Nel primo ciclo di dodici articoli, ho voluto dimostrare
sostanzialmente una sola cosa, anche se espressa in tre contesti fondamentali:
1) l’effettiva genesi della dottrina neotestamentaria, ad opera di Paolo di
Tarso, costringe a considerare come sostanzialmente mitica la narrazione stessa
del NT; 2) gli elementi mitologici, chiaramente confluiti nei racconti evangelici
da religioni precedenti, costringono a riconoscere la necessità d’interpretare
simbolicamente –ma pur sempre coerentemente con la narrazione letterale- i
Vangeli: 3) da un punto di vista religioso, la lettura simbolica della mitologia
cristiana –e della relativa dottrina- può darsi secondo due modalità
fondamentali, che sono quella dell’esoterismo
cristiano e quella del Cristianesimo
esoterico. Per esoterismo cristiano intendo quella prassi teologica per cui
il credente, dopo avere accolto la narrazione evangelica in senso letterale, s’incammina
tra i testi alla scoperta dei continui rimandi simbolici con cui temi, vicende
e personaggi, si richiamano gli uni gli altri: ecco allora che il Battesimo (cfr.
Mc I, 9-11) è prefigurato nel Diluvio Universale (cfr. Gn VI, 9 – IX, 19) o che
l’evento della Pentecoste (cfr. At II, 1-11) “ricompone” la dispersione occorsa
attorno alla Torre di Babele (cfr. Gn XI, 1-9). L’esoterismo cristiano è una
prassi che fu, un tempo, interna alla disciplina stessa della Chiesa: fino al V
secolo d.C., in un periodo in cui la Cristianità, anche quando divenuta
religione di Stato, non godeva ancora dell’egemonia e di una presenza per così
dire “tradizionale” sui territori imperiali romani, le parti più simboliche dell’insegnamento
ai neofiti venivano concesse ai catecumeni solo dopo l’iniziazione battesimale,
attraverso una comunicazione chiamata “mistagogia”. L’esoterismo cristiano
implica una permanenza nella condizione di credente in una Chiesa (si sarà, di
volta in volta, “esoteristi cattolici”, “esoteristi anglicani”, ecc.), mentre
il Cristianesimo esoterico coinvolge la mitologia evangelica e le dottrine
delle Chiese storiche in un contesto di ricerca ben più ampio di loro e sviluppante
una nuova metafisica, l’espressione di nuovi simboli, l’accesso a fonti non
canoniche e tutto un lavoro filologico-analitico teso a sviscerare la polisemia
di ogni elemento considerato: se un esoterista cristiano, pure informato delle “analogie”
degli elementi cristiani coi culti precedenti, vedrà in Maria, ad esempio,
sostanzialmente un’immagine della Chiesa, il cristiano esoterico non potrà,
attorno a quella stessa figura, non riflettere anche su Sophia, su Iside e la Grande Madre, sull’Uovo Cosmico o sulla barca
che, platonicamente, permetta di affrontare i flutti del reale (Fedone XXXV). Ora, nell’ultimo
articolo ho riflettuto sulle conseguenze a mio avviso derivanti dall’impostazione
mentale del devoto cristiano, ovvero anche del mistagogo o dell’esoterista credenti:
in questo articolo intendo porre le basi per il discorso successivo, cioè, come
anticipato, per la ricontestualizzazione simbolica della dottrina cattolica in
un Cristianesimo esoterico che ne colga gli elementi di continuità
con la sapienza antica, disgiungendoli dall’ingombrante retaggio coercitivo del
monoteismo ebraico. Se abbiamo affrontato la genesi delle Scritture e
della loro dottrina, da ora affronteremo l’evoluzione dei simboli
nelle epoche successive, onde cogliere in essi quel filo d’oro per il quale la spiritualità occidentale s’è districata
nel labirinto della Storia.
Nell’ultimo articolo, ho individuato il “punto nodale” della
dottrina cristiana nel suo monoteismo, il quale gli deriva dall’Ebraismo nella
misura in cui quest’ultimo culto fu creazionista:
ma andiamo con ordine. Come già spiegato, è l’idea stessa di un creatore a
determinare il monoteismo, a tal punto che lo determinerebbe anche qualora il
creatore non fosse uno, ma un gruppo. E’ l’idea che la mia esistenza sia dovuta
all’atto volitivo di qualcun altro, a rendermi dipendente da quel qualcuno, perché
quell’idea fa di me un “nulla”, un qualcosa che non trova consistenza in se stesso, ma soltanto nella volontà creatrice.
