Finora, abbiamo stabilito che il Cristianesimo neotestamentario è il
frutto di un’elaborata strategia culturale messa in piedi da Paolo di Tarso, a
fronte della predicazione di un rabbino ellenizzato e forse anche promotore di
una rivolta armata contro Roma (nella descrizione di Gv XVIII, 3 dell’arresto
di Gesù, si dice che contro di lui venne inviata, assieme alle guardie del
tempio, una coorte di soldati, la quale, essendo la decima parte di una legione
imperiale, sarebbe composta di circa 600 uomini. Ora, aldilà del fatto che
nemmeno nei loro sogni più rosei, i sadducei del tempio avrebbero potuto
disporre di truppe romane –come le note dell’edizione greca EDB del NT vorrebbe
dare a credere, a me pare abbastanza improbabile che un governatore potesse
dare il permesso di mobilitare una coorte intera per arrestare “quattro figli
dei fiori”, come dice qualcuno). A seguito di ciò, abbiamo verificato l’inconsistenza
storica della dottrina del Peccato Originale e di conseguenza della dottrina
della redenzione su di essa costruita (non ha senso che Dio redima storicamente
una colpa non contratta); a seguito
di ciò, abbiamo verificato anche l’incoerenza di un’interpretazione mitica dei
vangeli canonici che non considerasse la loro dipendenza ideologica dagli
scritti di Paolo, cronologicamente precedenti: se sono le lettere paoline ad
informare la teologia evangelica e non viceversa, allora esse stesse sono il
parametro interpretativo dei vangeli canonici (e non viceversa). Abbiamo
distinto l’esoterismo cristiano esercitante una lettura dei simboli neotestamentari
in chiave mistagogica, cioè in ossequio alla dottrina, dal Cristianesimo
esoterico, ovvero dalla riformulazione di una filosofia sapienziale attraverso
le immagini ed i miti di una narrazione cristiana estesa aldilà dei suoi confini
canonici (inclusiva cioè di contributi esterni, come testi apocrifi, leggende,
elementi gnostici, ecc.): prima di abbandonare la fase preliminare del presente
lavoro, per darci alla ricostruzione di un percorso cristiano “informato” del
valore ancestrale delle sue immagini archetipiche, in questa sede vorrei
ultimamente fare alcuni accenni più espliciti alle conseguenze antropologiche della
weltanschauung neotestamentaria.
Dunque, la dottrina neotestamentaria afferma che, a causa di un errore
di valutazione dei primi uomini, tutta l’umanità sia finita preda del male; si penserebbe
che questo fatto possa non risultare imputabile a Dio e che quindi descriva una
realtà costitutiva dell’uomo (della serie: chi si pone in modo autoreferenziale verso le cose, dividendo bene e male secondo il proprio gusto,
va incontro al dolore d’essere deluso), se non fosse che: 1) la dottrina lo
associa a Gn III, in cui si parla oggettivamente di cacciata; 2) se il fatto non fosse storico (come già detto), non ci
sarebbe niente da redimere… Gesù sarebbe “semplicemente” venuto a mostrare i
motivi per cui stare sereni, ma a quel punto non avrebbe più senso l’amministrazione
della Grazia e cioè l’opera di mediazione
salvifica auto-attribuitasi dalla Chiesa (la quale si ridurrebbe a “banca
dati” della testimonianza cristiana); 3) la morale della Chiesa viene esposta in termini legalistici, cioè distinguendo a sua volta il bene dal male
in modo auto-referenziale (sebbene attribuendo questa arroganza al suo dio). In
pratica le cose, a mio avviso, stanno così: il dio fa l’uomo libero di
scegliere e poi emana una legge che l’uomo deve
rispettare per mantenersi nelle sue simpatie; l’uomo può scegliere se
rinunciare al dono divino della libertà e cioè al dono di godere di se stesso, per
mantenersi nell’amicizia del dio o se godere del dono divino della libertà
rinunciando però all’amicizia del dio, la qual cosa comporterebbe per lui niente
meno che l’estinzione, dal momento che il dio è concepito come l’unico motivo
per cui l’uomo stesso valga qualcosa. La prima contraddizione sta nel fatto che
il dio crea l’uomo dal nulla e quindi l’uomo è sostanziato
da “il dio che lo fa”: se l’unica consistenza dell’uomo sta nella volontà
creativa del dio a suo favore, allora dovremmo desumerne che, per l’uomo e
secondo la dottrina, godere di se stesso (e quindi essere libero) e godere dell’amicizia
del dio debbano essere la stessa cosa, no? No: da una parte, l’uomo sarebbe
libero e cioè capace di godere di se stesso a causa del placet del dio a tale
riguardo, “epperò” non può mantenere il suddetto placet del dio, se non
rinunciando a godere di se stesso in funzione della legge divina. Da una parte,
appare logico che, se ciò che sostanzia l’uomo è la volontà del dio, l’uomo non
possa trovare vita che dentro i confini
di quella volontà; dall’altra parte, però, se l’uomo non esiste che all’interno
della volontà del dio, allora non dovrebbe
dirsi libero e le sue colpe non dovrebbero essergli imputate.
