Certamente la
programmazione di specie, in noi mammiferi, incide molto sull’apertura ad un
godimento esteso e liberale delle relazioni: il mio “pool genico” vuole riprodursi preferenzialmente e per far questo,
utilizza i miei meccanismi d’autodifesa per aggredire i potenziali concorrenti,
oltre che per assoggettare chi si relaziona con me, affinché questi non si
permetta “divagazioni”. Con lo sviluppo intellettuale, il meccanismo darwinista
si ammanta di una parvenza etica e così imparo a ritenere doverosa l’esclusività
dei rapporti, con l’inconsapevole fine di produrre un mondo in cui il mio bisogno istintuale- riproduttivo di
vincolare l’alterità a me, sia giustificato, coerente e tutelato. Aldilà delle suddette
dinamiche, ben note del resto, mi pare non si sia mai abbastanza sottolineato
il peso dei condizionamenti culturali esercitati sulla gelosia occidentale dall’etica
abramitica, la quale, da un lato, semplicemente “eleva a sistema”,
conferendogli una dignità religiosa, il dato etologico della pulsione al
possesso in ambito riproduttivo. D’altro lato, l’esclusività –cristiana,
diciamo- dei rapporti affettivi ha secondo me un’altra genesi, oltre al bisogno
di ordinare socialmente le pulsioni di possesso già presenti negli istinti:
essa si collegherebbe anche e soprattutto alla nozione di un dio da cui dipenda
la mia esistenza, prima e la mia salvezza, poi.
Se io ho valore solo perché
un dio avrebbe deciso di conferirmelo, traendomi dal “nulla”, allora io non ho effettivamente valore in me
stesso: sono nella stessa condizione delle donne nella poesia cortese, le quali
si elevavano non già per loro stesse, ma solo in quanto amate dal nobile cavaliere
di turno. Se io ho valore solo perché un dio mi avrebbe “chiamato per nome” dal
nulla, allora anche la mia felicità è per sempre legata a lui, che detiene questo
potere di chiamarmi per nome e darmi così consistenza ai miei stessi occhi: mi
sento perduto senza qualcuno che mi chiami per nome e questo mi porta, da un
lato, a farmi servo di chi mi trae dal nulla; dall’altro, ad assolutizzare chi mi
chiama. Il meccanismo
religioso, una volta interiorizzato ed associatosi nel profondo alle pulsioni
istintuali di possesso-interesse verso l’altro, verrebbe ovviamente replicato
in qualunque contesto relazionale e
non soltanto nel rapporto col dio che mi avrebbe creato. L’altro, colui che mi attribuisce
un qualche valore a causa della sua predilezione per me, è ai miei occhi colui
che mi chiama per nome e quindi, colui dal quale dipenderebbe la mia felicità:
mi sentirei del tutto impossibilitato a “costruire qualcosa” in assenza di una
pedissequa presenza dell’altro, perché interiormente io intenderei il mio costruire,
cioè la mia realizzazione, come la condizione di permanenza nelle grazie di
colui che mi avrebbe dato sostanza. Qui avrebbe genesi la dedicazione claustrale
della vita, come tentativo di associarsi ad un "altro" affidabile.
L’altro, infatti, quasi
mai si dimostra all’altezza del mio bisogno di qualcuno che, costantemente, stia davanti a me per
pronunciare il mio nome, trarmi dal nulla ed “autorizzarmi” a riconoscermi
valore: i bisogni dell’altro, così simili ai miei sia nel desiderio di
possesso, che nel cercare riconoscimento, lo possono portare, più o meno spesso, a
voltare il suo sguardo da me verso altre persone da possedere ed a
cui chiedere riconoscimento. Se l’altro asseconda a mio discapito i suoi
bisogni, io mi ritrovo senza nessuno che pronunci il mio nome: mi sento fallito
sia nel soddisfacimento dei miei istinti, che nell’autostima. Se l’altro non
asseconda i suoi bisogni di possesso e riconoscimento, probabilmente finirà per
diventare nevrotico, perdendo le energie-motivazioni a lui necessarie per riconoscermi e servirmi. Se l’altro mi asseconda
a discapito dei suoi bisogni, contribuisce a rafforzare in me l’identificazione
fra il mio valore e la sua presenza; se non mi asseconda più, innesca in me un horror vacui radicato sia a livello
istintuale, che a livello culturalmente interiorizzato, tale da scatenare in me
quelle forze reattive che, facendo leva sulle pulsioni di sopravvivenza, mi
portano a squalificarlo attraverso una dinamica facilmente illustrabile grazie
allo schema del “triangolo drammatico” elaborato, verso la metà del ‘900, da
Karpman nel contesto dell’analisi transazionale: mi sentirò anzitutto vittima
della sua ingratitudine per il mio
riconoscimento della sua persona e quindi trasformerò tale vittimismo in un
giudizio spietato dell’ingrato in questione, facendomi ben presto il suo
carnefice.
