Eric Berne
ricomprese la psicoanalisi in una fase storica particolare per le esigenze
terapeutiche mentali degli USA: erano gli anni ’60 ed il problema dei reduci di
guerra richiedeva sistemi che potessero essere applicati in gruppo e potessero
fornire, senza particolare preparazione, risultati soddisfacenti in tempi
ragionevoli. L’Analisi Transazionale
riprendeva la “seconda topica” di Freud e la riformulava in modo da poter
essere associata alle scoperte della psicologia scientifica comportamentista.
Per sommi capi, ciò che Freud chiamava “Super-IO” diveniva il Genitore; ciò che prima era detto “IO”
diveniva pressappoco l’Adulto; ciò
che si diceva “Es” era qui il Bambino.
Così intesi,
gli stati dell’IO potevano essere osservati, nelle loro transazioni (interazioni) e nelle loro genesi, secondo le
acquisizioni che da Pavlov in poi avevano mostrato i nessi tra cause ed effetti
tra gli stimoli esterni e le reazioni dei soggetti: si poteva in questo modo
far emergere, dalla sfera dell’insondabile inconscio, tutti quegli automatismi
che si sovrappongono al libero arbitrio della persona nelle sue relazioni e
scelte quotidiane.
Qui si ritiene
che il modello junghiano, di decenni precedente a Berne, possa vantare almeno
due enormi vantaggi per il paziente, rispetto a quello transazionale: la
possibilità di evolversi fino alla rinuncia di una catalogazione “per tipi” dei
soggetti umani; la possibilità di evolversi fino ad uscire dalla pura
coincidenza tra persona e mente. Anche Jung sviluppò una sua “teoria dei tipi”
(peraltro non molto dissimili, nei contenuti ed in certe interazioni, da quelli
di Berne) ed anche l’Analisi Transazionale riconduce le dinamiche
dell’individuo al significato che le cose acquisiscono per gli stati dell’IO
del paziente, ma la successiva apertura al simbolo che la Psicologia Analitica
fece è in direzione di una ricomprensione del reale/mondo, oltre che della
persona che lo vive; ed i “tipi” junghiani, una volta connessi ad una nuova
immagine del mondo piuttosto che alle dinamiche di causa/effetto tipiche del
comportamentismo, evitano la necessità (anche se questa eventualità, come
deriva di un’interpretazione troppo ristretta, non viene meno) di rinchiudere
l’uomo nella sua sola “sfera mentale”.
Riferendo
l’uomo al contesto più ampio del mondo, Jung riconosce negli archetipi non solo
il ruolo genitoriale di padre, madre e società, ma anche un retroterra a suo
modo “oggettivo” da cui l’essere umano, in quanto tale, non può prescindere di
approcciarsi alle cose: molto più di quanto Berne attribuisce, nella sua ottica
solo “infra-umana”, al “tipo innato” del Bambino
Naturale. Gli archetipi, inoltre, sono concezioni simboliche che sfuggono
ad una loro resa “concettuale”: essi, anzi, rappresentano proprio il “di più”
che la realtà (anche umana) è,
rispetto alla comprensione; essi vivono dell’ambivalenza del mondo rispetto ai
riduttivi concetti verbali con cui gli uomini lo sviliscono per volontà di dominio. Il problema è
allora, per Jung, non tanto quello di riconoscere
i propri “copioni” decisionali in vista di una loro salutare rettifica
(conoscere per dominare), quanto piuttosto quello di riconciliare in un “Sé” unitario ciò che al soggetto è richiesto
come adattamento alle regole sociali,
con ciò cui “inconsciamente” tende per disposizione personale, quale che sia la
causa di quest’ultima. Questo processo
d’individuazione è del tutto scevro da remore morali e lo stesso Sé è
inteso “aldilà del bene e del male”, in quanto bene e male non sono altro che
espressioni del preconcetto con cui la società o l’individuo guardano le cose:
cose che in realtà sono “molto più” di quanto diano ad essere comprese.
Partendo dall’ambivalenza della realtà, Jung insegue la guarigione sul terreno
della coscienza simbolica, là dove le cose vengono riconosciute per come sono
sperimentate e non in relazione ad un’idea preconcetta (“equivalente
universale”, come ad esempio un dio creatore alla luce del quale, soltanto, le
cosa hanno valore: posizione, questa, in definitiva nichilista, in quanto riconosce valore nullo alle cose prese in
quanto tali); Berne, pure riconoscendo la legittimità di ogni condizione
mentale in sé e per sé, di fatto parte da un’idea di salute come “efficienza”
(il suo “equivalente universale”) e di conseguenza cataloga i tipi come “bene”
o come “male” senza preoccuparsi di riconciliarli, ma anzi di “riadeguali” alla
società. Non a caso, l’Analisi Transazionale parla di “forme adattive”
efficienti o superate (riferimento al “dio” performance),
mentre la Psicologia Analitica parla di individuazione avvenuta o non avvenuta
(soggetto recuperato a se stesso e non alla sua capacità di integrarsi più o
meno bene).
L’unico modo
di riconciliarsi con se stessi e con il mondo è per Jung, a questo punto,
quello di compromettersi (con curiosità e stupore) con tutto ciò che in se
stessi si prova e con tutto ciò che si vive: qui sta l’indubbio vantaggio di
una prospettiva che apre la ragione al recupero del corpo ed apre il soggetto,
inteso in senso integrale, alla vastità degli orizzonti vitali che la realtà
offre.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
FAENZA R., Prendimi l’anima, Medusa
film, 2002;
JUNG C.G., La psicologia del transfert, Oscar Mondadori, Milano 1985;
KLEIN M., Autoanalisi transazionale,
Astrolabio, Roma 1984;
WITTGENSTEIN L., Zettel. Lo
spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino 2007.
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