Ci troviamo chiaramente di fronte ad una trappola: 1) il dio cattolico
crea l’uomo dal nulla e perciò l’uomo è sostanziato soltanto dalla volontà del dio; 2) il dio suddetto crea l’uomo dall’esterno
e quindi l’uomo non è parte del dio, ma altro
da lui…il dio è trascendente rispetto all’uomo e quindi l’uomo, pure
esistendo solo entro i confini della volontà del dio, è altro da lui e quindi
ha una volontà altra rispetto alla
volontà del dio; 3) il dio, quindi, fa esistere l’uomo per un atto della
propria volontà e però lo fa esistere come altro da sé, mettendo l’uomo nella
disgustosa condizione di non potere godere mai di se stesso, non potendo esistere
che dentro la volontà del dio; 4) se ne deduce che l’uomo del Cattolicesimo e
del NT è letteralmente uno schiavo, uno la cui sussistenza dipende da un altro,
che lo ha creato libero non già perché potesse godere di se stesso, ma solo per conseguenza
inevitabile del volerlo distinguere da sé per poterlo, appunto, schiavizzare.
La condizione di servitù ontologica testé descritta appare addirittura
aggravata dal presunto evento salvifico della Risurrezione: lo stesso dio che palesemente (visto che le cose stanno
per la dottrina nel modo già descritto) ha creato negli uomini degli schiavi,
ritiene di fare un grande dono all’umanità mandando suo figlio a morire per
redimere le colpe di chi si sarebbe posto nell’ombra
della morte avendo preferito la propria “inconsistente” volontà creaturale a
quella sostanziante del dio. Ora anzitutto
ritengo necessario chiarire un presupposto: se Gesù non fosse il dio, quest’ultimo
avrebbe mandato a morire qualcun altro
al posto suo e quindi si arrogherebbe il titolo di “salvatore” indebitamente;
se Gesù invece, come dice la Chiesa, fosse davvero il dio, allora in quanto
padrone assoluto di tutto Egli non avrebbe mai davvero rischiato qualcosa di
proprio per l’uomo e di conseguenza, la presunta redenzione non sarebbe che una
“sceneggiata”. La Chiesa ritiene che il Cristo abbia redento il dolore
condividendolo, comportandosi cioè in perfetta continuità con l’atto creativo;
siccome le cose valgono o non valgono a seconda che al dio piacciano o non
piacciano, dal momento che al dio è piaciuto far esperienza del dolore, il
dolore vale: limpido, preciso, inequivocabile. Siccome è la volontà del dio a
dare sostanza all’uomo, dal momento che l’esperienza del dolore è diventata la
volontà eterna del dio, l’uomo non può più trovare consistenza se non nell’esperienza
del dolore: non solo nato per essere schiavo, quindi, ma schiavo precipuamente del
dolore… ma non basta ancora. Ho parlato di sceneggiata in riferimento al
presunto evento salvifico della Croce/Risurrezione; come nell’Antico Testamento (AT) era l’obbedienza
pedissequa alla volontà di conquista di YHWH, a determinare la sussistenza in
essere del popolo, così nel NT è l’obbedienza pedissequa all’esperienza della
Croce a garantire la Risurrezione: voi per caso riuscite a scorgere una qualche
evoluzione, nella situazione umana? Non solo: nonostante il dio, in quanto
tale, non abbia davvero mai rischiato
nulla per l’uomo, racconta a quest’ultimo di avergli fatto un grande dono d’accoglienza…
dono per il quale egli dovrà non solo essergli eternamente grato (nonostante la
più completa e manifesta inefficacia), ma per il quale anche dovrà contrirsi
enormemente ogni qual volta dovesse retrocedere in obbedienza e riconoscenza.
