Quando si
incontra un essere umano, ci si deve per forza giocare tutto. Con gli esseri
umani, non si può fare “per finta”. Mai.
In
particolare, il vero fallimento della psicoanalisi specialmente freudiana non consiste nella sua
comunque riduttiva antropologia, o meglio: non consiste principalmente nel suo
impianto teorico, ma nella modalità clinica, dove con più sottigliezza emergono
le idee di uomo che stanno alla sua base. Il vero fallimento della
psicoanalisi sta nella distanza, frutto di un retaggio platonico prima ancora
che positivista, ch’esse mantengono tra paziente e terapeuta. La relazione
clinica si rivolge infatti al puro piano intellettuale, poiché puramente
concettuale (e perciò non umana) è la “barriera di ruoli” in cui la relazione
clinica impone di essere non vissuta,
ma espressa verbalmente: essa
trascura, della persona, tutto ciò che la rende “molto più” della propria auto-cognizione.
Il ruolo di terapeuta va distinto da quello del paziente, ma un conto è
distinguerlo come chi offre un termine sano per una relazione e un altro è
separarlo tramite la decisione aprioristica su cosa, una relazione autentica
con una persona nuova (il paziente), porterà il terapeuta a dover mettere in
gioco di sé.
Nonostante la
fondazione dell’inconscio abbia permesso alle psicoanalisi, in modi differenti,
di aprire lo sguardo su ciò che, della persona, sopravanza la sua
autocoscienza, le loro antropologie continuano ad identificare la persona con
la sfera psichica, per quanto estesa sino a confini ignoti. Nei fatti, la
relazione tra paziente e terapeuta viene di nuovo ridotto ad interazione
formale tra due autocoscienze, pure variamente collaborative (uso differenziato del transfert nelle varie "scuole") circa l’emersione
dell’inconscio: non si è davanti ad una relazione autentica tra due persone ed
è qui che “casca l’asino”.
Certo, non si
può pretendere (né sarebbe utile) che il terapeuta condivida col paziente tutti
gli ambiti della propria vita: questo non è richiesto in nessun tipo di
rapporto, neppure strettamente affettivo. Appare necessario, però, che il
terapeuta metta a disposizione della relazione clinica tutte quante le
dimensioni della sua persona, affinché al paziente sia offerta (non imposta)
un’esperienza autenticamente umana. Come ogni relazione autenticamente umana,
questo approccio clinico è evidentemente rischioso ed altamente compromettente
per entrambi: terapeuta e paziente devono accettare di intraprendere la
relazione senza avere deciso a priori dove questa li porterà.
D’altra parte,
in assenza di un’autentica compromissione da entrambe le parti, il paziente
viene di fatto lasciato solo proprio in quegli ambiti, diversi
dall’auto-coscienza che vive la relazione verbale clinica, in cui “teoricamente”
dovrebbero risiedere quelle sue ferite che chiedono cura. Lasciata sola, la
persona riproduce il “circolo vizioso” del suo disagio, magari spostandone i
sintomi da un piano esistenziale all’altro. La psicoanalisi può raggiungere
alcuni risultati nella misura in cui ciò che viene verbalmente posto in relazione
clinica, viene condiviso in modo sano: ma un conto è il recupero di
atteggiamenti socialmente accettabili; altro è il recupero di maggiore
controllo dell’IO sui complessi psichici; altro è la sparizione dei sintomi che
avevano spinto in terapia il paziente; altro ancora è il pervenire alla
guarigione, ossia all’uomo nuovo.
D’altra parte
la terapia, anche qualora fosse impostata secondo un alto grado di
compromissione del terapeuta, non necessariamente porterebbe alla guarigione
del paziente, anzitutto perché un rapporto umano resta pur sempre una relazione
fra due libertà: il modello sano di relazione offerto dal terapeuta richiede il
libero assenso del paziente. In seconda battuta, è necessario ammettere che
l’occasione di guarire può giungere all’uomo soltanto da una rivelazione del
reale entro gli angusti spazi del disagio: rivelazione che può giungere anche
tramite l’opera clinica, ma che nella sostanza è manifestazione di una
grandezza del reale infinitamente superiore al terapeuta che ne è strumento.
BIBLIOGRAFIA
di riferimento:
GALIMBERTI U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 2009.