Nell’ebraico
biblico, la parola che in italiano è tradotta con “carne” è basàr, tradotta a sua volta con sarx (gr.) nel Nuovo testamento. Insieme
a nefésh e ruah, basàr è uno degli
attributi dell’uomo vivente innanzi a Dio: può indicare anche un pezzo di carne
(il prepuzio, ad esempio, circonciso davanti
a Dio), gli animali immolati (a Dio)
o un’affinità, come in Gn 37, 37 in cui è adottata per indicare una parentela (una
comunanza nel porsi innanzi a Dio).
Insomma, genericamente, basàr non
indica soltanto il corpo materiale, ma l’intero porsi verso Dio della
condizione creaturale. Similmente,
quando Paolo usa sarx per intendere “vivere nella carne” o “essere nella carne”, pure riferendosi spesso
alla caducità del peccato, intende chiaramente riferirsi, di nuovo, alla
fragilità della condizione creaturale con cui l’uomo si pone nei confronti di
Dio.
Ora, il
matrimonio cattolico si autocomprende come unione in una sola carne: che significa? Di certo l’unione non va intesa come
una fusione dei corpi fisici dei due sposi; che neppure vada intesa, però, nel
senso di un’unione ontologica delle
due nature degli sposi, ce lo dice la dottrina stessa. Esistono sacramenti,
come il Battesimo e l’Ordine Sacro, che conferiscono il
cosiddetto carattere, una “mutazione”
vera e propria della natura del ricevente. Il matrimonio, secondo la dottrina
cattolica, non conferisce alcun
carattere, ossia non produce alcuna nuova natura né nei singoli sposi, né nella
coppia in quanto ente unitario. Il matrimonio è indicato valere sino alla morte
fisica di uno o di entrambi i coniugi: altro “indizio”, questo, che lascia
comprendere com’esso sia inteso strettamente legato alla condizione esistenziale
creaturale, ossia, appunto, alla carne.
Dunque l’unione nella carne prodotta dal
matrimonio, a volere comprendere rettamente la dottrina cattolica, consiste non
tanto nell’unificazione fisica o spirituale dei due sposi, quanto nell’unione
in una modalità compartecipata di
porsi come creature davanti a Dio. Il che sarebbe come dire che gli sposi riconoscono
l’incontro avvenuto tra loro come
opera di Dio, affinché condividano nel reciproco sostegno le reciproche vicende
terrene ed i reciproci percorsi di santità. In parole semplici, il matrimonio
pare, piuttosto che unire, associare i percorsi terreni dei due
contraenti, che restano due pure ponendosi in comunione d'intenti nel relazionarsi a Dio. Questa condivisione dell’esperienza
creaturale è insieme simbolo (già e non ancora) e via (percorso fra il già e
il non ancora) dell’unità eterna fra Cristo e la Sua Sposa e non va “rotto”, per
molteplici e serii motivi: poiché incarnante l’eterna fedeltà di Dio (piano simbolico);
poiché incarnante il riconoscimento d’un intervento divino (piano vocazionale);
poiché costituente la stabilità affettiva di base su cui poggia la coesione
sociale.
La “rottura” del
matrimonio è peccato (“mancanza”) e
chi indirizza le attenzioni coniugali verso altri che il coniuge,
commette adulterio (“guasto”). Dio
intima nelle Scritture a non “romperlo”, ma ciò non significa che il matrimonio
sia "indistruttibile": significa solo che distruggerlo è una mancanza nella via alla santità, è un guasto apportato su più piani a qualcosa di valore. Ora, per i
guasti prodotti e per le mancanze vissute c’è il perdono di Dio, il quale,
secondo la retta dottrina della Chiesa, è morto specificamente per concederlo.
Come la Chiesa ammette, sin dalle persecuzioni dei primi secoli, che non sia da
tutti testimoniare eroicamente la fede nella propria vita e che qualunque
vigliaccheria è perdonabile davanti al pentimento, così nulla vieta alla
dottrina sul matrimonio di perdonare coloro che lo infrangono contro il comando di Dio.
Il matrimonio è indissolubile nel senso di “vietato
dissolverlo” (cioè nel senso che “romperlo” è sempre un guasto ed una mancanza da parte degli sposi), ma non nel senso ch’esso sia ontologicamente indistruttibile: esso “compone”
infatti gli sposi, s’è detto, esclusivamente sul piano della contingenza
terrena della relazione con Dio, la quale è per sua stessa natura… contingente,
per l’appunto, soggetta a tutte le fluttuazioni delle fragilità e vicende umane della vita. La fedeltà al matrimonio è legittimamente insegnata
dalla Chiesa come l’aspirazione massima di quella forma di percorso, ma riuscirvi
rientra nel novero della santità e non in quello del “minimo indispensabile”. Niente nella dottrina cattolica parla di un “minimo
indispensabile” per accedere al perdono, se non il desiderio sincero di esso,
unito a una sincera intenzione di fare meglio la prossima volta (anche reiterando lo sbaglio: non è il numero d’errori
ad essere valutato dalla dottrina, ma la retta coscienza al momento della
richiesta di perdono).
Tutto ciò che non è secondo il cuore di Dio, in un cristiano, sia sul
piano del simbolico che su quelli esistenziale e sociale, è mancante e ciò vale anche per il matrimonio: ma ciò che ovunque è mancante viene raggiunto dalla
misericordia del perdono di Dio, anche nel contesto di un adulterio. In questa
prospettiva, la sopravvivenza fisica di entrambi gli sposi "originari" non giustifica, davanti alla retta dottrina della Chiesa
Cattolica, la pretesa di alcuni che indicano la ricomposizione familiare
come unica via d’accesso al perdono:
ciò che si è rotto si è rotto, anche se romperlo non si doveva ed il farlo ha costituito una
mancanza grave, producente un guasto grave. La Chiesa non attende la risurrezione dei morti, nel perdonare l'assassino. Il perdono di Dio rinnova le vite e
le ricrea ed esso raggiunge il peccatore là dov’egli ora si trova: è il perdono a
muoversi per primo, dalla Croce ai peccatori, senza pretendere dall'errante, preventivamente, le forze
per avanzare.
Appaiono tre evidenze. La prima è che l’Ortodossia Cattolica custodisce
in se stessa tutti gli strumenti per fare
fronte ai cambiamenti sociali attuali, nella prospettiva della misericordia, senza rinnegare nulla di sé: si avverte un'esigenza d'autocoscienza, ma non
un problema d'insufficienza. La seconda è che l’indissolubilità del matrimonio è un obiettivo e non un pre-requisito (o meglio: è un pre-requisito nella misura in cui lo sono tutte le altre importanti indicazioni ortopratiche della Chiesa): è una vera e propria forma di santità ed in tal
senso soltanto può essere recepita, il che implica un cammino di discernimento
e formazione vocazionale serio, debitamente articolato e ben guidato sia nel tempo, che nelle circostanze. La terza è che un eventuale percorso penitenziale, eventualmente istituito per aiutare la santificazione degli adulteri, pare doversi configurare come salvaguardia della massima solidarietà possibile reciproca fra gli ex coniugi, cosicché la situazione attuale possa riparare qualcosa di quanto guastato, allo stesso tempo però tenendo conto della Grazia che procede oltre l'errore anche quando gli uomini si pongono nella condizione di non potere o non riuscire più, ragionevolmente, a tornare sui passi delle proprie passate mancanze.