« Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore. »
(MATTEO VI, 21)
Nell’antropologia
biblica, “cuore” sta per “centralità della persona”, per l’integralità
della persona stessa. Il cuore è la condizione storica ed esistenziale della
persona, così come la vita le ha dato di essere; così come lei stessa ha
accolto la vita; così come lei stessa opera vivendo. Il Testo sacro, per la
precisione, riconosce aspetti diversi della persona, apparentemente
raffrontabili con i termini delle antropologie greca e latina:
1) ebr. Basàr,
simile al gr. Sarx, lat. Caro (it. “carne”). In ottica biblica,
però, il termine indica la totalità psicofisica dell’uomo, inteso nella sua
condizione di unitarietà identitaria;
2) ebr. Nefèsh,
simile al gr. Psyché, lat. Anima. E’ la vitalità della materia
organica, una sorta di sintesi (per così dire) delle aristoteliche anime
“vegetativa” e “sensibile”. Nefèsh è però strettamente legata al corpo e
specialmente al sangue (cfr gr. Thimòs, lat. Animus), tanto che in AT capita
che l’anima desideri cose materiali come il nutrimento ed il corpo sia fonte di
moti spirituali;
3) ebr. Ruàh,
simile al gr. Pneuma, lat. Spiritus. E’ il “punto di contatto” col
divino sia come il greco nòus, ossia
la “polarità terrena” della ragione peculiarmente umana (l’ “intelletto passivo”
di Aristotele, qui già incluso anche in basàr),
sia come Lògos, ossia come “polarità
celeste” (“intelletto attivo”). Essendo solo Dio la Vita, solo da Lui essa può
derivare ed essere mantenuta.
Si può notare
come, a dispetto di facili raffronti, l’antropologia biblica si distingua
nettamente, in effetti, da quella greca (specialmente platonica) per il suo
elevato grado di immanenza: il corpo è qualcosa di proprio, ma non propriamente
distinto dall’anima e dallo spirito; l’anima è qualcosa di proprio e di umano,
ma non propriamente distinto dal corpo e dal soffio divino; lo spirito, che
pure soffia da Dio, è altresì autenticamente proprio all’uomo integrale, anche materiale,
così com’egli vive quotidianamente.
In questo
quadro, il cuore assume il ruolo che si è detto: è la “natura” stessa della
persona, non distinta però da ciò che alla persona è dato di essere
dall’esterno che la genera e continuamente la condiziona, né da ciò che alla persona
è dato di essere a causa del suo tipo di relazione, col reale e con Dio,
riconoscibile tramite le sue scelte e gli effetti di queste sullo sviluppo
della sua stessa persona.
C’è un vecchio
anatema, in ambito cattolico, per cui all’atto della masturbazione viene
associata la minaccia della perdita della vista. Un’interpretazione
strettamente materiale del “vedere” ha fatto sì, dopo la critica razionalista
portata avanti dal secolarismo, che l’anatema in questione fosse svilito e
posto nel ridicolo alla luce dei fatti: nessuno perde la vista (o ne subisce un
calo) a seguito dell’esercizio di pratiche autoerotiche. Eppure, la strana
associazione proposta dalla tradizione ha un senso, purché per “vista” non si
intenda più il puro atto sensoriale del percepire oggetti con gli occhi, ma la
capacità di cogliere quanto circonda la persona che guarda.
