In un precedente articolo sul
significato metafisico del male si è mostrato, indirettamente, come la dottrina
del cosiddetto “peccato originale” abbia una qualche valenza solo sul piano exoterico
(cioè pubblico, ovvero adatto anche ai livelli “catechistici” e più semplici
dell’iniziazione alla fede): l’idea d’incorrere
in un guaio ereditario, nel
perseguire la conoscenza, nasconderebbe infatti significati più sottili. Non è possibile conoscere senza
“scomporre”, per così dire, l’unità dell’Essere in coppie polari di termini
contrapposti (facendo salve tutte le “sfumature” intercorrenti fra un polo e
l’altro di ogni sistema duale): non è
possibile conoscere se non per comparazione, perché non è possibile conoscere
il bianco senza il nero o il basso senza l’alto. Incontrando la realtà e la
bontà dell’esistere, l’uomo, inevitabilmente, accoglie o rifiuta gli essenti (le
cose) che entrano nella sua esperienza; l’atto stesso di riconoscere il bene e
l’Essere, esige necessariamente una comparazione con qualcosa che sia vissuto
come un apparente male e un apparente “non-essere”. A questo punto dovrebbero
sorgere spontanee una considerazione e quindi almeno un paio di domande: se la
dottrina del “peccato originale” educe miticamente
s’una condizione “strutturale” della realtà («conoscenza e “produzione” del male sono indissolubilmente
legate») e non su una colpa storica da riparare, allora le attuali
dottrine cristiane della salvezza potrebbero avere un qualche senso nel solo
caso in cui anch’esse venissero lette non in senso letterale («qualcuno ha sbagliato e qualcuno
deve pagare»), ma in un
qualche altro modo esoterico e metafisico; in che termini, dunque,
l’inevitabilità metafisica di un “male” implicito nella conoscenza dovrebbe
costituire una responsabilità personale
del cristiano? In che termini, dunque, la dottrina salvifica inerente il
sacrificio del Cristo insegnerebbe una qualche verità?
Innanzitutto sarà opportuno
avanzare alcune considerazioni riguardo la soteriologia
(cioè la dottrina della Salvezza) exoterica cristiana, dal momento che esistono
alcune differenze concernenti le varie professioni di questo culto. L’interpretazione
salvifica della vita di Gesù è opera
di Paolo, il quale da un lato relativizza la biografia del suddetto rabbino
ebreo morto sotto Ponzio Pilato (nel
senso che Paolo se ne disinteressa totalmente e non sarebbe potuto essere
diversamente, visto che secondo le fonti non ne sapeva nulla) e dall’altra
sposta l’attenzione dei devoti dalla sequela del messaggio al culto della
persona (persona per di più astratta da ogni accenno biografico, come si diceva):
in questo modo Paolo, erede delle contaminazioni ellenizzanti del mondo
farisaico ed uomo oggetto di sospetti circa suoi contatti con l’ideologo romano
Seneca, fonda una nuova religione che si prefigge come fine, sul piano
exoterico, la salvezza dal peccato originale commesso dai progenitori. Come ricorda
il grande biblista (autore di dizionari d’ebraico biblico) valdese Daniele Garrone (e come sempre hanno affermato
gli esegeti ebrei), non esiste in realtà alcuna relazione necessaria fra
l’episodio cosiddetto “della caduta” e una nozione di “condanna ereditaria” da
espiarsi tramite un salvatore: tralasciando pertanto tutte quelle correnti
cristiane che pretendono di correlare la caduta e la salvezza tramite una
lettura sedicente “letterale” delle Scritture, ci si concentrerà ora, a
seguire, sulla soteriologia così com’è insegnata e “ragionata” sotto l’autorità
del magistero Cattolico.
La dottrina cattolica pubblica riguardo la salvezza
(articolata nel Catechismo della Chiesa
Cattolica ai punti 599-623 ed in particolar modo ai pp. 615 e 618) enuncia
che il Salvatore produce il riavvicinamento, tra gli uomini e Dio, attraverso
la sostituzione della sua costosa
obbedienza all’originaria disobbedienza
umana. In quanto vero uomo, Gesù sarebbe stato in grado d’attribuire alla
natura umana la sua propria obbedienza; in quanto vero dio, Cristo dà una
portata universale al proprio operato, tale quale fu la portata dell’agire dei
progenitori, anch’essi “tutt’uno” col “sentire” di Dio, prima di peccare. Sulla
scorta dell’ontologia tomista si potrebbe aggiungere che, essendo Dio l’Essere e cioè il Bene stesso, per la
dottrina cattolica il solo porsi in antagonismo con Lui significa negare l’intera
realtà (e da qui la schiavitù subìta, secondo la dottrina, dal creato a seguito
dell’errore umano) oltreché la propria e perciò negarsi la “connessione” ad ogni
bene: disobbedire a Dio sarebbe infatti il
Male in sé, poiché Dio sarebbe il Bene
in sé. Gesù Cristo, compiendo un atto insuperabile
(la cessione incondizionata della
propria esistenza materiale) e universale
di obbedienza a Dio, per conto del genere umano, sottrarrebbe quest’ultimo alla
“contraddizione ontologica” in cui si sarebbe, appunto, precedentemente posto:
quella per cui, avendo confuso la personale
esperienza con la pienezza dell’Essere, si sarebbe ridotto ad una forma (personalità umana) sussistente in
antagonismo (sul piano soggettivo) alla propria sostanza (Essere divino). Come si potrà notare, la dottrina
pubblica della Chiesa, sebbene già molto profonda metafisicamente sul piano
teologico, manca, com’esposta finora, di considerare alcuni elementi che paiono
