Finalmente a letto. Lentamente, abbandonata supina, la tizia
avvertiva, come dopo ogni “dritto”, le due contrastanti
sensazioni del solidificarsi progressivo di ogni singola fibra dei
suoi muscoli, quasi diventassero piombo e la mente -la mente, invece,
assumere le sembianze di un “calcinculo”.
L’impressione era
quella di restare una cosa sola, solo per uno sforzo sovrumano della
volontà: l’impressione era quella d’essere tenuta insieme con la
spranga; era quella di stare rimanendo una persona unica, unicamente
grazie alla catena che legava il seggiolino alla giostra che girava.
La
tizia fissava il soffitto: cioè, lo avrebbe fissato se avesse avuto
gli occhi aperti o se, avendo gli occhi aperti, nella stanza ci fosse
stata luce a sufficienza. Erano le due di notte (del giorno dopo il
“dritto”, ovviamente) e tutto ciò che la tizia percepiva, era il
suo grillo parlante che le sussurrava nel cervello «ecco, se adesso
ti distrai anche solo per un attimo, andrai in frantumi».
Difficile
darsi pace, quando la mareggiata “monta” e ti lavora peggio che
uno scippatore: pontili, biciclette inavvertitamente lasciate sulla
ciclo-pedonale e financo motorini, alberi, cabine dei bagnini e
tavolini dai bar; l’acqua sale, si porta via tutto e tu che sei lì,
puoi solo star a guardare.
La
tizia fissava il soffitto nella notte: cioè, lo avrebbe fissato se
avesse avuto gli occhi aperti o se, avendo gli occhi aperti, nella
stanza ci fosse stata luce a sufficienza. E’ chiaro che sentir
girare un “calcinculo” in testa, non è che sia la condizione
ideale per addormentarsi e del resto, il trasmutare dei dorati
muscoli in piombo, dopo un “dritto”, non è che sia la condizione
ideale per alzarsi.
Quand’era
bimba, la tizia già precocemente passava le notti a fissar il cielo
nero dalla finestra antistante il letto: all’epoca, s’interrogava
inspiegabilmente sulle dimensioni dell’Universo; ora, si chiedeva
che senso avesse scegliere d’essere qualcosa, piuttosto che
qualcos’altro, se poi bastava una mareggiata a sottrarre ogni
effetto della libertà d’essere ed ogni nuova occasione di Gioia.
Quand’era
bimba, già precocemente passava le giornate a specchiarsi, la tizia
e camminava su e giù lungo l’argine del fiume, con Licia e l’una
e l’altra si rispecchiavano l’una nell’altra: l’una nelle
parole, nelle esperienze e nelle sensazioni
verbalmente trasmissibili dell’altra, poteva vedersi.
«“Io
ti vedo”, dice
in Avatar», pensava
la tizia fissando il soffitto (o meglio, lo avrebbe fissato se avesse
avuto gli occhi aperti o se, avendo gli occhi aperti, nella stanza ci
fosse stata luce a sufficienza): sapeva benissimo cosa volesse dire e
quanto gli occhi, poco c’entrassero.
Quand’erano
bimbe, Licia e la tizia, ovviamente erano erano bandite dai giochi
dei maschi e del resto, il disprezzo era reciproco: l’unica “palla”
che contemplavano, Licia e la tizia, era quella che minacciava le
loro chiacchierate, per l’imposta presenza di quegli esserini
gretti col pisello.
Crescendo,
Licia non aveva perso il piacere delle compagnie femminili, mentre la
tizia aveva perso il piacere di sentirsi “vista”: quel
peripatetico, originale modo che da piccole avevano trovato, lei e
Licia, per “vedersi”, si era ridotto a
un pisciatoio pubblico delle impressioni altrui sulla sua persona;
come se il mondo fosse
ora stato popolato soltanto di maschi, che pensano solo da maschi.
E
allora, che maschi siano! Se non poteva essere vista, né vedere, la
tizia avrebbe potuto perlomeno essere “sentita”… e “sentire”.
Non ci badò poco a capire l’enorme fraintendimento in cui era
caduta, la tizia: davvero e per molto, molto tempo, aveva creduto che
fosse in effetti possibile riempire il cuore, usando come “porta”
d’accesso quella che aveva fra le gambe.
La
tizia era famosa per la scorrettezza politica e la mascolinità dei
suoi commenti oggettivanti sui maschi: ovviamente molto era
“personaggio”, era “fiction” architettata a bella posta per i
fottuti (e le fottute) “benpensanti”, ma tutto sommato, c’era
di base quel fraintendimento del “sentire”, come inutile
surrogato del “”vedere”. La tizia tirò avanti finché potè ed
un bel giorno, non potè più.