Se nell’AT il timore di Dio consiste
solo nella ragionevole paura d’essere puniti dal dio padrone per ogni eventuale
disobbedienza a lui, nel NT il medesimo sentimento si riveste di sensi di colpa
e di vergogna, nonché di dipendenza affettiva, essendo stata, la volontà del padrone,
interiorizzata dal cuore dello schiavo tramite la menzogna di una salvezza
impagabile ed invece gratuitamente elargita.
L’assetto ideologico di cui sopra, interiorizzato dal credente, si
riproduce in esso attraverso una morale coerente e degna di una psico-sétta. La prima caratteristica del
credente è il senso del dovere riguardo il considerare “dono” ogni esperienza
della realtà, compresa la sua vita, quale che sia il livello di disagio in essa
provato da lui stesso. La vita sarebbe un dono del dio e la salvezza sarebbe un
dono del dio e siccome il dio sarebbe buono, anche i doni sarebbero a loro
volta buoni: quando il credente vive una situazione o vicenda di disagio, anche
solo dovuta al tradimento delle proprie aspettative sul reale, il suo compito è
attribuire quello stesso disagio ad una propria mancanza e la sua risposta dev’essere
il senso di colpa per non riuscire a cogliere, nel disagio stesso, il dono del dio. Il credente si trova “fratturato”
fra il proprio “istintivo” rifiuto del dolore ed il dovere religioso di rendere
grazie al dio: in questa situazione, è portato a sentirsi in colpa ogni qual
volta dovesse dare retta al senso di rifiuto ed a sentirsi invece frustrato, ogni
qual volta dovesse dare retta al dio che lo invita alla riconoscenza. Quanto
più il credente aderisce volontariamente alla coercizione della legge divina,
tanto più si discosta da ogni aspetto di sé divergente rispetto ad essa;
quanto più il credente aderisce per senso del dovere alla coercizione divina,
tanto più si sente frustrato; ogni qual volta il credente si scosta dalla
coercizione per aderire ad istanze personali, egli si espone al senso di colpa
ed alla demolizione della propria autostima, avendo aprioristicamente
identificato il proprio valore con l’aderenza alla legge divina. Mi pare
evidente che un uomo, il quale da un lato non possa che provare un senso di
distanza fra i propri desideri ed una qualsiasi legge imposta dall’esterno e
dall’altro abbia identificato il proprio valore con la propria capacità di
restare fedele a quella legge esterna, non possa che finire disgregato alla
radice del proprio Sé e manipolato, da una dinamica del genere; per contro, qualora
quest’uomo riuscisse a gestirsi tanto da aderire esattamente alla legge esterna
impostagli, si vedrebbe “gonfiare” esponenzialmente l’ego a causa di ciò, fino
a sentirsi nella condizione di ergersi a giudice di chi non riuscisse a far
altrettanto: nasce così il moralista. Il moralista cristiano (certo della
propria bontà d’animo della quale ritiene d’avere prova semplicemente per la
sua pedissequa obbedienza al conformismo religioso) si sente in dovere ed in
potere di salvare il suo prossimo, riproducendo nelle proprie azioni la mitologia
del Cristo: quando l’altro si lascia persuadere, egli è confermato nel proprio
ruolo e di conseguenza vede rafforzarsi il suo ego, in quanto esso dipende,
abbiamo visto, dalla sua aderenza alla legge. Quando l’altro non si lascia
convincere cercando di schivare il moralista, quest’ultimo si trasforma in
giudice, passa dal ruolo di salvatore a quello di carnefice e persegue colui
che abbia osato contrapporre le proprie istanze a quelle divine che tengono lui
stesso in catene; quando l’altro reagisce malamente all’ingerenza del
moralista, il moralista assume il ruolo di vittima che gli appare di nuovo
coerente col sacrificio della Croce, salvo poi defluire
sempre verso il ruolo del carnefice. Potremmo riassumere la dinamica del
moralista attraverso tre ironiche batture: 1) SALVATORE - io sì che sono buono; 2) VITTIMA - io sì che sono incompreso; 3) CARNEFICE - tu sì che sei ingrato!