invece fondamentali nel mito biblico, come la presenza del serpente e l’oggetto della disobbedienza stessa, cioè
la volontà di conoscere. Il Cattolicesimo Romano pare limitarsi ufficialmente ad associare il serpente
alla tentazione e la conoscenza all’autoreferenzialità (quando non ad un atto
sessuale promiscuo, come fu detto in passato: attribuzione che peraltro, sul
piano simbolico, risulterebbe foriera di “gravi” considerazioni ulteriori). Se
il peccato dell’uomo che si rinnova ad ogni generazione è quello di riconoscere
una consistenza assoluta alla propria esperienza, tale da fargli perdere il
contatto esperienziale tra la propria soggettività storica e l’unità ontologica
e super-individuale del reale, questo accade perché ogni uomo che nasce non può
rendersi conto dell’Essere se non per comparazione con qualcosa che avverta
contrario ad esso. Incontrando ogni cosa per la prima volta alla nascita, in
una condizione biologica di bisogno, l’uomo non può che accogliere o rifiutare
ciò di cui fa esperienza; accogliendo o rifiutando ciò che incontra, inevitabilmente secondo il proprio
criterio, l’uomo non può che ridursi a considerarsi il centro del mondo;
finendo inevitabilmente per
collocarsi al centro del proprio mondo d’esperienze e di scelte, l’uomo non può che finire col riconoscersi separato da quell’unità
ontologica dell’Essere che, pure se reale e persistente, è fino a quel punto preclusa al suo
sguardo. Quale salvezza aspettarsi dal Cristo?
La costituzione Dei Verbum, espressione del Concilio
Ecumenico Vaticano II, al punto 2 recita
testualmente: « Questa economia della Rivelazione comprende
eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio
nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà
significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il
mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa Rivelazione
manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il
quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione ». Il brano riportato appare di
un’importanza teologica decisiva poiché, superando le astrazioni paoline di cui
già s’è detto, connette le speranze dei cristiani non solo al gesto sacrificale
della Croce -compreso nei termini di un culto alla persona del Salvatore, ma
anche e soprattutto al messaggio considerato tutt’uno col corpus rivelativo del Figlio
di Dio. Se la soteriologia cattolica, sul piano ontologico, illustra la
riconciliazione tra forma e sostanza (tra esperienza
umana ed Essere divino) operata
grazie all’obbedienza fattuale di Gesù Cristo, sul piano dell’autocoscienza
essa annuncia il superamento di ogni prospettiva “materialista” dell’esistere
ed in ciò, anche il superamento di ogni dubbio circa la positività radicale
dell’esistenza. Sul piano exoterico, la dottrina cattolica della salvezza
supera il materialismo annunciando la risurrezione del Salvatore: la realtà è
molto più di quanto gli “occhi della carne” riescano a vedere; nell’annuncio di
un dio che sacrifica il suo più grande bene per l’uomo, la dottrina pubblica
cattolica supera poi ogni dubbio riguardo la sostanziale bontà della vita
umana. Sul piano esoterico, la risurrezione indica il carattere episodico dell’esperienza temporale
entro un ambito più ampio dell’esistere, fornendo quelle “coordinate
d’eternità” alla coscienza umana che possono poi essere già vissute facendo
riferimento agli insegnamenti veri e propri del Maestro; la duplice natura
umana/divina del messia, dal canto suo, educa al principio d’analogia. Si va ad
istituire un percorso d’iniziazione per il quale il credente, passando per
l’individuazione personale (cioè per l’emergere di una sua consapevolezza
identitaria e soggettiva) nel quadro dualista (comparativo e temporale) dell’esperienza
materiale, può vedersi riaprire i propri orizzonti sull’unità dell’Essere: non
tanto nella forma originaria della indistinzione tra sé ed Esso, quanto in
quella post-soggettiva della Nuova Alleanza,
suggerita dal concetto di Comunione. Essendo
la vita materiale un periodo integrante
di ciò che ogni ente ed uomo è come soggetto
eterno, un riconfigurarsi del proprio status
nel contesto temporale implica un’evoluzione soggettiva anche sul piano di
ciò che ciascuno è nell’orizzonte dell’eternità.
Riassumendo, sul piano exoterico il Cristo salva sostituendo la
propria universale obbedienza all’universale disobbedienza dei progenitori, in
questo modo sottraendo l’uomo alla condizione d’isolamento e di smarrimento in
cui s’era da solo “ficcato”: contestualmente a tale recupero ad opera di Dio, l’uomo
vivrà la propria emancipazione dall’isolamento grazie ad un agire concretamente teso alla relazione
costruttiva con se stesso, con la realtà, con gli altri e con Dio (questo è il
senso del ruolo delle proprie “buone” azioni nella economia della salvezza). Sul piano esoterico ed a causa della
relazione ontologica che vige fra realtà e coscienza e fra questa e l’eterno, l’uomo,
accogliendo (in un primo tempo ancora
dualisticamente, in termini di preferenza
personale) la rivelazione, si trova a vivere in una nuova
realtà temporale ed ontologica (i “cieli nuovi e terra nuova” della
dottrina pubblica) a causa del rinnovamento che, nella propria coscienza, si è
prodotto come effetto di una inedita autocomprensione nei riguardi
dell’eternità, unità e bontà dell’Essere.
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