini archetipiche non sarebbero che le forme culturalmente determinate di quelle stesse tensioni: mentre i primi costituirebbero l’inconscio collettivo, ovvero il patrimonio ignoto eppure psichicamente determinante di ogni umano in quanto tale, le seconde costituirebbero l’elaborazione di quelle stesse tensioni in un determinato contesto e quindi in una determinata organizzazione sociale. Sposo personalmente la teoria junghiana: già Vitruvio, nel suo De Architectura, fa risalire il genio religioso romano allo specifico territorio geofisico da cui esso è emerso. Essendo stata appurata l’esistenza, nel passato della umanità, di una cosiddetta Eva mitocondriale e di un cosiddetto Adamo del gene Y, è storia il fatto che tutti gli umani del pianeta derivino da un punto specifico dello stesso, dal quale si sono poi dispersi nel corso dei millenni: in questo senso, nella misura in cui fosse documentabile che una qualche forma di culto vigesse già fra questi antenati, pare sensata l’ipotesi di una religione unitaria originale; ma così come da pochi progenitori si è prodotta una varietà genetica non riducibile all’uomo di partenza, così anche le attuali esperienze religiose non paiono, né exotericamente e né esotericamente, riducibili in alcun modo ad una e una sola concezione e del sacro e della vita e della realtà. Come già ho mostrato nel secondo sommario di questa serie, la presenza di simboli ricorrenti e con utilizzi analoghi in diverse forme religiose, non significa affatto che quelle stesse forme religiose siano riducibili l’una alle altre; il fatto che il Cristianesimo abbia edificato la propria mitologia attraverso l’uso di elementi simbolici preesistenti, non significa affatto che il Cristianesimo sia in perfetta continuità con i culti da cui avrebbe tratto i propri elementi narrativi. Con semplicità, io ritengo plausibile che, quando gli archetipi (istinti) della specie umana si scontrano con un contesto ambientale che spinge ad un certo stile di vita (cultura), le forme di relazione (culto) fra quel determinato popolo e quella determinata forma della realtà producono immagini archetipiche (simboli) specifiche: dal momento che molte esperienze (cicli stagionali, ciclo soli-lunare, ciclo vitale umano, incontro con specifici animali e piante con caratteristiche peculiari, ecc.) accomunano ogni umano a qualunque latitudine ed epoca, ecco che moltissimi simboli si ripropongono non soltanto per contatto e contaminazione diretta fra le diverse culture, ma anche e soprattutto per una comunanza esperienziale sulla quale agisce un comune apparato istintuale. In sintesi, non soltanto io trovo inutile teorizzare una precisa religione ancestrale alla base di tutti i culti attuali, ma riscontro anche una sostanziale impossibilità di sovrapporre questi ultimi gli uni sugli altri; anche il fenomeno che i latini chiamavano interpretatio e che consiste nel passaggio di una determinata divinità dal suo pantheon d’origine a quello d’un’altra civiltà, non va affatto compreso, come ci hanno male abituato certi libri di scuola, come la semplice parificazione di due culti (come dire: lo Zeus dei greci diventa il Tinia degli etruschi, il Giove dei latini, l’Odino dei germani, ecc.): ciascuna divinità di ogni pantheon, per quanto apparentemente simile e confrontabile con un’altra di una cultura estranea, non potrà mai sovrapporsi ad essa, per il semplice fatto che un dio è una dinamica coerente con uno specifico sistema di valori, il quale è coerente con uno specifico stile di vita, il quale è a sua volta consono ad uno specifico clima ed uno specifico territorio. Da una parte, sul piano del senso religioso delle due culture, in alcun modo possiamo identificare sic et simpliciter il mazdeo Ahura Mazdā con l’ebreo YHWH; dall’altra, sul piano simbolico, non è possibile comprendere YHWH senza interessarsi delle contaminazioni che la religione mosaica ricevette da quella mazdea ai tempi della cattività babilonese.