La tesi del triangolo drammatico,
elaborata da Stephen Karpman nel 1968 all’interno degli studi di analisi transazionale già fondati da
Eric Berne, esprime chiaramente cosa avvenga qualora la transazione/relazione
fra più soggetti smetta di fondarsi sulle rispettive identità reciprocamente
riconosciute (“io sono ok e anche tu
sei ok”, come si dice in gergo analitico) per incardinarsi invece su presunti
ruoli dell’uno rispetto agli altri. Da una parte, il rapporto Creatore/creature
e Salvatore/salvati costringe di fatto i credenti ad interiorizzare delle dinamiche
relazionali fondate sui ruoli: mentre in epoca pre-cristiana i ruoli erano
delle funzioni sociali che non intaccavano la consistenza intrinseca dei
soggetti (cioè: "tu sei mio sottoposto e quindi mi obbedisci sennò ti ammazzo,
ma dalla tua obbedienza dipende solo la tua sopravvivenza e non anche l’idea
che tu, servo, hai di te stesso"), in ambito neotestamentario il ruolo è l’unico
modo, per chiunque (dio compreso), di relazionarsi con l’altro da sé. D’altra parte,
la dinamica "salvatore > vittima > carnefice" ricalca esattamente la missione del Cristo evangelico e canonico, il quale,
come ricorda il Credo niceno-costantinopolitano, anzitutto «per la nostra
salvezza discese dal cielo», quindi «patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu
sepolto» perché, infine «di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti»: c’è un’aderenza perfetta fra i due
sistemi (Karpman e NT), come chiunque può constatare. Vorrei concludere questa mia
“destrutturazione” del Cristianesimo, realizzata in dodici articoli (alcuni dei
quali dipanati in più parti), osservando che il problema fondamentale del
Cristo neotestamentario sia sostanzialmente il suo monoteismo, più che le
dinamiche illustrate in questa sede: ci sono due fatti, a questo riguardo,
da tenere in considerazione. Per prima cosa, vorrei fare notare come siano comuni
le due seguenti esperienze: 1) non è possibile espandersi verso il mondo senza,
contemporaneamente, lasciare che il mondo si espanda verso di sé, il ché
starebbe a significare che, per non chiudersi nell’autoreferenzialità ed
implodere in essa, aprirsi alle istanze dell’altro come il Cristo che nel mito
si dona per gli uomini, è un’esigenza ineliminabile; 2) coerentemente, non è
possibile aprirsi agli altri senza sacrificare qualcosa di sé e anzi, quanto
più ci si apre agli altri per non farsi schiavi della propria miopia
autoreferenziale, tanto più alto risulta il prezzo da pagare in termini
personali. In seconda istanza, vorrei fare notare il fatto che ogni religione precristiana
risulta dotata di un pantheon, il
quale è preposto ad illustrare e personificare tutte quelle energie che, nel
mondo dei fenomeni, precedono ed eccedono l’esperienza del singolo uomo,
condizionandola, ma anche sostenendola. Se il Cristo del NT convivesse con altre istanze (guerra, desiderio, saggezza, maternità ecc.) in un pantheon esteso, anziché ridurre a sé ed al proprio dolore tutta quanta l’esperienza esistenziale umana, egli potrebbe benissimo rappresentare lecitamente quel sacrificio di cui s’è detto e che, per l’appunto, è oggettivamente una parte importante del percorso umano. Si potrà dire che anche il Cristianesimo paolino e quindi cattolico, abbia nozione di quelle virtù e di quelle forze che i pantheon precristiani suddividono in diverse divinità: si pensi soltanto alla maternità di Maria, alle virtù teologali e cardinali, alle tre persone divine, ai sette doni dello Spirito Santo, ecc. Nelle religioni precristiane, tuttavia, ciò che il cristianesimo riduce a meri accessorî dell’unico dio, sono invece a loro volta déi, ovvero forze senzienti ed espressive anche di una certa contrapposizione delle une contro le altre.
