L’identità personale è una
condizione relazionale: quando incontro qualcun@, la mia coscienza diventa l’auto-percezione
che da un lato, registra le mie reazioni all’incontro; dall’altro, registra le
reazioni dell’altr@; infine, compara le mie reazioni alle reazioni dell’altr@.
Così come si viene fisicamente al mondo a seguito di una relazione, così è anche
per l’identità personale: da un lato ci sta la relazione e dall’altro, la
specificità che si trova a vivere quella relazione.
I bambini più piccoli, forse a
causa del loro oggettivo bisogno anche fisico degli altri, mostrano di “sapere”
istintivamente quanto la loro stessa sussistenza dipenda dal riscontro esterno:
quando succede loro un evento anche soltanto minimamente traumatico, come ad
esempio lo scivolare mentre giocano, spesso si mettono a piangere per poi
smettere istantaneamente quando qualcuno li soccorra. Bimbi un po’ più grandi,
che finiscano col prendere un colpo in testa da un compagno mentre giocano,
vanno piangendo dall’adult@ più vicino, per smettere immediatamente nel caso in
cui quest’ultim@ imponga al colpevole di chiedere loro scusa o intervenga con
un cerottino o anche semplicemente un bacio sulla parte “dolente”; spesso, i
bambini si mettono immediatamente a giocare con quel ghiaccio che avevano con
tanta insistenza preteso dall’adult@ di riferimento, a seguito di un piccolo
incidente.
Forse, lo stesso vale per gli
adulti: possono far fronte alla solitudine con strumenti migliori rispetto a quelli
dei bambini; possono godere autenticamente della propria solitudine, ma non
possono restare saldi in loro stessi, fintanto che non sappiano che qualcuno,
da qualche parte, li pensa ed ha stima ed amore per loro. Forse, se da un lato la
“solitudine in quanto tale” rischia d’essere un problema, in effetti, soltanto
di quegli adulti ancora incapaci di reggersi sulle proprie gambe, d’altro canto
la “solitudine in quanto sensazione di abbandono” resta un problema “vita
natural durante” dell’umano in quanto tale: anche l’eremita più estremo, forse,
non sarebbe in grado di resistere nel suo proposito, se non pensasse che, da
qualche parte, c’è qualcuno che stia dando un senso al suo agire –e quindi al
suo essere- con un affetto personale e proporzionato all’impegno: forse, ciò può spiegare la disponibilità di molti a sottomettersi a prove
indicibili, nel nome di una religione o di un ideale; forse, ciò aiuta ad illuminare la relazione fra la sensazione d’avere deluso qualcuno od il
provare un amore non corrisposto ed il suicidio.
Ci sono persone che mostrano di
vacillare quando si trovano in contesti di solitudine ideologica: nessuno pare
pensarla come loro. Ci sono persone che mostrano di vacillare quando si trovano
a non essere mai l’oggetto di un dono, di un gesto di dedizione personale o di
una parola romantica: nessuno pare pensarle. Ci sono persone che mostrano di
vacillare quando si trovano in contesti in cui si sentono rifiutare sul piano
fisico: nessuno pare volersi compromettere con loro. Quale che sia il motivo d’avvertenza
di penuria nei propri riguardi, forse la sensazione pare avvertita universalmente
come problematica proprio per il fatto che si diceva, ovvero che la mancanza percepita
d’attenzione, andando a ledere quel “prodotto relazionale” che è l’identità, di
fatto demolisce la possibilità di considerazione positiva di se stessi. A
quanto pare, una prolungata auto-percezione nella prospettiva di carenza,
inibisce nel tempo la produzione di serotonina e di noradrenalina: quando tale
inibizione si fa cronica, si costituirebbero le basi fisiologiche per l’insorgere
di una “bella” depressione, magari anestetizzata con una o più dipendenze.
Se da un lato, il percepirsi -come
che sia- in condizioni di penuria rispetto alle relazioni umane, pare un dato
universalmente correlato all’incapacità di resistere alla vita, d’altro lato –e
proprio a motivo del suddetto dato generale, il contesto cui ciascuno
attribuisce la propria condizione di penuria “dice” della specificità della
persona sofferente. L’ipotesi è che faccia maggiormente soffrire quel tipo di
penuria che si sia avvertita non solo più frequentemente, ma anche nelle fasi
più importanti dello sviluppo della propria identità: infanzia e pubertà, per
essere più precisi. Una persona che sia sempre stata abituata a sentirsi
accolta riguardo le sue idee, ma raramente sul piano fisico, tenderebbe ad
assolutizzare il dato fino a ritenere di non essere accolta, fintanto che altri
non accettino di compromettersi fisicamente con lei; per contro, una persona
che sia sempre stata abituata a sentirsi accolta sul piano fisico, ma raramente
sul piano delle opinioni, tenderebbe ad assolutizzare il dato fino a ritenere
di non essere accolta, fintanto che altri non vedano in lei un riferimento morale
e/od intellettuale importante.
Se il discorso di cui sopra avesse una qualche validità, forse sarebbe, da un lato, possibile stabilire
come piacere a qualcun@, fino a riuscir a manipolarl@, nell’apprendere quale
penuria quest@ avverta nella propria vita; dall’altro, sarebbe forse possibile
capire perché molti incontri paiano determinati più da due carenze che si “incastrano”,
che da due piaceri che si condividono: sembra evidente, infatti, che le persone
non si preoccupino poi tanto di ciò che amano, finché si sentano carenti di ciò
che trovano indispensabile alla loro sopravvivenza. Se il discorso di cui sopra avesse una qualche validità, forse sarebbe possibile ipotizzare due
tipi fondamentali di atteggiamento, davanti alla percezione di una propria
condizione di penuria: la ricerca di consapevolezza a tale riguardo, piuttosto
che la sottomissione implicita ad essa.
Una persona che si trovi
inconsapevolmente a sottomettersi ad un’auto-percezione nell’ottica della
mancanza, potrebbe reagire sia con l’abbandonarsi ad uno stato depressivo, che
con l’abbandonarsi ad un solipsismo auto-narrato come “voluto” ed in effetti “reattivo”:
tale persona, in questo caso, andrebbe incontro ad una crescente nevrosi, nel
convincere se stessa di potere fare a meno degli altri. Una persona che si
trovi consapevolmente in un’auto-percezione nel segno della mancanza, potrebbe
rispondere sia dedicandosi ad accrescere strumentalmente le proprie abilità, al
fine d'imparare come convincere gli altri a scegliere di sopperire alle sue mancanze; sia
dedicandosi, in ogni circostanza, a distinguere ciò verso cui si sentisse
spinta dal bisogno, da ciò verso cui si sentisse spinta dal piacere.
Nella ricomprensione del proprio
vero piacere, al netto dei piaceri essenzialmente legati all’appagamento di un
bisogno, la persona in oggetto potrebbe procedere rapidamente nella conoscenza
di se stessa: si troverebbe presto nella condizione di conoscere, tra piaceri e
bisogni inalienabili, il “proprio posto” nel mondo; troverebbe nel “proprio
posto” percepito il “faro” capace di guidare le sue scelte in un contesto
personalmente significativo; troverebbe poi forse, nel procedere fattualmente verso
una meta ideale (personalmente utile e quindi sensata), tramite gesti coerenti,
l’approssimarsi a quello stile di vita ed a quella sensazione di valore di sé che,
in un linguaggio comune, si potrebbe definire “felicità”.