« L’idea è per noi più importante del fatto; il concetto di ciò che uno dovrebbe essere ha più significato di ciò che uno è. Il futuro è sempre più lusinghiero del
presente. L’immagine, il simbolo hanno maggior valore di ciò che rappresentano
[…]. Così creiamo una contraddizione fra ciò che è e ciò
che dovrebbe essere. […] Perché ci
aggrappiamo all’idea, deliberatamente o inconsciamente, e mettiamo da parte il
reale? L’idea, il modello, sono una proiezione dell’io; sono una forma di auto-adorazione,
di perpetuazione dell’io, e pertanto piacevole. L’idea dà il potere di
dominare, di affermarsi, di guidare, di foggiare; e nell’idea, che è una
proiezione dell’io, non c’è mai negazione dell’io, disintegrazione dell’io.
Così il modello, o l’idea, arricchisce l’io; e ciò è anche ritenuto amore. Io
amo mio figlio, o mio marito, e voglio che sia questo o quello, voglio che sia
qualche altra cosa di quello che è. […] Tu scegli assecondando la tua
gratificazione; la tua scelta è il tuo pregiudizio.»
(KRISHNAMURTI,
Liberarsi dai condizionamenti, Mondadori, Trento 2013, pp. 55-58)
La realtà è
adeguata alla vita: lo dimostra il fatto che la vita esista. Solo
un’identificazione della qualità della vita con la potenza può mettere in
dubbio questo dato: “siccome io non posso essere tutto ciò che il mio capriccio
vorrebbe, la realtà è inadeguata alla mia realizzazione”. Ma la realizzazione
è il compimento di ciò che si è: non
la trasformazione di una quercia in un albero da frutto.
E’
l’ipostatizzazione dell’attività del pensare in “pensiero”, a procurare la
separazione tra l’uomo, la realtà ed i suoi simili. Il “pensiero”, divenuto
autonomo dall’uomo, spinge l’uomo a trasformare in “diritti” le proprie
ambizioni: “devo essere questo”, egli
dice. L’unità è alla portata degli uomini, in questo mondo, come esito di un
cammino di compromissione reciproca e non come dato ontologico di partenza. Chi
teme il reale non si compromette con esso e chi non si compromette con esso,
può cogliere in esso soltanto le proiezioni dell’io, ritrovandosi a trattarlo
come “dispenser” di servizi, spesso conflittuali con le esigenze altrui. Chi si
fida dell’adeguatezza del reale alla vita, invece, si compromette con esso e di
conseguenza con gli uomini che incontrerà.
Il mondo è
ordinato, tant’è vero ch’è possibile compromettersi con esso. Non è possibile
compromettersi con qualcosa che non abbia un’identità e non può avere un’identità
ciò che non abbia anche un ordine. Ma l’ordine del reale, partecipabile in una
certa misura dall’uomo che ne fa parte,
è percepibile nella sua essenza solo da chi accetta di compromettersi con esso.
Colui che giudica il reale senza tuffarsi a capofitto in esso, ma restandosene
pavido a giudicare dall’esterno aspettando che le situazioni corrispondano al
suo gusto, non vedrà in esso che il riscontro o le contraddizioni rispetto ai suoi
capricci. La realtà sarà allora, per costui, “ordinata” nella misura in cui
potrà assecondare tali capricci; sarà “disordinata” nella misura in cui
andrà invece per la sua strada: “ma il
cielo e la terra fanno quello che vogliono, mentre gli uomini parlano” (Zhuangzi, testo taoista del sec. IV a.C.).
« Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore.»
(MATTEO VI, 21)
Nell’antropologia
biblica, “cuore” sta per “centralità della persona”, per l’integralità
della persona stessa. Il cuore è la condizione storica ed esistenziale della
persona, così come la vita le ha dato di essere; così come lei stessa ha
accolto la vita; così come lei stessa opera vivendo. Il Testo sacro, per la
precisione, riconosce aspetti diversi della persona, apparentemente
raffrontabili con i termini delle antropologie greca e latina:
1)ebr. Basàr,
simile al gr. Sarx, lat. Caro (it. “carne”). In ottica biblica,
però, il termine indica la totalità psicofisica dell’uomo, inteso nella sua
condizione di unitarietà identitaria;
2)ebr. Nefèsh,
simile al gr. Psyché, lat. Anima. E’ la vitalità della materia
organica, una sorta di sintesi (per così dire) delle aristoteliche anime
“vegetativa” e “sensibile”. Nefèsh è però strettamente legata al corpo e
specialmente al sangue (cfr gr. Thimòs, lat. Animus), tanto che in AT capita
che l’anima desideri cose materiali come il nutrimento ed il corpo sia fonte di
moti spirituali;
3)ebr. Ruàh,
simile al gr. Pneuma, lat. Spiritus. E’ il “punto di contatto” col
divino sia come il greco nòus, ossia
la “polarità terrena” della ragione peculiarmente umana (l’ “intelletto passivo”
di Aristotele, qui già incluso anche in basàr),
sia come Lògos, ossia come “polarità
celeste” (“intelletto attivo”). Essendo solo Dio la Vita, solo da Lui essa può
derivare ed essere mantenuta.