La
tizia era con Francesco, quando capitò il “fattaccio” e cioè
la desertificazione. La desertificazione è un problema serio, se
campi di pesce. La tizia pensava al soffitto che non vedeva, ad occhi
chiusi nella notte e proprio mentre si teneva insieme con la spranga;
proprio mentre la disperazione la faceva tener aggrappata alle
catenelle -che a loro volta tenevano il seggiolino ancorato al
“calcinculo” del suo cervello, ecco, proprio allora la tizia
penso all’ironia insita in una mareggiata che spazza via ogni
motivo di Gioia, dopo lo spauracchio di una desertificazione.
La
vita è beffarda. La tizia stava solo cercando un fattorino per il
suo negozio, quando contattò il tizio. L’incontro preliminare
sarebbe dovuto essere stato fugace: il tizio voleva conoscere i
perché e i “per-come” dell’offerta lavorativa, il tipo
d’impegno richiesto e cose così, insomma.
Il
tizio faceva il bagnino, d’Estate, ma la tizia non avrebbe saputo
dire se si fosse trattato esattamente di un classico “vitellone”
felliniano o più semplicemente, di un ragazzo che badasse certo a
divertirsi potendo, senza troppi problemi, ma non per forza “fissato”
con le turiste svedesi: nemmeno le interessava in realtà, visto che
cercava solamente un fattorino per il suo negozio.
I
caffè durano poco, specialmente quelli presi al bar; specialmente
quelli presi senza fumarci dietro. Un caffè al bar, senza fumarci
dietro, dura troppo poco per chiarire a un (bel) ragazzo una proposta
lavorativa. Ecco, un caffè dura già un po’ di più, se l osi fa
seguire da un minimo di passeggiata.
Quand’erano
bimbe,
la tizia e Licia
camminavano
non solo su e giù lungo
l’argine del fiume, ma
anche sulla collina, mentre
l’una e l’altra si rispecchiavano l’una nell’altra con
le parole, le esperienze
e le sensazioni
verbalmente, reciprocamente
trasmissibili. Da quanto
tempo la tizia non si specchiava più? La tizia non amava poi tanto,
gli specchi: mentre Licia non
aveva perso il piacere delle compagnie femminili, la tizia aveva
perso il piacere di sentirsi “vista” ed
il suo specchio, si era
ridotto a
un pisciatoio pubblico delle impressioni altrui sulla sua persona.
Vedeva
la collina “sua” e “di Licia”, la tizia, passeggiando con il
tizio. Era inverno, il tizio d’Estate faceva il bagnino ed un
bagnino -lo sa chiunque viva sulla costa, d’Inverno è come “un
pesce fuor d’acqua” (in tutti i sensi). Un bagnino si rispecchia
negli ombrelloni, nelle sceneggiate “buttate su” per i turisti (e
le turiste), nelle caciàre della vita di spiaggia, nei giochi
all’aria aperta, nei gavettoni di Ferragosto e nelle serate di
musica, danze e relazioni e divertimenti e bevute. D’Inverno, un
bagnino non sa dove specchiarsi e forse, d’Inverno, nemmeno ad un
bagnino piace poi tanto, lo specchio.
Quand’erano
bimbe,
la tizia e Licia
camminavano
rispecchiandosi
l’una nell’altra grazie
alle parole, alle
esperienze ed alle
sensazioni
verbalmente trasmissibili. Da
quanto tempo la tizia non si specchiava più? Se un caffè di lavoro
diventa una passeggiata interessante, rischia di diventare uno
specchio in cui guardarsi non è poi così male: se non altro, perché
non somiglia ad un orinatoio.
La
tizia aveva iniziato a subodorarlo da tempo, che forse, provar a
riempire il cuore passando per la fica non è poi tutta questa
strategia. Il punto è che il cuore è esigente e mangia solo ciò
che gli piace: può tirar avanti per un po’ con gli avanzi, a
sopravvivere, ma come in una perpetua quaresima.
Riempire
il cuore significa dargli quello che a lui piace, aveva oramai
sentenziato la tizia. Al cuore piace piacere alla gente che gli piace
ed al cuore de la tizia, piacevano le persone che si rispecchiavano
con lui con le parole, le esperienze e le sensazioni reciprocamente
trasmissibili.
Le
labbra del tizio erano state come una pioggia su un deserto: l’acqua
non scivolava via, cadendo su una terra per troppo tempo riarsa,
perché uno specchio d’acqua, piccolissimo eppure presente, s’era
a poco a poco formato con saltuarie, brevi, ma refrigeranti
pioggerelle preliminari: passo dopo passo, incontro dopo incontro,
passeggiata dopo passeggiata, trasmissione dopo trasmissione.
Era
ancora Inverno per entrambi, quando la tizia ebbe l’idea di un
pranzo sulla spiaggia per il tizio: era freddo, la gente non usciva
di casa da mesi e la televisione non faceva che preannunciare
catastrofi climatiche. La tizia aveva ripreso a guardarsi allo
specchio, prima di uscire di casa.
