In una serie di precedenti
articoli (1, 2, 3, 4), proposi una lettura simbolica dell’altare medievale cattolico, alla
luce di nozioni esoteriche di quell’Architettura Sacra (“come in cielo, così nel mattone”) che, oggigiorno, è
volgarmente stata sostituita dalla mera architettura religiosa (costruzione
finalizzata a raduni cultuali): lo potei fare certamente a “tappe”, onde
introdurre progressivamente alla problematica, ma senza l’esigenza di fornire
troppi riferimenti di carattere filosofico, storico-archeologico e filologico,
oltre che senza il bisogno di sconfessare la lettera della dottrina, per procedere nell’esposizione. Volendo,
col presente articolo, inaugurare una oramai ritenuta doverosa serie di post,
finalizzata ad affrontare in modo sistematico
l’esigenza d’una interpretazione simbolica della dottrina cattolica, mi vedo costretto
anche ad affinare i miei riferimenti alle fonti e la mia sfrontatezza, poiché,
sia chiaro, la lettera della dottrina dovrà essere demolita, dati alla mano, “pezzo
per pezzo”. Comincerò con l’affrontare la questione della pertinenza di una
lettura simbolica delle Scritture e dell’intera dottrina Cattolica.
Mauro Biglino, nella conferenza
che tenne a Milano il 6 Marzo 2016 assieme al Rabbino Capo di Torino ed ad alti
esponenti della Teologia Cattolica e Riformata, sollevò ai suoi interlocutori un
problema fondamentale: qual è il criterio per stabilire, rispetto alle Sacre
Scritture, quali versetti vadano interpretati
simbolicamente e quali, invece, andrebbero presi alla lettera? La domanda è
tutt’altro che sciocca e mise in non poco imbarazzo gli astanti: se le
Scritture non vanno interpretate
simbolicamente, come sostiene la Chiesa Valdese, allora diventa arduo
giustificare tutti quegli innumerevoli passi biblici che non trovano riscontro
nella ricerca storica, per la quale, ad esempio, pare assai improbabile che
personaggi quali Abramo siano realmente esistiti; ci si troverebbe, inoltre, costretti
a credere che il mondo sia stato creato in sei giorni e circa quattromila anni
fa, come di fatto asseriscono i Testimoni di Geova ed i creazionisti evangelici
americani. Per contro, se si ammettesse che le Scritture vadano interpretate
simbolicamente, allora bisognerebbe paventare l’ipotesi che anche la cosiddetta
“creazione”, nonché i miracoli di Gesù e la Sua Stessa supposta "figliolanza divina",
andrebbero non presi letteralmente,
ma come simbolo di realtà più "sottili", magari di natura filosofica. I tre autori qui ritenuti fondamentali
per dirimere la suddetta questione sono il teologo francescano Guglielmo di Ockham (sec. XIII), il teologo luterano Rudolf Bultmann (sec. XX) ed il cattolico
Hugo Rahner (+ 1968, fratello di mons. Karl Rahner, questi Cardinale e stimato
teologo dell’attuale Chiesa Romana).
Guglielmo da Ockham è un
personaggio a mio avviso discutibile per un’infinità di motivi, tra i quali, il
più grave, è l’attribuzione della realtà ad un atto volitivo di Dio. Se la
realtà è un atto arbitrario della
volontà di Dio, essa non è suscettibile di alcuna indagine filosofica, giacché
andrebbe a decadere ogni principio di legame logico fra i diversi fenomeni
esistenti (Dio potrebbe avere scelto
di creare una cosa e contemporaneamente
un’altra con essa contraddittoria). Per contro a ciò, i punti di forza del
pensiero di Ockham sono a mio avviso due, ovvero l’indipendenza della fede
dalla ragione ed il suo famoso “rasoio”, come conseguenza inevitabile dei
precedenti assunti. Se Dio agisce nel mondo in modo arbitrario, ciò che vediamo
è ciò che vediamo e ciò che Dio ci chiede di credere è ciò che Dio ci chiede di
credere; se ciò che vediamo e ciò che Dio ci chiede di credere non sono
necessariamente connessi da alcuna logica, allora quando vediamo qualcosa, non
pare debba esserci alcun motivo per interpretarla in modo diverso da come
appare (“rasoio”), ovvero: l’ipotesi più semplice riguardo un fenomeno è sempre
la preferibile. Non condivido affatto le tesi nominaliste (“ogni cosa è a se
stante”) del francescano inglese in questione, eppure la sua teologia apre il
varco all’ipotesi, attualmente abbracciata in modo ufficiale dalla Chiesa
Cattolica (lo testimonia qualunque testo
per l’insegnamento della Religione Cattolica nelle scuole primarie), che
Scienza e Fede non si contraddicano affatto, poiché, se la prima disciplina
risponde alla domanda “come?” (modalità dell’Essere), la seconda risponderebbe
a quella “perché?” (significato dell’Essere).