La
masturbazione è la pratica di darsi piacere con le proprie forze: è un
esercizio, pertanto, della volontà di potenza. Il centro della masturbazione è
l’IO: l’io che intende reggersi su se stesso e che, rifiutando di riconoscersi
come dono di qualcun altro, vuole determinare da sé le modalità del proprio
approccio con il reale e soprattutto con gli altri. Il “tesoro” custodito dalla
masturbazione è l’io, che si fa accaparratore rapace di immagini stimolanti e
promotore di un uso strumentale e “cosificato” di circostanze e persone
asservite al suo proprio egocentrismo. Con questo non intendo demonizzare
l’autoerotismo, che in una certa misura rientra in quel dovere di auto-custodia
e di auto-tutela che è legittimo per ogni essere vivente: intendo però
rivendicare il fatto che tale pratica, se assunta a standard delle proprie
modalità relazionali, di fatto chiuda la persona al nuovo ed alla
compromissione di sé con gli altri. La masturbazione “elevata a sistema” assume
lo statuto della “mania di controllo”: ripropone il dramma, espresso
biblicamente nel mito del “peccato originale”, della creazione umana dei concetti
di “bene” e di “male”; riduce il mondo relazionale a ciò che l’io riesce a
controllare, volendolo sfruttare; riduce gli altri ad oggetti dei desideri dell’io, togliendo loro la possibilità di
irrompere nell’esperienza personale con tutto il loro bagaglio di novità,
escluso da uno sguardo a loro rivolto in senso prettamente estetico ed
esteticamente predeterminato.
Lo “sguardo
del cuore” non è un atteggiamento romantico verso il mondo: il romanticismo è
un filtro precostituito al quale la realtà viene ridotta, nell’essere per esso
interpretata. Lo “sguardo del cuore” è l’applicarsi dell’intera persona, per ciò che ella è, all’accoglienza di ciò che la
circonda. Lo “sguardo del cuore” è comprensibile alla luce della domanda «dov’è
il tuo tesoro?»: essa porta in luce la condizione dinamica della natura umana e
lo stretto legame tra ciò che si è, ciò che si vive, ciò che si accoglie, ciò
che si fa, ciò cui si ambisce e la percezione di ciò che ci circonda. Chi
intende salvare se stesso in un’immagine
di sé considerata positiva (per motivi religiosi o filosofici, ad esempio),
magari anche nella forma di una “visione del mondo”, si ritroverà a girare
attorno al proprio io ed a cogliere, nel reale, specialmente gli elementi di
convergenza e di divergenza con essa (con la propria ideologia, le proprie
ambizioni, il proprio stile di vita, la propria morale: il caso limite di
questa tendenza è quello del fondamentalista);
chi intende scoprirsi alla luce delle vicende cui partecipa, invece (solo per
citare l’estremo opposto al precedente: in realtà questo dualismo è puramente
concettuale, ossia praticamente
inesistente), si porrà verso le cose cercando di coglierne il nuovo e il sorprendente, rispetto al “già saputo”. Ogni giudizio, infatti, si
fonda su ciò che già appartiene a colui che giudica: per questo, bene e
male, fuori da un’immediata avvertenza personale ed esistenziale degli eventi
storici, sono sempre una creazione
umana.
Ma il nuovo,
che pure procede dalla realtà, procede anche dall’egocentrico. Ruàh, l’intelletto attivo che dall’esterno del “già saputo” può sempre irrompere
a scompaginare schemi e a far saltare pregiudizi, resta pur sempre elemento
vitale di ognuno, anche del fanatico, pure nei limiti delle personali
attitudini ed abitudini: così, ciò che è “tesoro” per la persona, ciò in cui il
cuore della persona risiede e ciò da cui procede lo sguardo, sfugge infine ad
ogni determinismo. La persona è sempre una “vittima/carnefice” della sua storia
ed insieme una nuova e “vergine” creatura, pronta per un nuovo ed inaspettato incontro,
per un percorso di conversione ed un rinnovato sguardo.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
CICCHESE G., I percorsi dell’altro. Antropologia e storia,
UniversItalia, Roma 2012;
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti,
Mondadori, Trento 2013;
LEVINAS E., MARCEL G., RICOEUR P., Il pensiero dell’altro (a cura di F. Riva), ed. Lavoro, Roma
2008;
MELCHIORRE V., Essere persona. Natura e struttura,
Fondazione Boroli, Novara 2007;
WITTGENSTEIN L., Zettel. Lo
spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino 2007.
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