sabato 13 luglio 2013

Parole vecchie

Parole nuove sono quelle che la Chiesa, sin dal primo secolo, rinunciò a cercare davanti alla sfida di farsi accettare dal mondo ellenistico. Lo scandalo e la stoltezza del carpentiere reietto, ucciso dai romani sul patibolo, procurava inconsciamente una tale vergogna culturale, nei primi intellettuali cristiani, tale da dover essere giustificato secondo i vecchi parametri della ragione greca: metafisica, principio retorico di non contraddizione, principio meccanicista di causa-effetto.
Il falegname galileo divenne allora “figlio di Dio” secondo l’argomentazione di un raffinato gioco logico di matrice aristotelica: l’essere morto in croce piangendo e trepidando per gli amici in fuga e per il dubbio sul senso del proprio percorso, dopo tutto il bene fatto, non era sufficiente alla filosofia per giustificarne lo statuto divino. Il paradiso divenne l’obiettivo metafisico della vita cristiana, in sostituzione della compagnia di un Signore innamorato, nel proprio dolore. Il dolore, poi, divenne qualcosa da superare (nel sacrificio e nell’aldilà), anziché parte della condizione umana stessa, da vivere nel senso che era l’amicizia con Gesù. Solo il rito mantiene tutt’oggi la memoria e la sostanza di ciò che la teologia ha misconosciuto: perlomeno nella misura in cui il rito stesso non sia semplice espressione della teologia, ma autentica tradizione.
Poi anche la civitas cristiana è tramontata: ma non il suo sistema di vergogna per il Cristo, per cui oggi ancora è la ridotta idea greca di ragione a costituire per la cultura borghese il discrimine tra ciò ch’è savio e ciò ch’è fantasia. Sopravvive l’ambizione a superare il dolore; sopravvive l’idea gnostica di un mondo perfetto, nascosto alle spalle di ciò ch’è visibile. Tramontata è invece la religiosità: la libertà umana, verso il nuovo, capace di riconoscere il Dio in un uomo che muore. La società edonistica non è che il frutto di quest’uso gnostico e quantitativo della facoltà del pensare, elevata a misura del mondo: non è che il frutto della vergogna della condizione umana espressa dal Signore, vergogna che ancora oggi fa dividere dualisticamente, almeno nelle ambizioni, il bene dal male ed entrambi dalla vita; non è che il frutto del rifiuto della croce, ch’è rifiuto dell’umano stesso.

BIBLIOGRAFIA di riferimento:

CASTILLO J. M., Dio è la nostra felicità, Cittadella, Assisi 2008;
GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
MORALDI L. (a cura di), I Vangeli gnostici,  Adelphi, Milano 2007.

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