« La tua scelta è il
tuo pregiudizio »
(KRISHNAMURTI)
Ogni uomo è
fedele a qualcosa, perché ogni uomo affida a qualcosa la continuità, nel
divenire delle cose e di se stesso, del suo riconoscersi come “io”. Essere
fedeli, pertanto, è il tentativo di salvaguardarsi un volto entro qualcosa di
esterno a sé: l’oggetto della fedeltà è il “tesoro” nel quale l’uomo ripone il
suo “cuore”. Essere fedeli, a qualcosa o qualcuno, significa scegliersi un
punto di vista ed identificarsi con esso; identificarsi con un punto di vista
significa scegliersi un pregiudizio; scegliersi un pregiudizio significa
chiudersi alla realtà che col suo nuovo
viene incontro; chiudersi alla realtà significa ridurre il mondo alla propria
misura, la quale peraltro diventa, così, sempre più “piccola”.
La fedeltà fa
sempre seguito alla scoperta di un valore, ma poi cristallizza quel valore in
qualcosa di morto, qualcosa che viene sottratto alle “possibilità di nuovo” del
reale. La fedeltà rassicura il devoto su se stesso, ma lo fa al prezzo della
sua vitalità, del suo essere persona, del suo esprimersi morale. Questo è, in
prima istanza, vero sempre, anche quando la fedeltà è rivolta alla ricerca di
uno sguardo più ampio verso il reale: poi è vero anche che una fedeltà distinta,
riposta in oggetti diversi, conduce pure a sentieri diversi. La fedeltà è il
prodotto di un uomo che si identifica nella propria coscienza, ossia che si
riduce ad una propria “funzione”: l’uomo integrale vive anche “sulla propria
carne” le esperienze, così come vive anche nel corpo le sollecitazioni e le
novità del reale.
« Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà;
ma chi avrà perduto la propria vita per amor
mio, la salverà »
(LUCA IX, 24)
L’alternativa
alla fedeltà è la sensazione, il
lasciarsi travolgere da tutto ciò che di volta in volta si incontra e si vive:
il che finisce col significare, nei fatti, il ridurre il mondo a “campo di
ricerca” del proprio appagamento. Come uscire dal terribile dualismo (dalle
infinite sfumature intermedie) tra la fedeltà e la sensazione, tra la riduzione
del mondo a sé tramite le idee dell’IO e la riduzione del mondo ad un IO che si
perde per potersi “reincarnare” nei
propri appetiti? Come uscire da una condizione esistenziale che da ogni
parte sembra precludere all’uomo ogni via di rapporto pieno con la sua vita, se
anche il desiderio di tale pienezza non è altro, in fondo, che l’ennesimo
tentativo di ridurre la realtà all’IO?
La risposta a
queste domande è ciò che Jung chiama Sé:
la strada per arrivarci, a parer suo, è il processo
d’individuazione. L’individuazione non è altro che il recupero della piena
aderenza con la propria autentica condizione nel reale: nella sua descrizione (pur
ancora solo “mentale”) della personalità, questa deve procedere nel recupero
della coscienza simbolica delle cose,
ossia della consapevolezza di quanto la realtà sopravanzi la cognizione umana.
Ma, oltre al fatto che l’uomo non è riducibile alla sua coscienza, bisogna pure
ammettere che la coscienza simbolica stessa può però essere soltanto una rivelazione, l’irruzione di qualcosa di
nuovo e di tale portata da interrompere il flusso dei pregiudizi e delle
dipendenze (aspettative). Una rivelazione, che non sia di nuovo una proiezione
della volontà di potere ridurre il
mondo all’IO, può certo darsi anche tramite veicoli umani quali un incontro od
una relazione terapeutica, ma è in se stessa qualcosa di intrinsecamente non
richiesta, non cercata, non immaginata, non attesa, non sperata. Gli effetti
della rivelazione, nella vita dell’uomo nuovo, sono la gratitudine e il perdono,
non intesi come aprioristiche risoluzioni della coscienza vigile, ma quasi come
una “nuova natura” di tutta quanta la persona. Essere grati e perdonare
costituiscono “l’ossatura” di un rinnovato rapporto, non egocentrico, con la
propria vita e con il reale. Nella gratitudine e nel perdono, l’uomo coglie
l’unicità di sé e la capacità del reale di rispondergli; coglie i propri
bisogni e l’assoluta libertà delle cose rispetto ad essi; vive riconciliato con
i propri dolori e con le proprie gioie, in un rapporto vitale con essi e con le
loro cause, note ed ignote; vive senza perdere ciò che lui è divenuto alla luce
delle esperienze passate, ma nell’apertura al nuovo che in qualsiasi momento
può donarlo a se stesso in una forma inaspettata; non ignora le proiezioni nel
passato e nel futuro della memoria e della progettualità umane, ma vive
sostanzialmente ancorato nel presente, dove tutto è ricevuto senza che nulla
sia dovuto.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
HUME D., Trattato sulla
natura umana, in Opere filosofiche, Roma-Bari,
Laterza, 1987, vol. I;
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti,
Mondadori, Trento 2013.
In realtà, nel suo "La psicologia del transfert", Jung, paragonando le dinamiche inconsce ai procedimenti alchemici, si rende conto di come questi ultimi indichino sempre, all'interno del processo, un intervento "spirituale" esterno che supera le abilità dell'operatore. Si parla proprio del "nuovo che irrompe" dall'esterno, insomma. Ciononostante, pare che Jung non riesca (purtroppo) ad identificare questo "nuovo" con nulla che sia extra-umano, seppure inconscio.
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