Se il mio ragionamento
dovesse avere una qualche validità, potremmo espanderlo al fine di cogliere le
sue implicazioni in numerosi campi, come ad esempio quello clinico dello studio
delle anoressie. Concordo con chi, genericamente, definisce le anoressie “disturbi
dell’amore”; non sarebbero a mio avviso disturbi alimentari, ma modalità reattive
per fare fronte allo sconvolgente bisogno di un nome pronunciato da terzi (e cioè di una attribuzione di valore dall’esterno):
non sarebbero patologie delle società industrializzate, quanto piuttosto delle
società cristianizzate. L’anoressico, davanti al pericolo di “restare senza
nome”, agirebbe inconsapevolmente nella direzione di emanciparsi da tale paura,
non però attraverso una conoscenza di se stesso (cioè attraverso un processo di
scoperta del proprio nome da sé),
quanto in quella di una rimozione del
bisogno: facendo come se questo non ci fosse. Se ho ragione, l’anoressico
sarebbe colui che rimuove il ruolo dell’alterità dalla propria vita, per paura
che l’altro non sia costante nel conferirgli il valore di cui avverte un
disperato bisogno sia per motivi di programmazione di specie, che d’interiorizzazione
di un contesto culturale in buona sostanza nichilista, come quello cristiano. L’anoressico
costruirebbe attorno a sé una sorta di verginità
dal mondo nel disperato tentativo di fare a meno del proprio nome, inteso come attribuzione altrui: questa “verginità”,
non a caso direi, pare esprimersi il più delle volte proprio nei due contesti
maggiormente relazionali del vivere, come quelli dell’alimentazione e del
godimento sessuale. Confondendo inconsapevolmente l’auto-centratura (“la mia
prima responsabilità è verso la mia tutela”) con l’autarchia (“posso tutelarmi
solo potendo non contare su niente e nessuno d’esterno a me”), l’anoressico andrebbe
a chiudersi in un preconcetto di sé,
mancando in effetti di una vera e risolutiva conoscenza di sé, cui si perviene invece perseguendo l'esperienza del piacere.
Se ho ragione, si
spiegherebbe come mai l’anoressico identifichi talmente tanto se stesso con la
propria condizione, da subìre statisticamente enormi contraccolpi in termini
dissociativi, qualora essa venisse rimossa. L’anoressico vivrebbe un contesto di
autoreferenzialità al quale, nelle sue fasi più evolute, sarebbe idealmente disposto a rinunciare solo a
fronte di manifestazioni di devozione e disponibilità incondizionate, da parte dell’altro, nei suoi riguardi: devozione e
disponibilità non soltanto di fatto impossibili da pretendere da un essere
umano (dato che l’altro ha anch’egli bisogni propri), ma anche praticamente sempre giudicate ancora
inadeguate, quale che sia la loro entità. Ne desumo che due
fenomeni apparentemente così distanti, come la gelosia e l’anoressia, possano
in realtà essere valutati come i due “rovesci” di una stessa “medaglia” definibile
come “terrore di perdere il nome”: se su una programmazione di specie già preposta ad un possesso dell’ambiente
e degli altri (al fine anzitutto di sopravvivere e poi di riprodurre
preferenzialmente i propri geni), si
va a sovrascrivere (interiorizzandola come una sorta di “secondo istinto”) una
cultura che associa il valore dell’individuo al riconoscimento altrui, allora,
in assenza di un autentico lavoro di
auto-riconoscimento, le due “soluzioni” plausibili resteranno soltanto, verso l’altro,
l’attacco (di gelosia) o la fuga (in se stessi).