L’occasione d’una chiacchierata
avuta a cena tra amici, sul tema delle verità religiose, mi porta a scrivere
alcune considerazioni sull’utilità del dialogo: fuori dal tema della serata, l’intento
di quest’articolo è quello di mostrare che il dialogo possa sussistere solo fra
pari e che in assenza di presupposti comuni d’un certo tipo alla comunicazione,
il “dialogo” risulti essere in realtà una farsa, ovvero la “maschera” sotto la
quale si cela il fine monoteista (si
dirà poi come sia qui inteso il termine) di fagocitare l’altro, un po’ come farebbe
la matrigna di Biancaneve con qualunque altra bellezza ulteriore alla sua. Come
la parola stessa spiega, l’utilità del dialogo starebbe, a sentire Platone nei
suoi –appunto- Dialoghi, nell’applicazione
del metodo maieutico, del suo M°
Socrate, alla consapevolezza di chi vi partecipi. Il metodo maieutico consiste
nell’ “incrociare” più esperienze affinché, attraverso una logica comune
(quella che sarà poi definita dall’allievo più illustre di Platone, cioè
Aristotile), si possa giungere a riconoscere quel che le accomuni ed a
distinguere perciò i dati di fatto, universalmente constatabili, dalle
circostanze contingenti e percezioni “senso-psico-emotive” soggettive. Il sistema, sviluppato ad Atene, costituisce la fondazione filosofica del metodo
scientifico galileiano ed in questi termini la filosofia ateniese non soltanto
risulta essere (checché ne dicano gli empiristi) a tutti gli effetti una
Scienza, ma addirittura La scienza che fonda tutte quante le altre.
Atene non pretende, come invece lo
scientismo attuale, di negare l’esistenza di ciò che non risulti universalmente
evidente, ma si limita ad ammettere, appunto, che una constatazione collettiva
possa darsi solamente su quest’ultima categoria di fenomeni, materiali o
mentali che siano. Il metodo maieutico è teso a riconoscere ciò che
necessariamente debba essere (per forza c’è),
ciò che in alcun modo possa essere (per forza non c’è) e ciò che non
possa essere che la partecipazione personale ad un evento (è un’opinione). Una volta stabiliti quali siano i dati di fatto, Socrate relega tutto il
resto entro i confini della sensibilità personale, ovvero entro l’ambito del
sistema di valori individuali. A
parte la parentesi teocratica, l’Occidente ha sempre ritenuto (ed io con Esso)
che gli unici valori definibili attraverso il dialogo, siano quelli relativi ad
un fine specifico, con una precisione tanto maggiore, quanto maggiore sia il
numero di variabili contemplato nell’analizzare il problema da risolvere. In
pratica: solo dopo avere stabilito
cosa si voglia ottenere, si può cercare insieme il metodo più produttivo (e quindi più valido) per avere successo. In latino,
la parola valore significa “essere
valido” e cioè “adeguato”: così com’è il fine a determinar il mezzo (gli occhi
non sono adeguati ad ascoltar una canzone), così è lo scopo a determinar il
valore (rispetto all’ascolto di musica, gli occhi non valgono niente), ovvero la
nozione adeguata a perseguirlo. I valori sono solamente degli attrezzi.
I valori sono soggettivi come lo
sono gli scopi; può capitare che uno scopo condiviso (vivere in sicurezza)
generi valori condivisi (tutela della persona e della proprietà) sui quali vada
a costruirsi una civiltà (cioè l’insieme dei meccanismi d’educazione alla
condivisione degli scopi e dei valori suddetti, nonché i prodotti ottenuti
conformemente agli stessi scopi e valori): non per questo, valori e scopi
diventano dati oggettivi. Dialogare
per definire valori “assoluti” veri sempre e dovunque a prescindere dal fatto che siano assunti o meno da qualcuno, non
ha, in prospettiva maieutico-scientifica, alcun senso: ciò che qui pare avere
senso è lo stabilire insieme “se e cosa” si voglia
realizzare collettivamente e quindi elaborare i valori ritenuti utili a tal
fine. Discutere senza essersi prima accordati sulla lingua da usare e sui
presupposti dell’argomentare, pare inutile come il confrontarsi sui valori senza
prima avere stabilito in che termini si reputi utile una collaborazione: fuori
di ciò, si ritiene d’entrare nel contesto del “vampirismo psichico”, ovvero nel
sopruso tentato di volere ridurre l’altro
ai propri scopi, ovvero alle proprie opinioni e cioè ai propri gusti. Volere legittimare l’altro partendo
dai propri gusti, significa ergersi a parametro dell’esistenza ed è perciò che
in una società multietnica come quella occidentale, il sine qua non di ogni dialogo e di ogni convivenza pare esser inevitabilmente
quello di una legittimazione a priori
della multiculturalità stessa, cioè la convergenza sul diritto di ciascuno a
vivere pensandola come la pensi e perseguendo gli scopi che intenda perseguire,
a patto che questo non leda un equivalente diritto agli altri.