Ora, tre cose: la prima è che, dal momento che esiste una volontà creatrice
esterna a me, io sono ostaggio di quella volontà creatrice e sono costretto da
essa ad un “monoteismo ontologico”, per così dire, anche qualora i creatori
fossero più di uno. Se fossi l’oggetto di una creazione dal nulla, allora l’unica
vera forza a cui sarei soggetto e l’unica vera forza a cui potrei appellarmi
per sussistere, sarebbe appunto la volontà del/dei creatore/i; non mi sarebbe
possibile alcuna progettazione di me, in quanto la mia stessa libertà sarebbe
assoggettata alla volontà di cui sarei una creatura. La seconda cosa è che,
nonostante quanto appena detto, se l’evento di una creazione fosse non dico stabilito,
ma perlomeno riconoscibile come l’ipotesi più ragionevole, ci si potrebbe fare
ben poco: piacesse o non piacesse, ci troveremmo tutti quanti a dovere vivere
assoggettati alla volontà del padrone e non potremmo considerare noi stessi,
senza considerare anche questa nostra condizione. Il punto è che la creazione non è logica, perché all’Essere non può
darsi alcuna alternativa e neppure quella del “nulla” da cui la creazione stessa
sarebbe dovuta emergere. L’Essere è tutto ciò che c’è, perché di tutto ciò che
c’è, si dice appunto che c’è; per
definizione, esiste tutto ciò che in qualche forma (fosse anche solo come ente
di pensiero) ed in qualche tempo ed in qualche luogo, sia da qualcuno
sperimentabile: questo non solo impedisce al nulla di esistere (impedendo
quindi il verificarsi di una creazione dal nulla), ma implica necessariamente
anche che i senzienti, cioè coloro che siano capaci di scorgere le cose che
esistono, siano parte integrante dell’interna struttura (quindi relazionale) dell’Essere,
assieme alle cose stesse. L’Essere, nella sua costituzione eterna e
relazionale, articolata in oggetti conoscibili e soggetti conoscenti, è eterno
ed onnipervasivo: l’Essere è Uno ed è, costituzionalmente, ciascun soggetto e
ciascun oggetto in cui si esprime la sua struttura relazionale; gli enti,
soggetti ed oggetti, sono l’Essere ciascuno integralmente e ciascuno per se
stesso, senza essere creabili, ma essendo eternamente le parti e l’interezza
dell’Essere. Si potrebbe contestare la validità del principio di non
contraddizione, ma, per dirla con Cartesio, se esiste ciò ch’è percepibile ed
io percepisco me stesso che pensa, non posso che esistere anche qualora tutto
quanto, attorno a me, fosse illusione; se percependo me stesso io fossi in
grado di percepire erroneamente, non si capirebbe più chi starebbe percependo
cosa: dal momento che io percepisco me stesso, ciò dimostra non solo che io
esisto, ma anche che non posso percepire che il vero (ovvero la validità del
principio di non contraddizione), perché se potessi essere illuso circa la mia stessa
esistenza e quindi percepirmi pure non esistendo, non si capisce chi o cosa
starebbe vivendo quell’illusione; se qualche volta dimostro di fraintendere la
realtà, questo non dimostra che io sbagli a percepire: significa
semplicemente che, nel tempo, la verità colta non può essere colta tutta quanta
insieme, ma come un “dispiegarsi” parallelo a quello della coscienza.
Se la prima cosa da dire, quindi, è che una creazione dal nulla equivarrebbe
sempre ad una condizione di schiavitù,
la seconda è che una creazione del genere non pare logicamente possibile: la
terza cosa, invece, sta nel ricordare che in ambito Ebraico l’idea di creazione
dal nulla non è originaria, ma tarda e mutuata dai cristiani, i quali la
introdussero proprio per rifondare la sottomissione al loro dio, su presupposti
filosofici, distinti da quelli per cui gli ebrei, prima di loro, si erano
sottomessi. Gli ebrei si riferiscono ad un dio che camminò in mezzo al loro
popolo, generando in esso il timore dell’annientamento nel caso in cui avesse
mancato ai suoi dettami. Lungi dal concepire una qualunque forma di sussistenza
dopo la morte, l’Ebraismo antico concepiva la redenzione divina soltanto nei
termini di “passare sopra” del dio alle mancanze del popolo: il popolo diserta,
il dio s’infuria, poi il popolo si ravvede, ripara ed il dio si placa; lo
stesso episodio biblico della cosiddetta “creazione” (cfr. Gn I, 1-2) utilizza
il verbo barà, che in ebraico sta ad
indicare una manipolazione su contesti preesistenti (viene usato nella Bibbia,
ad esempio, per indicare il disboscamento di un’area da rendere edificabile) e
mai qualcosa di astratto come una produzione ex nihilo. Mancando ai cristiani l’esperienza punitiva di un dio
concreto che marcia in mezzo al popolo e dovendo in qualche modo dimostrare l’esigenza
normativa degli insegnamenti di Gesù, ecco che Gesù viene non più solo
ascoltato, ma adorato ed adorato in quanto una cosa sola col Padre, il quale, a
sua volta, è la volontà che tutto regge e fuori della quale esiste solo la
perdizione e la morte. Come abbiamo già ampiamente analizzato, Paolo, trovatosi
nell’evidenza di un non ritorno del Messia Gesù, si vede costretto a trasporre
la salvazione in uno spazio metafisico divenuto accessibile proprio grazie al
sacrificio di quel Cristo che in realtà è il dio stesso: nasce il Peccato
Originale come disobbedienza ancestrale e mortifera (giacché la vita umana e l’obbedienza
alla volontà divina sono tutt’uno); il Peccato Originale giustifica la venuta
salvifica del Cristo; Cristo è normativo in quanto dio che opera la salvezza e
dio è normativo in quanto il sussistere degli uomini e la volontà divina sono,
appunto, la stessa cosa, per cui fuori della seconda non si ha che la morte
eterna. Se a tutto ciò si aggiunge il contributo (in diverso grado) neoplatonico di Padri della Chiesa quali Origene e Sant'Agostino, ecco che il "quadro" della frattura fra il creatore e la creatura si va a completare.