Nel Cristianesimo paolino ogni forza, ogni
pulsione, ogni dono, ogni prerogativa umana, ogni energia cosmica, è unilateralmente
soggiacente al dio per il fine ultimo di permettere al credente di obbedirgli
più perfettamente; il sacrificio dell’uomo smette di essere un’occasione di
uscita dall’autoreferenzialità, per diventare uno strumento di quell’unica
volontà, diversa dalla propria, dalla quale l’uomo può sperare d’essere
mantenuto in essere; la pluralità delle forze smette d’essere una vera
pluralità utile affinché l’uomo, con la sua scelta, possa decidere in che
termini costruirsi: poiché il problema, per il cristiano, in realtà non si pone, essendo l’obbedienza l’obiettivo da considerarsi unico e totalizzante per tutto quanto il “creato”. L’essenza stessa di ogni monoteismo storico è l’associazione fra unilateralità dei punti di vista ed aspettativa proiettata esternamente a sé: qualunque monoteista, da un lato può considerare bene solo ciò che il suo dio abbia apprezzato; dall’altro, si aspetta una salvezza sempre proveniente da una legge esterna e mai frutto della propria autonomia: si aspetta, insomma, una salvezza intesa solo come frutto inevitabile della propria obbedienza codificata in un ruolo ("il prete è salvo se vive così, la moglie è salva se vive cosà", ecc.). L'idea di stabilire delle utilità in base a degli obiettivi, l'idea di adeguarsi alle circostanze a prescindere dall'opinione o l'idea di non dovere niente a nessuno e di non avere diritto di pretendere niente da nessuno, sono costitutivamente estranee al monoteista. Il meccanismo drammatico definito da Karpman si attua proprio a causa del tradimento delle proprie aspettative sull’altro: “ma come: io sono così buono e tu non apprezzi? Ma come: io sono così obbediente e non vengo premiato?” Essendo il “bene” una questione definita aprioristicamente dal dio, il monoteista non può essere nel dubbio (direbbe Kierkegaard: “egli è credente appunto perché preferisce le certezze pre-confezionate, alla libertà”): se obbedisce all’idea religiosa di bene, egli è, necessariamente, dalla parte della ragione. Se il credente è obbediente e l’altro non lo premia con la propria riconoscenza, ecco che il primo si sente anzitutto vittima incompresa degli eventi e quindi si trasforma in giudice del suo presunto aggressore: “sei un egoista, sei in preda al demònio!”, lo apostrofa. Il dialogo è impossibile, col monoteista, così com’è impossibile un rapporto paritetico da persona a persona: nella migliore delle ipotesi, si può instaurare con lui una relazione di reciproca sudditanza in cui ciascuno conchiuso nel proprio ruolo, di volta in volta, abbia ragione dell’altro non in virtù della ragionevolezza della propria tesi, ma in forza della morale del padrone ("se fai -ruolo strumentale alla salvezza ambita- il genitore, hai ragione finché sei -dal momento che se fai diversamente da ciò che sei, non hai 'fede'- così; se fai la fidanzata, hai ragione finché sei così; se fai l'alunno, hai ragione finché sei cosà", ecc.). Tra monoteisti, non ha ragione chi propone un percorso coerente con un obiettivo specifico: tra monoteisti, ha ragione chi obbedisce al dio; tra loro, ha ragione chi s’inginocchia di più.
Un interessantissimo contributo alla riflessione su "Cristianesimo e simbolo", ovvero sulla relazione fra leggenda del Graal e mitologie precristiane: https://www.youtube.com/watch?v=LWqfHcdQHR4&t=2034s
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