I marsigliesi sono un prodotto
essenzialmente giudaico: si potrebbe dire che, sulle basi note di giochi
preesistenti, qualcuno si sia “divertito” a portare alcune piccole, ma
sostanziali modifiche, tali da trasformare il gioco in una cosmologia/antropologia. Il mazzo è infatti un sistema di 78 “segni
simbolici” (il numero 78, in ebraico, è reso dagli ideogrammi ע (hain) e ח
(cheth), che rispettivamente
rappresentano degli occhi ed una copertura: letteralmente, quindi, queste carte sono segni esoterici, protetti allo sguardo). Sono segni, ché riflettono i contenuti dei
concetti che l’autore ha voluto inserirvi; sono simboli, perché i contenuti che sorreggono i segni esterni, sia strutturali
che grafici, tengono insieme (seppure
come idee di certo formulate
razionalmente) il conosciuto e l’ignoto, il raggiunto e l’inconoscibile:
sono il genere di concetti che rimandano,
più che spiegare, esperienze che hanno a che fare più con la mistica, che con
la speculazione che ad essa consegue.
Formalmente, queste carte riprendono quelle
dei mazzi italiani che avevano aggiunto proprie allegorie pedagogiche, tratte
da modelli della società cristiana, ai mazzi di carte naib (“viceré”) che i mamelucchi importarono nel mondo latino:
mazzi, questi ultimi, consistenti negli attuali cosiddetti arcani minori (4 semi di cui tre medesimi[1]
al Marsiglia, con 10 carte numerali per
seme più tre figure), ma sprovvisti delle raffigurazioni umane per Fante, Cavaliere e Re (per il
divieto islamico di raffigurare il creato: delle tre figure Re, Viceré, Viceré in seconda, appaiono
solo i nomi) e del tutto ignoranti del personaggio della Regina (per la peculiare condizione della donna nell’Islam). Il
primo documento riferibile ai marsigliesi
è il foglio Cary, stampato a Milano[2]
ad inizi ‘500 e giunto a noi senza offrire la possibilità di stabilire la
struttura del mazzo cui sarebbe dovuto appartenere.
Strutturalmente, invece, i mazzi del
Marsiglia, come già quelli ferraresi, ricalcano con precisione “millimetrica”
lo schema giudaico dell’Albero della vita
cabalistico, nonché altri varî motivi di numerologia biblica, come ad
esempio i 7 giorni della creazione (7x [3=cielo]
=21 arcani maggiori + libero arbitrio;
7x [2= cielo/terra] =14 carte per
ciascun seme degli arcani minori). Gli arcani
maggiori sono 22 quante le lettere dell’alfabeto ebraico; le carte
numeriche di seme, per gli arcani
minori, sono 10 quante le sephirot
del suddetto “albero”, più quattro figurate
di orientamento: è possibile pertanto portare, tra mazzo e cabala, innumerevoli
parallelismi utili ai fini di lettura.
Fra la
struttura giudaica e l’immaginario cristiano delle icone, è chiamato a fare da
“raccordo” l’impianto ellenistico punti
cardinali/4+1 elementi, tramite l’arcano XXI, che funge da “bussola”. Qui,
i quattro animali della tradizione evangelica si pongono a determinare gli
“assi portanti” del sistema di riferimenti geografico-simbolici della
cosmologia: al loro centro, il quinto
elemento sta a riflettere, in una
rappresentazione speculare rispetto a quella dell’Albero della vita,
l’inserimento nel “quadro” dell’elemento umano, punto di convergenza e di
destinazione dell’intera struttura. E’ così che i tarocchi marsigliesi parlano
dell’uomo mentre parlano del principio generatore del cosmo.
Diversi
arcani, tra maggiori e minori, sono fedeli indicazioni della coerenza
d’impianto: XIII, l’innominato che raffigura la morte, può sovrapporsi in
ambivalenza al sentiero 23 della Cabala che porta la lettera מ (mem), che sta per “madre” (nutrimento);
LE MAT, privo di numero eppure posto
per esclusione al sentiero 32 dell’Albero della vita, contrappone al concetto
di passione l’immagine del libero arbitrio; LE SOLEIL – XVIIII, che tra gli arcani maggiori, coi suoi due
gemelli, presenta l’archetipo del nord quale punto di tramonto ed alba del
medesimo eroe, converge con Fante di denari che, coi suoi due
simboli uno a terra ed uno sospeso, mostra i caratteri ctonio e celeste d’una stessa
origine (nonché la scala di Giacobbe: rif. Gn 28,12). Gli esempi potrebbero
moltiplicarsi.
Sostanzialmente,
i tarocchi marsigliesi si profilano pertanto come un’opera di sintesi impostata
in questi termini: carte numeriche che innestano, su retroterra ludico islamico
(i semi), l’impianto sefirotico
giudaico; figure di semi che si
associano ai quattro diversi “àmbiti” dell’albero sefirotico e che godono, inoltre, di una possibilità di
orientamento “greco” sui punti cardinali e sugli elementi, attorno ad un quinto
axis mundi che è l’uomo; icone
dell’immaginario cristiano che si associano ai geroglifici dell’alfabeto ebraico aggiungendo il proprio “peso
specifico”, visivo, all’interpretazione. Proprio sul piano interpretativo, precisiamo
un punto. Che si usino le carte per “entrare” nella Cabala (uso mandàla) o che le si adotti per
divinazione e/o contemplazione e/od indagine psico-archetipica, resta vero che,
pure prescindendo dall’adesione alla loro
struttura, ma dati i fortissimi retroterra
ideologici di cui sopra, risulterà forzosa ed arbitraria, ogni cognizione dei
segni, tanto più questa vorrà prodursi lontana da una confidenza crescente con
le tematiche della cosmologia ellenica, oltreché delle iconologia e società
cristiane medievali, oltreché dell’ermetismo giudaico.
[1]
Invece del seme di Coppe, i mazzi
islamici riportano quello di Tûmān,
che letteralmente sta per “10.000” o per “moltitudini” e che comunque è
raffigurato da immagini di calici. Si sa che i mazzi islamici furono ispirati
dai contatti con le regioni asiatiche della Mongolia e della Cina: ebbene,
secondo la filosofia taoista cinese, “10.000” è proprio il numero degli esseri
che comporrebbero simbolicamente la creazione. Si può quindi dire che, sia nel
simbolismo cinese dei 10.000 trasferitosi nel mondo arabo, sia in quello
cabalistico di Coppe, il quarto seme
occupa il posto della creazione concreta, materiale, espressione e sede
visibile del principio divino invisibile e superno.
[2]
Milano fu probabilmente la città “matrice” delle tradizioni di carte ferrarese
e francese, a causa dei legami di sangue del suo reggente Francesco Sforza.
Questi fu fratello di quell’Alessandro, duca di Pesaro, a cui appartenne il più
antico (metà del sec. XV: coevo ai mazzi
cosiddetti Visconti-Sforza, i quali
però mostrano alterazioni di struttura, rispetto al modello tradizionale) tarocco
oggi a noi noto grazie a 15 carte superstiti: mazzo che è, ovviamente, anche il
più antico esemplare di quella che, stilisticamente, è detta dai varî studiosi “famiglia
B”, o “del nord-est”, o ferrarese.
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