Data la situazione originaria della dottrina paolina che informa
le Scritture neotestamentarie, il primo passo per la costruzione di un
Cristianesimo esoterico, giunti a questo punto, è quello di affrontare i
simboli del mito evangelico (prima) e della dottrina impostasi (poi), per se
stessi, ovvero reinserendoli nel contesto che, dagli albori dei tempi, li ha
portati a finire fra le “grinfie” della Chiesa: un po’ come ho già mostrato all’inizio
di questa serie, individuando le radici pre-bibliche e pre-paoline del
Cristianesimo, è necessario cominciare a riconoscere gli usi che determinati
simboli ricevettero nella loro storia, a prescindere dall’uso ecclesiale. Il
secondo passo è quello di confrontare la mitologia canonica con quanto, dai primi
secoli della Chiesa, è giunto fino a noi delle letture alternative della
vicenda del Cristo, come quelle degli eretici citati dai Padri della Chiesa,
piuttosto che quelle emergenti dai testi apocrifi: il fine di questo confronto
è duplice e da una parte riguarda il diverso uso dei simboli e dall’altra, le
diverse metafisiche emergenti dal diverso uso dei medesimi simboli. Il terzo
passo, che in realtà è contestuale ai precedenti, è quello di riflettere su
come le tradizioni religiose abbiano inteso la struttura della realtà
attraverso i loro simboli, considerando contestualmente quale metafisica sia
sostenibile sul piano della ragionevolezza e come questa possa trovar
espressione nei simboli religiosi, così da rendere comunicabile non soltanto il
logos della nuova visione emergente
della realtà, ma anche e soprattutto l’esperienza vitale del percorso
delineantesi. Mi spiego meglio. Poco più sopra, in questa sede, ho esposto
quelli che a parer mio sono gli impedimenti più vistosi alla plausibilità di
una creazione dal nulla ed allo stesso tempo ho spiegato quali conseguenze
implichi invece il credervi. Nello studiare le diverse correnti cristiane, alla
luce dei simboli e dei miti utilizzati da ciascuna di esse ed alla luce di come
esse stesse abbiano usato quei precisi simboli e quei precisi miti, io posso
farmi un’idea delle diverse visioni del mondo attraverso il paradigma
metafisico che mi sono dato: da una parte, la mia riflessione sull’inconsistenza
della creazione mi porterà a rileggere le diverse correnti con questo grande “filtro”;
dall’altro, qualora trovassi simboli e miti cristiani capaci di reggere la mia
metafisica, mi troverei nella condizione di integrare quest’ultima proprio
grazie alle sfumature esistenziali fornitemi da quei simboli e da quei miti. Se
volessi rileggere esotericamente il mito della creazione dell’AT, dopo essermi
studiato tutti i precedenti storici di quel mito onde capirne lo specifico uso
fattone nella Bibbia, da una parte non potrei che considerare la creazione
stessa come un simbolo riguardante il piano manifesto della realtà,
conformemente all’eternità dell’Essere che ho preventivamente riconosciuto come
imprescindibile; d’altra parte, il ricomprendere l’eternità dell’Essere
attraverso quel mito, mi permetterebbe di riflettere su tutta una serie di sfumature
e ricomprensioni cui non avrei acceduto, restando chiuso del mio preconcetto. Da
questa disamina, mi pare emerga chiaramente, anzitutto, la risposta al “come mai” così tante
persone si dedichino alle forme canoniche di Cristianesimo e così poche,
invece, si dedichino alla realizzazione di un percorso spirituale che renda
conto di sé davanti all’intelligenza del devoto: oggi più che ieri, l’esoterismo
è tale, anzitutto, a causa della fatica e delle continue “morti a se stessi” che
comportano il suo percorso. Ciò che farò in questa serie, dal prossimo articolo
in avanti, sarà pertanto l’articolazione di un Cristianesimo esoterico secondo
i tre passi appena definiti; partendo dall’idea di eternità dell’Essere ed affrontando
differenti simboli da differenti correnti cristiane, con la loro storia e la
loro ricontestualizzazione attorno alla figura di Gesù, proverò a fornire al
lettore alcuni elementi utili a colui che vorrà perseguire una visione
religiosa non di tipo rivelato dogmatico, ma sapienziale per quanto riguarda la ricerca scientifica dei dati e
la logica della loro ricomposizione, nonché empatica
per quanto riguarda la percezione di sé verso la realtà.