Si può notare
come, a dispetto di facili raffronti, l’antropologia biblica si distingua
nettamente, in effetti, da quella greca (specialmente platonica) per il suo
elevato grado di immanenza: il corpo è qualcosa di proprio, ma non propriamente
distinto dall’anima e dallo spirito; l’anima è qualcosa di proprio e di umano,
ma non propriamente distinto dal corpo e dal soffio divino; lo spirito, che
pure soffia da Dio, è altresì autenticamente proprio all’uomo integrale, anche materiale,
così com’egli vive quotidianamente.
In questo
quadro, il cuore assume il ruolo che si è detto: è la “natura” stessa della
persona, non distinta però da ciò che alla persona è dato di essere
dall’esterno che la genera e continuamente la condiziona, né da ciò che alla persona
è dato di essere a causa del suo tipo di relazione, col reale e con Dio,
riconoscibile tramite le sue scelte e gli effetti di queste sullo sviluppo
della sua stessa persona.
C’è un vecchio
anatema, in ambito cattolico, per cui all’atto della masturbazione viene
associata la minaccia della perdita della vista. Un’interpretazione
strettamente materiale del “vedere” ha fatto sì, dopo la critica razionalista
portata avanti dal secolarismo, che l’anatema in questione fosse svilito e
posto nel ridicolo alla luce dei fatti: nessuno perde la vista (o ne subisce un
calo) a seguito dell’esercizio di pratiche autoerotiche. Eppure, la strana
associazione proposta dalla tradizione ha un senso, purché per “vista” non si
intenda più il puro atto sensoriale del percepire oggetti con gli occhi, ma la
capacità di cogliere quanto circonda la persona che guarda.
La
masturbazione è la pratica di darsi piacere con le proprie forze: è un
esercizio, pertanto, della volontà di potenza. Il centro della masturbazione è
l’IO: l’io che intende reggersi su se stesso e che, rifiutando di riconoscersi
come dono di qualcun altro, vuole determinare da sé le modalità del proprio
approccio con il reale e soprattutto con gli altri. Il “tesoro” custodito dalla
masturbazione è l’io, che si fa accaparratore rapace di immagini stimolanti e
promotore di un uso strumentale e “cosificato” di circostanze e persone
asservite al suo proprio egocentrismo. Con questo non intendo demonizzare
l’autoerotismo, che in una certa misura rientra in quel dovere di auto-custodia
e di auto-tutela che è legittimo per ogni essere vivente: intendo però
rivendicare il fatto che tale pratica, se assunta a standard delle proprie
modalità relazionali, di fatto chiuda la persona al nuovo ed alla
compromissione di sé con gli altri. La masturbazione “elevata a sistema” assume
lo statuto della “mania di controllo”: ripropone il dramma, espresso
biblicamente nel mito del “peccato originale”, della creazione umana dei concetti
di “bene” e di “male”; riduce il mondo relazionale a ciò che l’io riesce a
controllare, volendolo sfruttare; riduce gli altri ad oggetti dei desideri dell’io, togliendo loro la possibilità di
irrompere nell’esperienza personale con tutto il loro bagaglio di novità,
escluso da uno sguardo a loro rivolto in senso prettamente estetico ed
esteticamente predeterminato.
