Scrive la
poetessa riprendendo un’antica lezione: «Nulla
è forte come l’amore/ che sa godere del suo stesso amore./ Niente è più libero
di lui che si commuove nel cuore dell’amato/ senza nulla chiedere/ perché sa
bastare a se stesso.» Non viene da chiedere se l’autrice creda davvero a ciò
che proclama? Dico “credere”, perché mi pare evidente che un’esperienza del
genere sia impossibile ad un essere umano: quindi impossibile e basta a quanto ne sappiamo, se è vero che nel cuore delle bestie e degli déi non ci siamo.
Conosco l’esistenza
dell’amore per averlo intravisto fra gli uomini. Se anche mi sento amato dal
cielo instancabilmente, è l’esperienza dell’amore umano che mi fa dire “il
cielo mi ama”. L’amore che conosco,
osservo attorno a me e provo, è inseparabile dal desiderio d’essere “riconosciuti”
dalla persona che per prima – e nostro malgrado, si è imposta al nostro “riconoscimento”:
riconosciuti noi, magari, anche solo nella gioia altrui per un nostro dono anonimo. Chi
non vive coinvolto nelle conseguenze del proprio libero e gratuito (previo)
donarsi, si è davvero donato? E può un mortale sentirsi coinvolto, senza
avvertire che ne va della sua vita? Non è il riconoscimento altrui a far tirar
il fiato al cuore, che si vede tratto in salvo dal nulla di senso che lo
minaccia? L’ossessione di ottenere un riconoscimento esclusivo, evidentemente,
è poi tutt’altra faccenda.
Se anche un dio potesse provare un amore tale da bruciar un roveto senza consumarlo, quella sarebbe un’esperienza del dio e non dell’uomo. Se anche noi potessimo avvicinarci all’esperienza di un dio fatto d'amore, “divinizzandoci”, non potremmo altro che vivere più intensamente l’amore dato alla condizione umana che perdura. Il resto si può chiamare “disciplina”, oppure “astrazione”, oppure “autocompiacimento”.
Se anche un dio potesse provare un amore tale da bruciar un roveto senza consumarlo, quella sarebbe un’esperienza del dio e non dell’uomo. Se anche noi potessimo avvicinarci all’esperienza di un dio fatto d'amore, “divinizzandoci”, non potremmo altro che vivere più intensamente l’amore dato alla condizione umana che perdura. Il resto si può chiamare “disciplina”, oppure “astrazione”, oppure “autocompiacimento”.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
MAZZOCCO A.R., Il Cantico di Tommaso,
Morlacchi, Perugia 2006, p.3.
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