Seguendo per certi aspetti la
linea inaugurata da Ockham, il tedesco Bultmann, nel suo testo fondamentale Nuovo Testamento e mitologia (1941),
propone una lettura del Vangelo che separa il Gesù storico dal Gesù della fede,
così da assoggettare il credente soltanto al secondo. La teoria di Bultmann,
anch’essa attualmente accolta dal Cattolicesimo, è che i Vangeli sarebbero un’opera
teologica e non storica, per cui sarebbero tesi, attraverso immagini per così
dire “poetiche”, a trasmettere, alle nuove generazioni di credenti, tutto l’impatto
rivoluzionario che l’esperienza del Cristo avrebbe sortito sui suoi testimoni
diretti. Hugo Rahner, nel suo importantissimo Miti greci nell’interpretazione cristiana, segue a sua volta il “filo
rosso” che va da Ockham a Bultmann, asserendo che i testimoni diretti di Gesù
avrebbero adottato immagini tipiche del loro contesto culturale per riuscire a
trasmettere simbolicamente la ricchezza della loro esperienza: da un lato,
risignificando completamente l’idea di “mito”, ora asservito alla trasmissione
di un’esperienza storica e non filosofica; dall’altro, trasfigurando l’esperienza
storica in mito, appunto, al fine di comunicare la prima, per così dire, “su
più livelli”, preferibilmente teologici anziché cronachistici. La Chiesa
Cattolica, fino all’immediato secondo dopoguerra, sosteneva, nella Costituzione
Apostolica Dei Filius (Pio XI), il
rapporto “ancillare” della ragione rispetto alla cosiddetta "fede" (per quanto concerne l'adesione pedissequa ad una dottrina, sarebbe sempre meglio, a mio avviso, parlare di "credenza", dal momento che il termine "fede" rimanda ad una duplice dimensione di fiducia e fedeltà verso un'esperienza od un rapporto vissuti in proprio e non ad una serie di nozioni assunte aprioristicamente), nel senso: la fede non può sconfessare la ragione, ma apporta ad essa alcuni contributi,
propriamente dovuti al carattere rivelato del Cristianesimo, non attingibili
diversamente (come a dire: certe cose dell’Altro le si può conoscere solo se l’altro
le palesa da sé e Dio non fa eccezione a questa regola). Dopo il Concilio
Vaticano II (1962-1965), la Chiesa ritiene che:
«Poiché Dio nella sacra
Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della
sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve
ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire e
a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole. Per ricavare l'intenzione
degli agiografi, si deve tener conto fra l'altro anche dei generi letterari. La
verità infatti viene diversamente proposta ed espressa in testi in vario modo
storici, o profetici, o poetici, o anche in altri generi di espressione. È
necessario adunque che l'interprete ricerchi il senso che l'agiografo in
determinate circostanze, secondo la condizione del suo tempo e della sua
cultura, per mezzo dei generi letterari allora in uso, intendeva esprimere ed
ha di fatto espresso. Per comprendere infatti in maniera esatta ciò che
l'autore sacro volle asserire nello scrivere, si deve far debita attenzione sia
agli abituali e originali modi di sentire, di esprimersi e di raccontare
vigenti ai tempi dell'agiografo, sia a quelli che nei vari luoghi erano allora
in uso nei rapporti umani. Perciò, dovendo la sacra Scrittura esser letta e
interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta,
per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non
minore diligenza al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura, tenuto debito
conto della viva tradizione di tutta la Chiesa e dell'analogia della fede» (Dei Verbum, III, 12).
Ciò che la Chiesa asserisce oggi,
insomma, è la necessità, da un lato, di contestualizzare il Depositum Fidei nell’ambito dei codici
comunicativi dell’epoca e dei luoghi in cui fu formulato (cfr. con H. Rahner);
dall’altro, l’importanza di spiegare la dottrina con la dottrina e le Scritture
con le Scritture, nel senso di sottolineare l’importanza di comprendere il messaggio aldilà della
lettera, tramite un lavoro di sintesi che riassuma le “apparenti”
contraddizioni che i singoli termini di fede potrebbero rivelare, se presi
ciascuno contro gli altri. Da questa introduttiva trattazione, traggo le
semplici osservazioni che seguono: 1) non pare affatto necessario scomodare un’eventuale
lettura simbolica di un elemento di una dottrina, nel caso in cui esso o non includa
fatti “miracolosi” o non includa corrispondenze evidenti con miti preesistenti;
2) appare del tutto legittimo avanzare un’ipotesi di lettura simbolica di
elementi della dottrina, qualora essi presentino fatti non giustificabili sul
piano esperienziale (“miracoli”) o storico (cioè non suffragati da alcuna prova
archeologica e/o filologica e/od in qualche modo documentale) oppure nel caso
in cui essi evidenzino connessioni con mitologie ad essi preesistenti; date le
ultime considerazioni, nel prossimo articolo procederò anzitutto nel proporre
un’illustrazione delle ipotetiche fonti culturali del Cristianesimo.
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