La
tavola era stata preparata “a Primavera”, con tanto d’addobbo
di fiori: si sa che la Primavera preannuncia l’Estate e che
l’estate, per i bagnini, è il trionfo della vitalità e
l’abbandono del senso di smarrimento che li prende in Inverno.
Tutto era perfetto, tutto era studiato, tutto era curato.
In
principio, il tizio sentì un brivido lungo la schiena... “due
gocce” sulle braccia… il bisogno di mettere una maglia. La tizia
era talmente presa dal piacere della compagnia, che davanti ai primi
segnali del disagio altrui, temette solo di poterne essere la causa:
«cazzo… mica si annoierà!».
Presto,
anzi prestissimo, le due gocce erano divenute un nubifragio ed il
nubifragio era diventato una mareggiata e la mareggiata era diventata
uno scippatore, che s’era fottuto tutto lo stabilimento balneare,
lasciando il tizio lì, con l’acqua
che saliva
e saliva ancora,
potendo
solo starla
a guardare.
In
Francese, “mare” si dice “mer” e “madre” si dice “mère”:
è proprio vero, aveva pensato la tizia in mezzo alla tempesta, che
il mare dà la vita e dà la morte. La tizia avrebbe voluto uccidere
il mare, in un primo momento. Davanti allo scempio delle sue cabine
spazzate via, il tizio si era chiuso in casa promettendo di rifarsi
vivo a Primavera od al massimo, in Estate. La tizia non sapeva cosa
credere.
La
tizia ne aveva fatta di strada, dalle prime camminate insieme a
Licia, rispecchiandosi l’una nell’altra fino a che ogni specchio
non s’era trasformato in un orinatoio: l’arte di tagliarsi i
capelli da sola, solo saggiandone la lunghezza al tatto, era
l’esempio più banale della sua strepitosa ed acquisita “a calci
in culo”, abilità di sopravvivere ad ogni catastrofe.
Due
giorni. Due giorni erano serviti, alla tempesta, per portare
la tizia a chiedersi
che senso avesse scegliere d’essere qualcosa, piuttosto che
qualcos’altro, se poi bastava una mareggiata a sottrarre ogni
effetto della libertà d’essere, ogni nuova occasione di Gioia ed
ogni fiducia nelle sue
abilità di sopravvivere.
«La vita è beffarda
-pensava ora la tizia- anzi no, è un merda».
Era
notte, la tizia era supina sul letto e l’impressione
che aveva, era
quella d’essere tenuta insieme con la spranga:
la cosa che più avrebbe
desiderato, in quel momento, sarebbe stato abbracciare un amico -o
un’amica e piangere, piangere a dirotto sulla -vera o presunta-
inutilità dei suoi sforzi di crescita, davanti alle forze
soverchianti della natura e del caos, che insidiano la civiltà
umana.
«Alle
due di notte, chi cazzo voglio chiamare?». Di
potere piangere così, solo perché ne sentiva il bisogno, la tizia
non s’illudeva nemmeno: c’erano voluti anni a riprendere
l’abitudine e di certo, la desertificazione non aveva aiutato. La
tizia era lì: inaspettatamente, le sue abilità di sopravvivenza
s’erano trovate messe all’angolo alle due di notte e si sentiva
tenuta insieme con la spranga.
E’
chiaro che sentir girare
un “calcinculo” in testa, non è che sia la condizione ideale per
addormentarsi e del resto, il trasmutare dei dorati
muscoli in piombo, dopo
un “dritto”, non è che sia la condizione ideale per alzarsi:
qualcosa toccava pur fare
però, che ne andava della vita.
La
tizia era supina ed immaginava il soffitto al buio e stava per cadere
a pezzi con il grillo parlante che infieriva e non c’era uno
straccio d’amico, alle due di notte, a cui chieder un abbraccio di
misericordia, che per un momento sostituisse la spranga nel rischioso
compito di mantenerla insieme: erano anni, che non provava una
sensazione di tale impotenza.
Bum.
Rotolare dal letto, è più facile che alzarsi. L’inverno è
freddo. Il pavimento è freddo. Il cuore è freddo. Il freddo
toglierà l’entusiasmo, ma aiuta ad alzarsi per cercar una coperta:
una coperta, una sigaretta e il tasto d’accensione del PC. Anche il
PC era freddo, ma qui «o si fa lo svago o si muore», diceva la
tizia al suo grillo parlante.
Lo
schermo s’era finalmente acceso e il “calcinculo” s’era
finalmente spento, ma tutto questo non bastava affatto, ma manco per
il cazzo, a digerire lo scoglio che la marea le aveva piantato sullo
stomaco; la tizia non aveva potuto fare altro che dirsi a mali
estremi, estremi rimedi e tirar fuori il dvd più commovente che
avesse mai avuto in casa, onde innescare quell’ “effetto Heidi”
che, auspicabilmente, avrebbe innescato la sua catarsi notturna,
foriera di sonno e rinnovata lucidità.
Funzionava.