Il dibattito odierno sul “rinascimento
politeista” europeo, avviatosi in epoca romantica (sec. XIX) e rilanciato nella
prima metà del ‘900 da personaggi quali Murray, Leland, Crowley, Gardner, Gimbutas
e Castaneda, pare “arrancare” sul modo difforme di concepire la continuità e la
discontinuità delle pratiche cosiddette “pagane”, rispetto alla lunga “parentesi
storica” costituita da quasi 2000 anni di Cristianesimo. Per affrontare
coerentemente questo tema, in modo da fornire un contributo leale alla
discussione, ritengo sia doveroso riflettere, innanzitutto, su cosa
contraddistingua principalmente il “paganesimo” dalle religioni cosiddette “abramitiche”
(circa le quali sarebbe, in realtà, da distinguere nettamente fra Ebraismo
mosaico antico e Giudaismo rabbinico post-cristiano, ma non è questa la sede).
Religioni monoteiste come quelle
giudaica, cristiana ed islamica, partono dal presupposto di un presunto
incontro fra determinate persone e una determinata divinità: una divinità che
si sarebbe in tutti i casi presentata come origine
della realtà, come sostanzialmente esterna
alla realtà da essa creata e di conseguenza, come sostanzialmente inconoscibile attraverso il rapporto dell’uomo con
la realtà quotidiana. Secondo le tre religioni abramitiche summenzionate, l’unico
modo per conoscere l’unica divinità sarebbe quello di attendere la rivelazione
della stessa, secondo uno schema agostiniano universalmente noto come “terza
navigazione” e ripreso di sana pianta dalle preconizzazioni di Platone nel Fedone, del sec. IV a.e.v. (“ante era
volgare”):
«Infatti, trattandosi di questi argomenti, non è possibile se non fare
una di queste cose: o apprendere da altri come stiano le cose, oppure scoprirlo
da se stessi; ovvero, se ciò è impossibile, accettare, fra i ragionamenti umani,
quello migliore e meno facile da confutare, e su quello, come su una zattera,
affrontare il rischio della traversata del mare della vita: a meno che non si
possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida
nave, cioè affidandosi a una rivelazione divina (ἢ λόγου θέιου τινός)» [PLATONE
(a cura di Giovanni Reale), Fedone,
Rusconi, Milano 1997, 85c-d, pag. 185].
Il passo di Platone appena
riportato, mostra esattamente la differenza sostanziale che passa fra le
spiritualità di tipo “pagano” e le spiritualità di tipo “rivelato”: la
relazione fra idea ed esperienza. A dispetto di tutte le differenze
formali che passavano fra i vari pantheon
dei vari popoli, tutti i “pagani” erano concordi nell’ammettere che fosse l’esperienza
a generare le idee sulla consistenza della realtà e non viceversa: mano a mano
che l’esperienza informava i popoli, i popoli rivedevano, mutavano,
rielaboravano e ricontestualizzavano le proprie opinioni sul reale; per contro
una religione rivelata, “pendendo dalle labbra” della divinità che racconta di
sé, si trova nella situazione diametralmente opposta.
Il seguace di una religione
rivelata non può in alcun modo accettare che la realtà dica, riguardo alla
divinità, qualcosa di diverso da ciò che –si presume, la divinità stessa abbia
detto di sé: se per i “pagani” è la “forma” stessa degli dèi, ad evolvere mano
a mano ch’essi fanno esperienza della realtà, per il credente è la
rivelazione divina, a dettare le regole riguardo quali esperienze vadano accettate e
quali altre vadano rifiutate. Per i “pagani”, le esperienze “disegnano” le idee
sulla realtà; per gli abramitici, è l’idea rivelata a “filtrare” le esperienze.
Da queste prime riflessioni possiamo trarre, come preliminare conclusione, la
distinzione fra gli abramitici dogmatici
(priorità del preconcetto “rivelato”, sull’esperienza) ed i “pagani” empirici (priorità dell’esperienza
–anche filosofico/speculativa, sull’idea).
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