Da questo punto di vista, la
società multiculturale appare necessariamente
materialista sul piano delle relazioni interpersonali, perché come presupposto
alla sua sussistenza non può che guardare a ciò che l’altro faccia agli altri e
non a ciò che l’altro sia o a come l’altro si qualifichi: se questo è
condiviso, allora i cosiddetti “valori non negoziabili” possono essere
valutabili come l’appannaggio di chi non accetta che gli scopi altrui stiano
sullo stesso piano dei propri, ovvero come una prerogativa dei fanatici, in quanto i valori della
convivenza necessitano di essere
invece, per l’appunto, proprio negoziati,
cioè scelti in accordo. I fanatici invece, dall’ “alto” della loro auto-riferita
superiorità morale, si profondono in un paternalismo senza sosta, il quale
nasce dal vedere gli altri come coloro che non conoscono ancora i “veri” scopi
e non sanno accettare quindi i “veri” valori. Mentre la mentalità liberale è
intrinsecamente politeista per i
motivi comprensibili a seguire, la mentalità fanatica è intrinsecamente monoteista e non
semplicemente monolatrica. I
monolatri infatti, pure risolvendosi di non adottare che uno ed un solo scopo
nella vita, non negano che altri possano perseguire scopi diversi; il
monoteista nega che a qualunque scopo oltre il suo si possa riconoscere una
qualsivoglia validità anche solo soggettiva: qui si ritiene commettano un
errore logico d’ordine metafisico.
Sul piano ontologico, l’Essere in
effetti non può che essere Uno ed uno soltanto in quanto, per definizione, “c’è
solo quello che c’è” e quindi all’Essere non
può darsi alternativa alcuna. Sul piano esperienziale, non potendo la
coscienza essere se stessa se non conoscendo e non potendo conoscere se non
comparando, il solo Essere del piano ontologico si esprime in modo polimorfo,
secondo una varietà di forme tutte riferite ad Esso e quindi tutte
legittimamente esistenti (non esiste
vero Essere senza vera esperienza dell’Essere). Il fanatico, confondendo il
piano dell’unica essenza col piano dualizzato dell’esperienza, ritiene a torto
che, su quest’ultimo, l’unico modo per riflettere l’unità metafisica sia quella
di pensarla tutti allo stesso modo, non rendendosi conto che in un regime duale
il bianco ed il nero si definiscono e conoscono reciprocamente. Il succo di
questo articolato discorso pare sia il seguente: chiunque rifiuti di mettere i
propri scopi (valori) sullo stesso piano di legittimità di quelli altrui,
assolutizzandoli, è un fanatico il quale, rifiutando con ciò di fruire dell’altro
come specchio di sé, non vede che la punta del proprio naso.
Si specifica che una nozione politeista dell'esperienza non risulta essere necessariamente un atteggiamento relativista, né idolatra. Riconoscere l'esistenza della verità oggettiva non è in contraddizione con l'ammettere la relatività dei valori, anzi: è coerente con il ritenere che non tutti i valori siano conformi a qualunque scopo. IDOLATRIA significa "culto delle immagini", poiché il termine greco EIDOLON si riferisce a ciò che appare: di conseguenza, atteggiarsi verso l'esperienza in termini politeisti, cioè ammettendo che valori diversi emergano tutti legittimamente da diversi scopi perseguiti, non significa affatto confondere il piano dell'esperienza con quello dell'essenza; né confondere l'apparenza con la sostanza; né intendere la parte come fosse il Tutto.
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