Lo “sguardo
del cuore” non è un atteggiamento romantico verso il mondo: il romanticismo è
un filtro precostituito al quale la realtà viene ridotta, nell’essere per esso
interpretata. Lo “sguardo del cuore” è l’applicarsi dell’intera persona, per ciò che ella è, all’accoglienza di ciò che la
circonda. Lo “sguardo del cuore” è comprensibile alla luce della domanda «dov’è
il tuo tesoro?»: essa porta in luce la condizione dinamica della natura umana e
lo stretto legame tra ciò che si è, ciò che si vive, ciò che si accoglie, ciò
che si fa, ciò cui si ambisce e la percezione di ciò che ci circonda. Chi
intende salvare se stesso in un’immagine
di sé considerata positiva (per motivi religiosi o filosofici, ad esempio),
magari anche nella forma di una “visione del mondo”, si ritroverà a girare
attorno al proprio io ed a cogliere, nel reale, specialmente gli elementi di
convergenza e di divergenza con essa (con la propria ideologia, le proprie
ambizioni, il proprio stile di vita, la propria morale: il caso limite di
questa tendenza è quello del fondamentalista);
chi intende scoprirsi alla luce delle vicende cui partecipa, invece (solo per
citare l’estremo opposto al precedente: in realtà questo dualismo è puramente
concettuale, ossia praticamente
inesistente), si porrà verso le cose cercando di coglierne il nuovo e il sorprendente, rispetto al “già saputo”. Ogni giudizio, infatti, si
fonda su ciò che già appartiene a colui che giudica: per questo, bene e
male, fuori da un’immediata avvertenza personale ed esistenziale degli eventi
storici, sono sempre una creazione
umana.
Ma il nuovo,
che pure procede dalla realtà, procede anche dall’egocentrico. Ruàh, l’intelletto attivo che dall’esterno del “già saputo” può sempre irrompere
a scompaginare schemi e a far saltare pregiudizi, resta pur sempre elemento
vitale di ognuno, anche del fanatico, pure nei limiti delle personali
attitudini ed abitudini: così, ciò che è “tesoro” per la persona, ciò in cui il
cuore della persona risiede e ciò da cui procede lo sguardo, sfugge infine ad
ogni determinismo. La persona è sempre una “vittima/carnefice” della sua storia
ed insieme una nuova e “vergine” creatura, pronta per un nuovo ed inaspettato incontro,
per un percorso di conversione ed un rinnovato sguardo.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
CICCHESE G., I percorsi dell’altro. Antropologia e storia,
UniversItalia, Roma 2012;
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti,
Mondadori, Trento 2013;
LEVINAS E., MARCEL G., RICOEUR P., Il pensiero dell’altro (a cura di F. Riva), ed. Lavoro, Roma
2008;
MELCHIORRE V., Essere persona. Natura e struttura,
Fondazione Boroli, Novara 2007;
WITTGENSTEIN L., Zettel. Lo
spazio segregato della psicologia, Einaudi, Torino 2007.
« Perché chi vorrà salvare la sua vita, la perderà; ma chi avrà perduto
la propria vita per amor mio, la salverà.»
(LUCA IX, 24)
La vita ha
senso. Hanno senso gli altri , hanno senso gli animali e le piante che vivono
con me. La mia vite ha senso: mi ci dedico e ne esco rinnovato. I gesti
gratuiti sono inutili, ma sensati: c’è differenza, tra un gesto gratuito ed un
gesto insensato. Il gesto gratuito non è fatto per dovere, per rispondere ad un
ordine, ad un comandamento, per seguire un preconcetto: il gesto gratuito fa
seguito all’avvertenza del senso ed accresce l’avvertenza di senso.
Il senso della
realtà può essere avvertito, ma non attribuito, né codificato in un concetto.
Se si attribuisce un senso alle cose, lo si attribuisce partendo dal proprio
passato, dai propri preconcetti: ci si chiude al nuovo che avanza dalla realtà,
si restringe la realtà a ciò che già si è visto. Se si codifica il senso delle
cose, lo si riduce ad un concetto partendo dal proprio passato e si riduce la realtà
a sé. Ridurre la realtà a sé significa porsi al centro del mondo: porsi al
centro del mondo significa ridurre la realtà ad un insieme di oggetti,
perdendone il senso più ampio.
Il senso della
realtà, di qualcuno, di una relazione, di una vigna, è immanente a quella
realtà, quel qualcuno, quella relazione, quella vigna: non è qualcosa che dal
cervello va verso queste cose, ma un’avvertenza nuova di queste cose stesse,
che stimola nuovi atteggiamenti ed è promossa da nuovi atteggiamenti. I nuovi
atteggiamenti, che promuovono l’avvertenza del senso, sono quelli che partono
dall’ascolto e non dalla volontà di potenza. La realtà, le persone, le
relazioni, le vigne, sono perdute in quanto tali una volta che siano
approcciate con volontà di potenza, con volontà di ridurle a sé ed al proprio
“già noto”. Il “già noto” è l’io: ogni volta che l’io viene difeso, come
immagine già nota di sé nella realtà, verso le persone e tra le vigne, queste
cose si perdono e si perde sé stessi. Gli altri non sono “un pranzo di gala da
riempire di senso” (Lenabuona), ossia da ridurre all’io: ma sono sensati e nel
lasciarsi compromettere con essi, questo lo si coglie. Nel lasciare alla
realtà, alle persone, alle vigne il diritto di venirci incontro nella novità
del loro essere, se ne coglie il senso, ma questa “concessione” non è autentica
finché vissuta come concessione, finché vissuta come atto dell’io: gli altri
sono attorno a noi e “recriminano” il riconoscimento della loro diversità, per
il solo fatto d’esserci come altro da
noi. Lasciare spazio all’altro, al nuovo che viene da fuori, significa vivere
gratuitamente, significa amare ciò che viene da fuori. Amare concede il
risparmio di quelle forze che l’uomo consuma volendo imporre se stesso alle
cose: ma amare per salvarsi in tali forze è di nuovo volontà di potenza, è di
nuovo io, è di nuovo dissipazione di sé e della realtà e degli altri.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti, Mondadori,
Trento 2013;
LEVINAS E., MARCEL G., RICOEUR P., Il pensiero dell’altro (a cura di F. Riva), ed. Lavoro, Roma
2008;
WALLACE D. F., Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2000.
