“Andate a imparare che cosa vuol dire:
« Misericordia io voglio e non sacrificio »”
(MATTEO IX, 13)
Il dolore non
può essere superato, non può essere emendato: non può essere evitato,
soprattutto. Sono qualcuno, separato dal resto delle cose da una vita, una
corporeità, una coscienza che mi sono proprie: eppure né la mia vita, né il mio
corpo, né la mia coscienza possono prescindere da ciò che il mondo e gli altri
hanno fatto di me (e fanno) di me, con e soprattutto senza il mio consenso. Sono
“io” e sono gli altri che mi fanno, entrambe le cose: di certo soffro quando ho
bisogno del riconoscimento degli altri, eppure quel bisogno è costitutivo di
ciò che sono. Gli altri, del resto, hanno il mio stesso bisogno, ma nessun
vincolo ad appagare il mio: se lo fanno, è pura grazia.
Ciò
nonostante, non ha alcun senso provare odio o disprezzo per il mondo e per gli
altri, perché tutti sono ciò che sono; neppure ha senso provare euforia davanti al
mondo che risponde al bisogno, perché per ogni bisogno corrisposto ne esistono
mille ancora inappagati. Per il mondo e per gli altri e finanche per Dio stesso
che tutto (dicono) permette, non posso, ragionevolmente, che provare misericordia: una misericordia grata per
ogni cosa bella che c’è, ma sempre sporca per tutto il dolore; una misericordia
affettuosa, ma che non perde la sua tristezza neppure davanti alla grazia che,
con potenza, pure costantemente “irrompe”.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti,
Mondadori, Trento 2013.
Nessun commento:
Posta un commento