«Le volpi hanno delle tane e gli uccelli dei nidi, ma il figlio
dell’uomo non ha dove posare il capo. […] Perché alla risurrezione né
si prende né si dà moglie, ma i risorti sono come angeli dei cieli.»
(MATTEO VIII, 20; XXII, 30)
Un uomo riesce
a vivere come tale, è tale, primariamente se si riconosce tale. Un uomo non può
riconoscersi tale, senza peccare di presunzione, se non illuminato dall’amore
di qualcuno. Solo l’amore ricevuto “strappa” davvero se stessi al nulla e dona
significato alla propria presenza, insieme al valore. Il valore di un uomo
esiste quando questi è trattato da qualcuno come tale.
Tutti siamo
alla ricerca del nostro valore e tutti siamo alla ricerca di un amore: un amore
che ci restituisca a noi stessi, al nostro senso, che ci strappi
dall’insignificanza, dal nulla. L’istinto di chi ha fame è quello di garantirsi
il cibo, garantirsi la sussistenza, garantirsi il senso, l’amore: la gelosia è
il legittimo bisogno di senso, lasciato in mano alla paura di vederselo
strappato. La gelosia è il legittimo bisogno di senso, lasciato in mano al
dubbio sulla sua effettiva esistenza. La paura e il dubbio sono i genitori
della dipendenza dagli altri: la dipendenza è la parodia dell’amore, perché
sostituisce, alla gioia di uno scambio vitale, gratuito e reciproco,
l’unilaterale ansia di annullarsi nell’altro.
Nella civiltà
del dono, il senso che l’amore altrui sa dare è gratuito e non garantito da
contratti: le persone sono libere di donarsi agli altri e di accogliere l’altrui
dono. Alla paura non è concesso il privilegio di imbrigliare gli altri a sé con
ricatti ed impegni insensibili alla natura personale del dono; alla speranza (che
è una forma dell’intelligenza) è affidato il compito di attendere l’altro, già riconosciuto e per il quale già,
gratuitamente, ci si spende. Nella civiltà del dono, l’amore è dono di sé
all’altro: donarsi all’altro è lasciare e cercare che l’altro, di cui si è
scoperta la novità e la bellezza, provochi continuamente l’immagine tendenzialmente statica che
si ha di sé; donarsi all’altro è accogliere l’idea di non essere
padroni di alcun “IO” da difendere. Nella civiltà del dono, ciò che si è lo si
attende come offerto da un altro. Nella civiltà del dono, del nuovo, non si confonde la naturale e
legittima e sacrosanta ricerca di contatto e comunione anche fisica, tra due
che reciprocamente si offrono l’uno all’altro, con la pretesa convulsa e
dipendente di prove sempre più rassicuranti (all’apparenza) sull’altrui
vicinanza. Nella civiltà del dono si può scorgere, anche dietro una porta
lasciata chiusa al proprio desiderio, la voglia di apertura, di tutela, di
porsi altrui ad un senso, una libertà, una reciprocità più grandi, più fondati,
più duraturi, più autentici, più umani. Nella civiltà del dono si può ancora
avere paura, di certo si ha ancora bisogno, ma il bisogno, la paura, l’amore
cercato, vengono accolte come cose ancora umane: non come pretesti ad ascesi
nella volontà di potenza, ma come offerte anch’esse, di sé, a se stessi ed alla
gratuità dell’altro che con noi si metterà in gioco.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009;
KRISHNAMURTI J., Liberarsi dai condizionamenti, Mondadori,
Trento 2013;
WALLACE D. F., Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, Torino 2000.